La Via Smarrita

di Dira_
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12. 
 
Bice aspetta Fortunato di fronte alla quercia. Non riesce a rimanere ferma quindi va avanti e indietro, alza la testa ad ogni piccolo rumore e aspetta. Aspetta e odia quell'attesa perché nell'attesa c'è un mondo di possibilità, una più spaventosa dell'altra.
“Beatrice...”
La voce del suo soldato calma la sua ansia. Beatrice quasi gli si getta addosso,e viene rincuorata dall'abbraccio saldo dell'uomo, che la bacia con dolcezza. 
Se solo potesse rimanere tra quelle braccia per sempre …
“Che succede?” gli domanda Fortunato scrutandola in viso. È intelligente, ma non è capace di leggerle il cuore. Per fortuna.
“Nulla … sono solo contenta di vederti.” Gli sorride, accarezzandogli una guancia ombreggiata di barba. Non gliene cresce molta, facendolo apparire un eterno ragazzo. “Hai avuto problemi a lasciare il castello?”
“Ho trovato un modo facile per uscire.”
“Quale?” 
Fortunato esita e in quella esitazione Bice legge il tentativo di mentirle.
“Non mentirmi,” sbotta dura. “Come esci dal castello?”
“Ho seguito Benedetto,” ammette e alla sua espressione sbalordita aggiunge: “Mi tengo a distanza … Benedetto usa i sotterranei del castello per uscire, credo siano collegati a delle grotte.”
“La montagna è cava, c'è modo di attraversarla da sottoterra” conferma Bice. “Non devi più seguirlo però, è troppo pericoloso!”
“L'ho fatto solo una volta e non ho incontrato il mostro,” ribatte Fortunato. “Forse lo incontra altrove. Da allora uso questo sistema, ma non lo seguo più. Non sono più riuscito a coglierlo in flagrante.” Si rabbuia. “Anche quella volta, quando sono uscito, ne ho subito perso le tracce...”
“E così dev'essere. Non abbiamo ancora modo di affrontare il mostro!”
“Mi avevi detto che potevi sognare un modo per farlo...” 
Bice esita. Non ha modo di raccontargli la conversazione con lo spirito del bosco senza che Fortunato si metta in agitazione. Ancora non ha imparato a distinguere spiriti da diavoli. Forse non lo imparerà mai e va bene così. “Ho interrogato il bosco … il bosco mi risponderà, ma ha i suoi tempi.”
Fortunato fa una smorfia. Non è contento. “Della gente sta morendo, Bice … non che non mi fidi dei tuoi metodi, ma io credo a questi,” e tocca l'elsa della spada. “E la gente del castello altrettanto. Stiamo organizzando una nuova caccia, al calare del sole.”
“Stanotte? Non devi andare! Hai visto le tracce, è un mostro, non una creatura di questo mondo!” Gli prende le mani tra le sue, e Fortunato non scioglie la presa, ma si irrigidisce.
“E' mio compito difendere questa comunità. Non mi tirerò indietro. Non chiedermelo.”
Bice vorrebbe dargli uno schiaffo. La paura le attanaglia le viscere, perché sa che Fortunato non la ascolterà. Non con la sua spada e la sua testardaggine. “Promettimi che non ti separerai dai tuoi compagni … e che avrete sempre luce con voi.”
Fortunato abbozza un sorriso. “Nel bosco di notte non andremo mai alla cieca. Saremo pur senesi, ma non siamo gente stupida.”
“Allora portatene molte. Qui il buio è fitto.”
Fortunato annuisce, prendendole il viso tra le mani. Si china, e sfiora la fronte con la sua. “Quando sarà tutto finito, Beatrice De' Silvani, andrò da tuo padre e ti chiederò in moglie.”
Bice sorride e preme la fronte contro la sua. Sente il suo respiro, caldo. Una lieve pioggerellina comincia a bagnare le fronde degli alberi e i loro corpi intrecciati, ma non importa a nessuno dei due, mentre si baciano, accarezzano e si spogliano dai vestiti diventati ormai inutili. 
“Non metterci troppo...” mormora Bice stringendo Fortunato a sé, inspirando profondamente l'odore, imprimendoselo nella memoria. “Torna presto da me.”  
 
*** 
 
“Non esiste il tradito, il traditore, il giusto e l’empio, 
esiste l’amore finché dura e la città finché non crolla.”
  • Erri De Luca
 
Alina percorreva la tortuosa stradina in salita che portava alla Chiesa di San Giovanni. I primi giorni che era arrivata a Malacena si era chiesta se ve ne fossero altri, di edifici ecclesiastici in quel paesino tanto raccolto. L'Italia era famosa per due cose dopotutto: cibo e chiese. 
Aveva scoperto che ve n'erano state; una vicino alla porta Sud, e piccole cappelle negli incroci tra due strade, ma che per mancanza di persone che se ne occupassero erano state chiuse e sconsacrate. La chiesa di San Giovanni era rimasta l'ultima ancora in funzione. E neanche troppo prosaicamente, ospitava tutte le risposte che cercava.
Alina suonò il campanello della sacrestia; fuori, qualche goccia di pioggia bagnava rapida la strada ma subito evaporava. Un lieve velo di sudore le bagnava il viso. Non era stata la salita, né l'umidità. 
Era altro.
Don Doriano aprì la porta e la accolse con il sempiterno sorriso benevolo. “Eccoti qua … sei stata velocissima!”
“Sono a sua disposizione.”
“Entra, entra...” l'uomo si scostò per lasciarla passare. Odorava di sudore e incenso. Odore di stantio.
Assieme percorsero il breve corridoio che portava alla saletta letture. L'uomo le fece cenno di accomodarsi. “Qualcosa di fresco? C'è un caldo asfissiante, eh?”
“No, grazie.”
“Allora lo prendo per me. Aspettami qui,” e scomparve dietro una fila di scansie diretto probabilmente verso i suoi appartamenti privati. Alina udì una porta aprirsi e poi un rumore di passi allontanarsi. Sembravano quelli di una persona che aveva molta fretta. 
Non vi diede peso; la sacrestia era un territorio franco dove molti malacenesi si rifugiavano per un consiglio o, nel caso fossero anziani, per un po' di compagnia: e poi, era troppo occupata a tenere a freno il proprio nervosismo.
I risultati da Roma erano arrivati; la tisana di Marina era stata analizzata e presto avrebbe saputo cosa conteneva.
Alina era divisa: se una parte di sé sperava che la donna avesse davvero cospirato con il Ghini per nascondere il lupomanaio, così da avere finalmente qualcosa su cui lavorare, dall'altra … detestava quella svolta. Con tutte le sue forze.  
Mi fidavo di Marina. 
Se aveva riposto male la sua fiducia, quante volte l'aveva fatto, e con chi?
Aveva ragione suo padre: era ancora un'immatura che necessitava di una guida.
Il rumore dei passi di Don Doriano la riscosse. L'uomo tornò reggendo un plico di fogli in una mano e un bicchier d'acqua nell'altra.
“Con questo caldo devi bere, figlia mia,” la apostrofò gentile. “Che poi è un attimo cenciare per terra, come dicono qui!”
Alina bevve ubbidiente un grosso sorso d'acqua, l’attenzione rivolta verso il plico. Era una cartelletta verde. L'uomo si sedette pesantemente su una sedia e la voltò con due dita. “Io di queste cose … numeri e chimica, mi intendo poco. Niente, anzi. Così me la son fatta spiegare.”
La spinse nella sua direzione e Alina la afferrò, aprendola: i fogli riportavano in alto il timbro di un laboratorio chimico di Roma. Alzò lo sguardo interrogativa e l'uomo scrollò le spalle.
“Te l'ho detto, ho ancora qualche buon amico laggiù … o come direbbe qualcuno, persone a cui chiedere favori che son ben contenti di farmeli. È così che funziona in Italia, no?”
Alina non commentò scorrendo le righe stampate, fatte da numeri e grafici che non capì. “Che cosa le hanno detto?”
“Un sacco di paroloni, ma di base la tisana che ti ha dato Marina non contiene sostanze allucinogene o che possano alterare lo stato mentale. Sono erbe, tra cui menta e timo, calendula … e anche radice di genziana. La nostra Marina è un’erborista vecchia maniera. Me lo disse, che è una cosa che si passa nella sua famiglia da generazioni.”
“Cate non sa nulla di questa roba,” la difesa le venne in automatico.
“Caterina è stata adottata,” fece un cenno distratto. “In ogni caso, Marina non ti ha drogato.”
Alina serrò le labbra: non avrebbe dovuto provare sollievo. Non doveva. La provava lo stesso.
“Però...”
Alina alzò la testa di scatto e Don Doriano, fraintendendo la sua espressione, le rivolse un gran sorriso. “Questo vecchio è testardo, e non si arrende facilmente,” frugò in una delle tasche dell'abito, cavandone fuori un libricino senza copertina, consumato dagli anni. Alina notò che aveva un adesivo sulla costola, quello della biblioteca comunale. Don Doriano inforcò gli occhiali e aggrottò le sopracciglia scorrendo con un dito inumidito di saliva le pagine. “Ho cercato queste erbe … e di per sé le analisi di laboratorio hanno ragione. Sono innocue per l'uomo. Però una in particolare la Catiorà, viene chiamata negli erbari medievali anche erba della paura, e serve per superare gli affanni che albergano nel cuore e nella mente.”
“Hanno l'effetto di un antidolorifico?”
“Sì, ma se interpretiamo quanto scritto qui, aiutano anche a dimenticare.”
Alina rimase in silenzio. Non era convinta e l'uomo se ne accorse.
“Sì, è un po' tirato per i capelli, ma è qualcosa su cui dobbiamo riflettere,” la avvertì. “Marina è un'infermiera, avrebbe potuto darti delle medicine, e invece ha scelto la strada delle erbe. È vero, è una cosa che fa abitualmente … va a coglierle nel bosco e poi le prepara in casa, e mi è giunta voce che le usi anche per le sue figlie e De Miris me ne parla un gran bene. Però si tratta di erbe colte nell'Altrove.”
“Questo cambia le cose immagino...”
“Vi è una robusta tradizione, qui in Toscana, di donne che trafficano con le erbe, e non si limitano a coglierle come si fa con i funghi … ma con riti complessi, in certi momenti del giorno o dell'anno. Le hanno chiamate in tanti modi … guaritrici, segnatrici … streghe, e con la Chiesa hanno sempre avuto un rapporto ambiguo … lungi da me dire che Marina voli in sella ad una scopa!” Don Doriano rise ma Alina non lo seguì, continuando a guardare quella sfilza di dati e grafici. “Però ha un arsenale potente al suo fianco. Un arsenale sconosciuto e che ad analisi chimiche non è rilevabile.”
“Pensate davvero che mi abbia fatto dimenticare la sera della caccia? ”
“È una possibilità che non possiamo escludere.”
"È reversibile?"
Don Doriano scosse la testa. “Non dobbiamo concentrarci su questo. Un sospetto così è sufficiente per far aprire un'inquisizione ai Chiaroscuri di Siena.” Si accarezzò la barba corta. “A questo però penserò io.”
Alina si mosse inquieta sulla sedia. “Io cosa devo fare?”
“Testimoniare quando sarà necessario.” Don Doriano si alzò in piedi andando alla finestra. Neppure quel giorno volava un filo di vento e l'uomo sospirò insoddisfatto. “Scuoteremo questo paese dalle fondamenta, Alina … devi essere pronta per quello che accadrà, e devi essere al mio fianco.”
“Io e mio padre lo saremo.” 
Don Doriano esitò. “Comprendo il tuo desiderio di informare Marian. Però voglio darti un consiglio, da amico e da padre, anche se di Chiesa ...”
Alina aggrottò le sopracciglia. “Dovrei nascondergli quello che abbiamo scoperto?”
L'uomo la fermò con una mano. “Certo che no, tuo padre è il tuo diretto superiore, non puoi e non devi farlo.” La raggiunse mettendole una mano sulla spalla. “Però sei una ragazza intelligente e capace, Alina, e farai grandi cose. Tuo padre purtroppo, per la sua condizione, non può più servire. Non limitarti ad essere le sue braccia, bambina mia … o finirai per essere nient'altro che la stampella di uno storpio per il resto della vita. È un compito nobile, certo, ma non il compito che Dio ha voluto per te.”
Alina esitò, confusa. Don Doriano non aveva ancora tolto la mano, ed era calda e pesante sulla sua spalla. Non la tratteneva, eppure non riusciva a muoversi.
“Mi state consigliando di abbandonare mio padre?”
Don Doriano fece una faccia sorpresa. “Assolutamente no. Non ti sto dicendo di abdicare al giustissimo compito di una figlia di rispettare i genitori e prendersi cura di loro  … ma parlo alla giovane vânător qui. Una volta finito tutto sarai richiamata a Roma.”
“È così.”
“E se riusciremo a liberarci del lupomanaio questo sarà un successo per te, non per tuo padre.”
“Il compito lo ha accettato lui...”
“Però a portarlo a termine sarai tu. Mi assicurerò che questo sia chiaro a tutti,” soggiunse gentile. “Se si scoprisse che la Confraternita di Malacena è corrotta verremo tutti rimossi dai nostri incarichi, e nel mio caso, verrei riassegnato. Con un po' di fortuna, qualche merito verrebbe riconosciuto anche a me … e forse potrei finalmente tornare a Roma, a casa.”
Alina annuì. “Lo spero per lei, Padre.”
Don Doriano le fece una carezza sulla testa, allontanandosi di nuovo verso la finestra. Si asciugò il sudore dalla fronte. “Se Dio vorrà potremo lavorare ancora assieme.”
“Sarebbe un onore,” ribatté pronta, perché certe risposte le venivano senza pensarci. Erano quelle che ci si aspettava da lei dopotutto. 
Don Doriano le rivolse infatti un sorriso di approvazione. “Nel frattempo, pensiamo al presente. Ti chiamerò presto. Non ti trattengo. Puoi andare.”
Quando Alina uscì dalla canonica aveva cominciato a piovere. Scese in paese con le parole di Don Doriano che le risuonavano  in testa: a differenza dell'uomo non riusciva a vedere così in là nel tempo. Però un'immagine nitida in testa la aveva, perché apparteneva al passato, anche se sarebbe presto diventata futuro: un appartamento silenzioso e il caos di una metropoli che ignorava la sua esistenza.
 
***
 
Verde ovunque.
Maddalena avrebbe ricordato quella vacanza attraverso i colori: il verde brillante delle foglie delle querce e l'oro giallo dei campi di grano. Le braccia abbronzate attorno alla vita di Caterina fasciata in una maglietta dei colori dell’arcobaleno mentre il motorino rosso sfrecciava nella lunga discesa che dal bosco arrivava fino alla città.
Fino a Sovicille, per essere più precisi. 
Quel pomeriggio aveva accampato la scusa di aver finito nuovamente i blocchi da disegno per potersi ritagliare del tempo sola con la sua ragazza. Michele e Stefano avevano deciso invece di fare un giro, ma vicino al paese, nel caso fosse ripreso a piovere. Pietro aveva deciso di accompagnarli.
La cortina d'acciaio che era il cielo non faceva presupporre nulla di buono ma a lei e Cate non importava; non finché potevano rubare quegli attimi di solitudine perfetta.
I primi gruppi di case e il cimitero nuovo di Sovicille salutarono il loro ingresso nella civiltà. Cate mise le frecce e si immise in una strada più larga, dove il traffico era vero e i rumori non giungevano attutiti. “Andiamo a parcheggiare in Piazza e ci si fa una passeggiata?” le propose oltre il rumore del motore.
Maddalena le batté una pacca sulla spalla per segnalare il suo assenso e Cate sfrecciò via. 
Sovicille era una città non tanto più grande di Malacena, almeno dal punto di vista geografico; cambiavano però il numero dei negozi e l'età media delle persone. Maddalena ebbe modo di notarlo mentre Caterina parcheggiava accanto ad un nutrito gruppetto di motorini. L'unico bar della piazza – era tipicamente toscano avere un unico esercizio servente alcolici per nucleo di ritrovo? - era gremito di ragazzi della loro età. Cate si sganciò il casco e gettò un'occhiata in quella direzione. “Cominciano a tornare dalle vacanze finalmente!” commentò contenta.
“Li conosci?” 
“A Sovicille conosco un po' tutti … che vuoi, fino alle Medie abbiamo frequentato le stesse scuole. Del paese eravamo quattro gatti.”
“Quindi della vostra età a Malacena, a parte il gruppo di Elia e te e Pietro...”
“Ed Alina,” aggiunse Cate. “No, a parte noi non c'è nessuno … ci sono un po' di cittini ma d'Agosto son quasi tutti fuori.”
Maddalena annuì, ascoltando a metà quello che l'altra le stava raccontando; pensava invece alla vânător
Erano giorni che non metteva piede nel Bar delle Silvani: era sparita da quando l'aveva aggredita. 
Meglio così.
A meno che non fosse l'ennesima mossa per studiarla, magari da lontano? Oppure davvero Marina era riuscita ad allontanarla definitivamente?
“A proposito di Alina, che fine ha fatto?”
Caterina mise a posto il casco dentro il sellino e si fece dare il suo, studiando come incastrarli. “Per messaggio m'ha detto che c'ha da fare con suo babbo.” Fece una smorfia. “Ma per me non è vero.”
“Pensi le sia successo qualcosa?”
“Perché?”
Maddalena si irrigidì. L'espressione dell'altra era un po' troppo attenta, quasi quella frase non le tornasse.
“Come perché? Era sempre con noi ed è sparita. L'ha fatto anche la settimana scorsa, no? Si era fatta male...”
Cate si strinse nelle spalle, rinunciando a mettere entrambi i caschi nella sella e agganciando il suo nell'incavo del gomito. “È per via del suo babbo, col fatto che è in carrozzina ed ha un botto di problemi di salute gli deve sta dietro.”
“Però non sei convinta...”
Cate esitò. “È strana in sto periodo … anche Pietro lo ha notato. È sempre incazzata e poi...” si mordicchiò un labbro. “Io un'idea me la sono fatta ma magari è una minchiata.”
“Una minchiata eh?”  
Cate le mostrò la lingua. “Sì, mi sta cuntando un sacco di minchiate,” la imitò. “Secondo me è un po' gelosa di tutto il tempo che io e Pietro passiamo con voi.”
Non era esattamente quello il motivo per cui la rumena era sul piede di guerra, ma Cate, pur nella sua inconsapevolezza, le aveva dato una chiave di lettura che le dava da pensare.
Non ce l'ha con me solo perché sono una succuba … ma perché le ho rubato le attenzioni della sua migliore amica?
“Non è che le piaci?” domandò mentre si incamminavano verso il baretto in fondo alla piazza.
“Ma va', ad Alina non piacciono le citte! Non credo le piaccia nessuno, ad essere onesti,” rispose l’altra con una scrollata di spalle. Ne era così convinta, e così serena a riguardo, che Maddalena le credette subito.
“È … asessuata? Si dice accussì?”
“Asessuale,” la corresse Cate con un sorrisetto saputo, schivando un conseguente pizzicotto. “Mica è colpa mia se sei ignorante!”
“Sentila ...” sbuffò. “Comunque, lo è?”
“Non me l'ha mai detto chiaramente, quindi boh … è una tipa un po' intricata, questo è sicuro.”
Per eufemizzare, ciatu meu. 
Maddalena sorrise, passandole un braccio attorno alle spalle. “Quindi non aiu a preoccuparmi?”
Cate le scoccò un'occhiata sorpresa; Maddalena non capì perché, ma non venendo respinta si chinò e le scoccò un bacio  sulle labbra. Quando si staccò Cate continuava a fissarla come se le fossero cresciute un paio di corna sopra la testa. “Cà sì?” domandò perplessa.
“No, no … niente,” incespicò e finalmente a Maddalena fu chiaro quel comportamento bizzarro. Erano davanti al bar e un gruppetto di ragazzi parlottava fissandole con aperta curiosità.
Ah … abbiamo fatto tìatro.
“Non dovevo farlo?” si informò preoccupata. Cate le aveva detto che non nascondeva la sua omosessualità, ma magari non l'aveva detto agli ex compagni di scuola.
“Scherzi?” esclamò l'altra con un sorriso smagliante, smentendo così quella teoria. “Ti dispiace se saluto un paio di persone? Poi si va in cartoleria, giuro...”
Maddalena scrollò le spalle, seguendola. Cate si avvicinò al gruppetto e venne salutata rumorosamente, segno che c'era confidenza tra di loro. Era una dozzina eterogenea di ragazzi e ragazzi in età da liceo, ma a differenza del gruppetto di Elia, davano l'idea di non annoiarsi e di apprezzare la reciproca compagnia pur essendo limitata ad un paio di tavolini, parecchie lattine di Monster e una cassa bluetooth che sparava musica da radio. 
 
Sognami adesso
Parlami d'amore che domani non sarò lo stesso
 
Maddalena fece un cenno di saluto generale quando Cate fece le presentazioni.
“Oh Silva, ma ti sei fatta la citta?” esclamò un ragazzo cicciottello in tuta da ginnastica. 
Cate la guardò nel pallone e Maddalena capì. E stavolta sul serio.
Le ho detto di tenerlo per noi. Però l'ho baciata di fronte ai suoi amici.
L'ho mandata in tilt.
Analizzò rapidamente la situazione: però non è che ci fosse molto da smentire in quel caso. Si era limonata l'altra in pubblica piazza.
“Dai Leo, non metterle in imbarazzo!” intervenne una moretta pesantemente truccata e con una maglietta di Shigenki no Kyojin, l’anime dell’anno. “Magari no?” 
Il modo in cui lo disse non piacque a Maddalena. Non che fosse maligno o aggressivo, anzi. Pareva però cercare conferma e proprio da Caterina che avvampò senza rispondere.
Chi minchia è questa? Le piace Cate?
“E invece sì,” le uscì sgarbato. Quelli erano amici di Caterina, si ricordò, non doveva difenderla. Doveva invece evitare di farle fare figuracce. 
Si sforzò di sorridere. “Sono la sua ragazza,” disse rivolta al tipo che aveva posto la domanda. 
La notizia fu accolta con tranquillità, segno che fortunatamente non tutti i compaesani di Cate erano dei completi stronzi. Rimasero qualche minuto a chiacchierare e Maddalena, fatta la sua buona azione, gioì dell'aria da cane bastonato della ragazza degli anime. 
“Si deve andà, magari n'altra volta...” disse Cate quando furono invitate ad accomodarsi per l'ennesima volta. “Pigliamo una roba da bere e via, ma magari ci si becca dopo!”
Dopo aver preso due lattine di tè dal bar si allontanarono lungo le stradine della città. Quando Cate le sfiorò la mano, Maddalena gliela prese e la intrecciò alla sua.
Cate ghignò. “Oggi sei di buonumore. Parecchio di buonumore!"
“Sono sempre di buonumore."
Sìee...” cantilenò divertita. “Devo ringraziare Gioia invece!”
“Chi?”
“Gioia, la ragazza che ha zittito Leonardo.” Cate le lanciò un'occhiata in tralice. “T'ha fatto mica ingelosì?”
“No,” mentì malissimo da come l'altra ampliò il sorriso. “Forse …” ammise con uno sbuffo. “C'è stato qualcosa? Perché ha palesemente le scalmane per te.”
Cate si strinse nelle spalle. “Un'penso proprio … ero io che le avevo per lei quando stavamo in classe assieme. Mi diede il due di picche!”
“Ah.”
Troppo tardi, gioia bedda. Prova a competere con una succuba. Prova.
Cate aveva l'aria di chi stava per mettersi a ridere, ma scelse saggiamente di dissetarsi con un sorso della propria lattina. “Anche se fosse, sò occupata ...” disse e poi portando la sua mano alle labbra, ci posò un bacio.
Maddalena si sarebbe squagliata in una pozza di commozione ma si dominò. Aveva una reputazione da mantenere. Bevve tè e tossicchiò. “Spero di non averti messo in difficoltà con i tuoi amici...”
“Ma di che? Adesso sarò quella che s'è trovata la citta fotomodella, sarò la più ganza del baccellaio!”
“Del che?” Scosse la testa perché si sentiva leggera ed era felice. In quel momento non pensava ai vânători, alla voce sotto al castello e al mostro che girava indisturbato per il bosco. Stava camminando per un grazioso borgo toscano mano nella mano con la persona di cui era innamorata, e non c'erano Sorveglianti o Confraternite a giudicarla. C'erano soltanto lei e Caterina e le prime gocce di pioggia della giornata. Era la felicità. 
 
Non se l'era proprio aspettato.
Maddalena l'aveva sorpresa, pensò Cate mentre entravano nella cartoleria con le labbra gonfie di baci scambiati da portone e portone per non bagnarsi di pioggia. 
Mentre l'altra si diresse a colpo sicuro verso gli scaffali che ospitavano blocchi e carta, Cate si mise vicino al bancone fingendo di guardare uno stand di gomme da cancellare dalle forme buffe.
Aveva detto che non voleva fare coming out con nessuno, e invece …
L'aveva baciata davanti ad una dozzina di sconosciuti e non solo: aveva detto a tutti che stavano assieme!
Era felice, ma anche confusa. Che senso aveva nascondersi a Malacena se poi non lo facevano altrove?
Caterina prese una gomma giocherellandoci, sotto lo sguardo vigile della proprietaria. Le restituì un sorriso falso perché non era la prima volta che l'anziana la seguiva come un falco temendo che si intascasse qualcosa.
Se fossi bionda e con gli occhi azzurri scommetto me la lasceresti masticà come una chewingum. 
Mise a posto la gomma con un sospiro, andando a cercare Maddalena. L'altra era in mezzo a tonnellate di carta e aveva già riempito il cestino di diversi blocchi. Quando le si avvicinò le rivolse un sorriso distratto.
Non ti capisco.
C'erano lati di Maddalena che le erano chiari come il sole; la sua difficile storia familiare, la timidezza mascherata da aggressività … persino i suoi disegni, criptici e scuri, erano più chiari del suo atteggiamento verso la loro relazione.
Vuoi nascondermi oppure no?
Forse non doveva farsi tutte quelle pare mentali per una storia che sarebbe durata un estate, ma anche lì: Maddalena l'aveva invitata a Catania per Natale. Le aveva detto che voleva durasse per sempre.
Non ti capisco.  
La sua espressione doveva essersi rabbuiata perché l'altra alzò la testa. “Cà succede?” 
Cate scosse la testa, prendendole il cestino. Le fece un sorriso e le prese la mano. Maddalena, senza esitazioni, intrecciò di nuovo la dita alle sue.
Non ti capisco. E non mi piace. 
Gnamo, andiamo a pagare … hai preso tutto?” 
“Siamo in ritardo?” 
“Tranquilla … Tea stacca tra un'ora, abbiamo tutto il tempo.” 
Cate non aveva idea di come risolvere quel dubbio che le pesava sullo stomaco. Perché magari aveva una spiegazione semplicissima, e lei era una stupida che si faceva un mucchio di seghe mentali. Però non c'era una domanda che riassumesse quel grumo di incoerenze che proveniva da Maddalena Russo. E questo non le piaceva.
“Quando siamo in paese … non vuoi che ti tenga per mano, vero?”
Non era quella la domanda giusta. O forse lo era, da come Maddalena si irrigidì. “Se non ti dispiace preferirei di no.”
“Figurati,” ma quando Maddalena sciolse la presa per prendere il portafogli e pagare non le venne di offrirle di nuovo la mano. 
Se le infilò in tasca, scortandola fuori dal negozio.
Maddalena si era accorta del cambio di atmosfera ma non disse niente. Corsero rapide verso la piazza, e si rifugiarono sotto una tettoia prima dell'ultimo scatto verso il motorino.  
“Vuoi che andiamo a salutare i tuoi amici? Abbiamo tempo, e poi piove... forse non è il caso di mettersi in strada.”
“No, meglio andare. Potrebbe peggiorare.”
Salirono sul motorino in fretta e furia. Al di là del suo stato d'animo la pioggia si stava intensificando e dovevano sbrigarsi. Dal bar sentì gli amici gridarle qualcosa ma sgasò e diede giusto il tempo all'altra di aggrapparlesi alla vita prima di partire. 
La strada della Montagnola era un nastro lucido e scuro e non avendo montato il parapioggia sul manubrio l'acqua le arrivava a scroscio direttamente sulla visiera chiusa. Maddalena era stretta a lei ma era silenziosa. Da come la stringeva però Caterina capì che si stava spaventando. 
Fece per rallentare quando qualcosa di scuro, veloce e grosso attraversò la carreggiata. Veniva dal bosco e Cate sterzò bruscamente, cercando di frenare. La ruota posteriore del motorino slittò e perse il controllo.
Sentì Maddalena urlare e poi, in una lunga allucinante manciata di secondi, il motorino si piegò e scivolando cadde a terra si diresse verso la massa scura, che si era immobilizzata in mezzo alla carreggiata.
Nel panico Cate la guardò; e l’animale le restituì lo sguardo.
Aveva occhi umani.
Arrivò il fracasso assordante dell'impatto e Cate perse i sensi.
 
“Cate! Cate, ciatu meu, svegliati! Parlami!” 
La voce che la chiamava veniva da lontano e Caterina ci mise qualche attimo a capire cosa le stava dicendo e perché. Spalancò gli occhi e si ritrovò stesa al lato della strada, sull'erba e sulla ghiaia. Maddalena era accovacciata di fianco a lei, senza casco, e la guardava terrorizzata.
Avevano avuto un incidente. Qualcosa aveva attraversato la strada, e per evitarlo aveva perso il controllo del motorino. Cate guardò a lato e lo vide tra asfalto e ghiaia, ancora acceso con una ruota che girava a vuoto.
“Cosa ...” balbettò e Maddalena, alla sua voce, si mise le mani sul viso mormorando un ringraziamento a qualche santo. 
Si alzò a sedere e non era possibile; non tanto la caduta, quella era possibilissima,.
Non ci siamo fatte niente.
Erano cadute male, questo lo ricordava. Erano cadute nel modo peggiore possibile, ma a parte una gamba e un gomito che le bruciavano – graffi e un po’ di sangue, ma niente di rotto – stava bene. E anche Maddalena, che stava dietro di lei, pareva non essersi fatta un graffio. Cate si tolse il casco ed era integro. 
Realizzò con orrore che c’era una cosa ben più importante. “Chi … chi abbiamo investito?!” balbettò tirandosi in piedi. 
“Non ti alzare!” esclamò l'altra ma Cate la ignorò per raggiungere il motorino e tirarlo su. Aveva la vernice della fiancata completamente grattata via, e il pedale del passeggero era piegato come buona parte della carrozzeria posteriore. Era il segno di un impatto.
Però non vedeva nessuno. Nessun corpo, neanche una traccia di sangue. 
“... Abbiamo investito qualcuno” mormorò. Maddalena, ancora seduta a terra, si alzò incerta. 
“Come?”
“Abbiamo investito qualcuno! Ha attraversato dal bosco e gli siamo finite addosso!” 
“Chi?”
“Come chi?!” le uscì rabbioso. “Non puoi non averlo visto, era grosso quanto una persona … aveva la faccia di una persona!” 
Maddalena la guardò in silenzio. 
Che sta succedendo?!
“Non me lo sono immaginato!” gridò. “Era … sembrava una persona ma era … a quattro zampe e…” gesticolò, frustrata. “Come hai fatto a non vederla?!”
Maddalena si avvicinò e a Cate venne istintivo fare un passo indietro.  
Sua sorella che non era mai al Bar. L'urlo agghiacciante nel bosco. Maddalena che spariva per ore intere e aveva paura di Alina. Alina che sembrava esser stata inghiottita da un buco nero e le consigliava di stare lontana da Maddalena. Gli occhi senza iride di Maddalena. L’urlo nel bosco.
E ora quell’animale con la faccia da uomo che avevano tirato sotto, ma era sparito nel nulla.
Singolarmente erano dettagli strani, ma spiegabili. Insieme la confondevano, e spaventavano, perché non li capiva. 
Stava diventando matta?
“Io … non ho visto niente.” disse Maddalena, ma non tentò di avvicinarsi stavolta. “Però se mi dici che c’era qualcosa sulla strada ti credo. Magari era un cinghiale. Siamo state fortunate. Devi farti controllare in Pronto Soccorso però ...”
Cate esitò. Le parole di Maddalena avevano senso, ma erano comunque una nota di un pianoforte che aveva perso l'accordatura. In teoria il tasto premuto era giusto, ma il suono che ne usciva era tutt'altra storia.
“Cate … sei svenuta… ” ribatté l'altra e tentò un passo. Cate stavolta non si mosse e si lasciò raggiungere. “Pi' favori … ciatu meu, chiamiamo qualcuno e facciamoci venire a prendere. Non ho campo sul telefono, o avrei già chiamato un'ambulanza.”
Cate controllò il proprio sfilandolo dalla tasca posteriore dei pantaloni. Aveva lo schermo tagliato a metà da una crepa ma funzionava. Come al solito non c’era campo.
Non me lo sò immaginata. 
Si passò una mano sul volto per tirare indietro i capelli fradici. “Se il motorino funziona è meglio tornare in paese … qua passano poche macchine, facciamo prima a salire da sole. Mi farò vedere dalla mamma. È infermiera, se devo andare in ospedale me lo dirà lei.” 
Maddalena fece una smorfia. “Sei sicura di riuscire a guidare?”
Cate annuì, inforcando il motorino e facendole cenno di sedersi dietro di lei.  “Non mi sò fatta niente, no?”
“Lo dici come se fosse una cosa brutta! È da quando eravamo in cartoleria che sei di umore nivùro, che ti prende?”
A me? Che cavolo prende alla realtà!
“Niente,” borbottò dando gas e rimettendosi in strada. La pioggia era sfumata in una condensa sottile e fastidiosa. Il bosco, vuoi per la botta, vuoi per il contrasto con il cielo stinto, aveva i colori di un televisore a cui era stata messa al massimo la saturazione.
Dava il mal di testa. Caterina non provò neanche a chiudere gli occhi: era pericoloso e forse, a chiuderli, li avrebbe riaperti su qualcosa di ancora più illogico. E spaventoso.
 
***
 
“Non ho capito perché dobbiamo stà fuori co’ sta pioggia!”
Michele servì un gran sorriso a Pietro, che fradicio e inferocito, stava camminando dietro di lui. Stavano percorrendo il viottolo che fiancheggiava le mura del paese. Oltre le chiome degli alberi si potevano intravedere infatti gli orli di pietra e mattoni. 
“L’esercizio fisico fa bene!”
“Rompermi una gamba scivolando sul fango però no!”
Michele ridacchiò, ottenendo in cambio un flusso di insulti. Apprezzava comunque che Pietro fosse lì, perché i suoi borbottii rendevano meno silenziosa quella passeggiata. 
La schiena di Stefano, che apriva la fila, segnalava che l’amico era lì con loro, ma la sua presenza iniziava e finiva lì: aveva la testa da tutt’altra parte.
Che succede Ste?
Aveva provato a chiedere, ma le sue domande erano rimbalzate contro una porta chiusa. Era persino arrivato a chiamare i suoi, chiedendogli se i nonni dell’altro stessero bene. Sua madre, che della nonna era buona amica, lo aveva tranquillizzato. I due arzilli vecchietti si stavano godendo l’estate catanese, tra mare e passeggiate. 
Forse avrebbe potuto chiedere a Maddalena di investigare.
“Che stiamo cercando oggi?” domandò Pietro.
“Stiamo controllando che tutti i viottoli segnati da Gianni siano agibili. Se vogliamo usarli l’anno prossimo dobbiamo controllare ci siano ancora … Gianni non ha assicurato che siano mantenuti.” 
Pietro sbuffò: “In un anno il bosco se li può ingoià.” Indicò verso le mura. “Al Comune passano tutto il tempo a potà attorno alla ciclabile … un anno fa ci furono problemi di permessi e per sei mesi gli operai non lavorarono. Stava pure crescendo l’edera sulle mura. Ci misero settimane per ripulire tutto … e dovettero pure aggiustare la ciclabile, le radici degli alberi avevano rotto il manto.”
Michele aggrottò le sopracciglia. “Tanto accusì? Come mai allora nel bosco il sentiero è sempre libero?”
“Di quello se ne occupa la famiglia di Cate. ”
“Cate lo pulisce?”
Pietro fece una smorfia divertita. “Macché … penso lo faccia Marina. E forse le dà una mano anche il Nero, il custode del cimitero.” 
“O magari hanno fatto un patto col bosco,” suggerì affascinato Michele. “Magari gli alberi non lo invadono e i Silvani in cambio li proteggono?”
Pietro alzò gli occhi al cielo. “C’hai una bella fantasia, vai …”
Michele rise. “Mbare, vivete in un paesino dove se non stai attento gli alberi ti mangiano casa, avete un castello diroccato e piove sempre. E avete sette porte che collegano all’Inferno! Non mi invento niente!” 
Pietro fece per dire qualcosa ma Stefano si fermò, obbligandoli a fare lo stesso. “Cà succede?” domandò Michele avvicinandosi. 
Stefano gli rivolse a malapena un’occhiata, tirando invece fuori il telefonino. “Ci sono di nuovo quelle strane tracce bianche,” e indicò una lunga striscia color gesso che attraversava il viottolo. In quel passaggio pallido le foglie risultavano schiacciate e morte.
“Qualche malattia?” domandò preoccupato a Pietro, che però scosse la testa.
“Non chiedete a me, di ste cose non ci chiappo…” esitò. “Però un mi sembra una cosa regolare.”
“Dovremo parlarne con Gianni?”
Stefano si accovacciò, scattando una serie di foto. “Potrebbe essere anche qualcosa che ha fatto la forestale stessa, magari proprio per curare il bosco,” suggerì. “Dubito comunque che ce ne siamo accorti solo noi se è così vicino al paese.”
“Allora è meglio se ne parliamo con Gianni no? Ci lavorava!”
Stefano fece una smorfia spazientita e si alzò seguendo la scia a ritroso, allontanandosi dal viottolo. “Unni vai?” lo chiamò parimenti irritato.
Perché è arrabbiato con me, che minchia gli ho fatto?
Se Michele fosse stato un’altra persona, magari con meno pazienza, magari decisamente meno pacifista, avrebbe preso Stefano da una parte e l’avrebbe scrollato finché non gli fosse passata la voglia di fare lo stronzo. O almeno finché non gli avesse fornito una spiegazione sul perché pareva trovare irritante persino dividere la stessa aria.
Sono il tuo migliore amico!
Si erano sempre raccontati tutto. Anche se, ad onor di cronaca, Stefano non parlava mai di quello che gli si agitava dentro. Poteva vomitarti addosso un’intera trama per una giocata, o ascoltarti parlare delle tue pene d’amore fino all’alba, ma di quello che provava lui non amava tanto parlare.
Era fatto così, e Michele c’era venuto a patti, avendo un altro fulgido esempio di costipazione emotiva nella sua vita.
Per certi versi lui e Malù sono uguali!
Però le cose stavano peggiorando. Stefano era più introverso del solito e anche sua sorella era preda di un assurdo umore altalenante. E poi, entrambi sparivano per ore per fare lunghe passeggiate in solitaria.
Temeva che il prossimo anno sarebbe stato il solo a tornare a Malacena. “Mbare sarebbe meglio non allontanarci!” chiamò di nuovo Stefano, che stava seguendo il sentiero con il telefono davanti a sé. Stava facendo un video. “Hai sentito cosa ha detto Rosi, ci sono degli smottamenti nel terreno!”
“Io un’sò capace a riportavvi indietro!” gli fece eco Pietro. “Ste, gnamo, così ci perdiamo come tre coglioni!”
“Soltanto un attimo…” Stefano fece qualche altro passo e poi finalmente si fermò. Si chinò di nuovo a fotografare qualcosa e anche stavolta Michele si sporse per capire cosa ci fosse di tanto interessante. Stefano di solito non aveva la foto facile, a differenza sua, ma erano giorni che scattava a destra e a manca per il bosco. Sarebbe stata una cosa positiva se non avesse avuto una punta maniacale che l’amico non aveva mai esibito prima.
Che stai cercando?
Anche quella domanda era caduta nel vuoto; l’altro gli aveva semplicemente detto che stava facendo archivio per quanto sarebbero tornati a Catania a scrivere il gioco.
L’amico scostò delle fronde e un tanfo di marcio colpì le narici di entrambi. Michele soffocò un conato di vomito.
Stefano si era portato la maglietta davanti al naso e stava scattando come un ossesso, una mitragliata di scatti. Quando si avvicinò a quella che a conti fatti era una carcassa di animale, Michele istintivamente gli mise una mano sulla spalla e lo tirò indietro. “Che minchia fai?”
“Non voglio toccarla, voglio solo avvicinarmi per scattare delle foto.”
“Picchì?” gli venne naturale e sconcertato chiedere.
“Ma che troiaio è?” sbottò Pietro avvicinandosi, diviso tra il disgusto e la curiosità. “E’ una carcassa di cinghiale?” 
Michele non aveva idea se quello fosse stato un cinghiale o meno; sapeva solo che quella poltiglia di ossa, pezzi di carne grigiastra e pelo era nauseante. Ed emanava un fortissimo odore di zolfo.
Come nelle porte?
Le avevano mappate tutte, lì non ce ne doveva essere nessuna. Non udiva neanche scorrere acqua quindi non poteva essere una sorgente di acqua sulfurea come Gianni gli aveva detto ce ne fossero parecchie nel territorio.
“Cosa l’ha ridotto così?” domandò Michele inquieto. “Non dovrebbe essere l’animale più grosso che avete qui?”
Pietro si passò una mano sulla testa. Aveva l’espressione preoccupata. “Ci sono stati degli avvistamenti di lupi in zona, quindi ci sono pure loro … e i lupi li cacciano, ma non si avvicinano così tanto al paese.”
“Forse un cacciatore?”
“Non è stagione e comunque nessuno farebbe sto schifo nel bosco. Se lo porterebbe a casa per scuoiarlo.” Pietro lanciò uno sguardo verso le mura. O dove avrebbero dovuto essere le mura. 
Si erano inoltrati così tanto nel bosco che non erano più visibili. Deglutì. “Torniamo indietro adesso?”
Stefano infilò il telefono in tasca e annuì. “Ho finito. Andiamo.”
Finalmente!
Michele aveva una gran voglia di scrollarlo. Tirargli anche un cazzotto se necessario; non sarebbe di sicuro servito a niente ma l’avrebbe fatto sentire meglio. 
Magari gli avrebbe tolto anche quella strana paura che pareva esserglisi incollata addosso come l’umido della pioggia.
 
*** 

Note:

La canzone del capitolo è "Riccione" dei The Giornalisti.




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