Tutto
può succedere
Capitolo
1
Benvenuti
a…
L’improvviso
strombazzare di un clacson mi svegliò di soprassalto. Una luce
intensa mi fece socchiudere gli occhi, portando una mano alla loro
altezza per cercare di ripararli. Quando il paesaggio intorno a me
divenne nitido e le iridi si abituarono, fui travolta dallo stupore
“Oh
mio Dio, non ci credo!” Abbassai
subito lo sguardo, focalizzandolo sulle mani, ruotandole di
centottanta gradi. Scattai in piedi e guardai incredula quel
meraviglioso parco che mi circondava.
Tutto,
compresa me stessa, appariva ai miei occhi come un disegno.
“Ha
funzionato!” Urlai euforica, iniziando a saltellare come una
bambina davanti ai regali la mattina di Natale. “Lo sto
sognando davvero! Davvero!”
Stavo
allegramente ridendo e gioendo come una matta, quando sentii qualcosa
tirare un lembo del mio pantalone. Mi voltai e, abbassando lo
sguardo, trovai due piccoli occhi color miele fissi su di me. Un
ragazzino sui sette/otto anni circa, o almeno così sembrava,
mi scrutava interdetto. “Signora, si sente bene?” Inclinò
confuso la testa da un lato.
“Signora!?”
“Signorina”
Sorrisi falsamente, molto falsamente. “Comunque, certo tesoro,
perché mi fai questa domanda?”
“Beh,
sta parlando da sola ed è in pigiama” Mi squadrò
dall’alto verso il basso. “Senza scarpe, per giunta!”
Sbattei
più volte le palpebre, constatando effettivamente che avesse
ragione. “Le
figure di merda pure nei sogni!” “Ah
sì, lo so! E’ che amo svegliarmi a contatto con la
natura, lo faccio tutti i giorni!” “Ma
che vuoi?”
Il
bambino corrucciò le sopracciglia, non molto convinto “Se
lo dice lei!” Fece spallucce e corse diretto allo scuolabus
appena giunto alla fermata, una cinquantina di metri poco più
in là.
“Ma
tu guarda, ‘sti ragazzini d’oggi!” Scrollai
la testa con disappunto. Fatto sta che quell’impiccione non
aveva tutti i torti: ero in pigiama, il mio pigiama rosa con le
farfalle, a piedi nudi, sotto a un albero, nel bel mezzo di un parco
cittadino. Però, in teoria, non sarebbe dovuto essere un
problema. Stavo sognando, per di più, ero cosciente di farlo…
Bastava desiderare un vestito e un paio di scarpe, e tutto si sarebbe
risolto! O
no?
Provai
più volte: mentalmente, a voce, mentalmente e schioccando le
dita, a voce e schioccando le dita! Cantando, ballando, recitando una
sorta di formula magica composta appositamente sul momento: “Un,
due, tre, un vestito con le scarpe addosso a me!”
Ma i miei piedi sempre scalzi rimasero. Sbuffai innervosita, stavo
veramente perdendo la pazienza. Questo sogno stava diventando un
incubo.
Nel
frattempo, la città sembrava svegliarsi. Via, via il traffico
diveniva sempre più intenso e diverse persone iniziavano ad
affollare il marciapiede che delimitava il parco. Cominciai a
sentirmi osservata: di tanto in tanto, percepivo il chiacchiericcio
di qualcuno che sembrava avermi notato, e come dargli torto? Avevo le
sembianze di una pazza scappata da un manicomio! E di certo, i lunghi
capelli scuri arruffati e il trucco tolto in malo modo la sera
precedente non erano d’aiuto.
Dovevo
assolutamente trovare una soluzione, benché stessi vivendo un
sogno, la situazione stava diventando pesante, e il tempo sembrava
passare troppo
lentamente,
come fosse realtà.
Dopo
esser rimasta per ore ed ore ad aspettare, senza praticamente far
nulla, se non passare da un albero all’altro, nascondendomi di
tanto in tanto da sguardi indiscreti tra i cespugli, decisi di
affrontare la cosa, mettendo da parte la timidezza. Tanto, prima o
poi, mi sarei svegliata, giusto? Anche perché, i raggi del
sole iniziavano a perdere il loro tepore, e i gorgoglii della fame
stavano diventando fin troppo rumorosi.
Sfruttato
il momento con la minima affluenza, attraversai di corsa la strada.
Iniziai a camminare a testa bassa, cercando il più possibile
di evitare lo sguardo dei passanti, che nonostante tutto, riuscivo a
percepire su di me. “Ma
quando finirà questo incubo? Non ne posso più!”
Il
cielo iniziava a imbrunire, e la temperatura si era abbassata
notevolmente. Ormai riuscivo a stento a trattenere le lacrime,
camminavo con la testa puntata a terra e la vista annebbiata. Per non
parlare dei piedi, il dolore della pianta poggiata direttamente
sull’asfalto era terribile e ogni due o tre passi saltellavo
incontrollata al contatto con qualche sassolino! “Voglio
svegliarmi, è una tortura!” Con
le braccia incrociate e le mani strette sulle maniche del pigiama,
vidi terminare il marciapiede. Istintivamente, non potei far a meno
di alzare lo sguardo. Sussultai alla vista dell’enorme cartello
pubblicitario al di là dell’incrocio: “Benvenuti
a Città dell’Ovest!” La
mia bocca si spalancò. Non che non avessi capito di essere
finita proprio in quel
mondo,
il campo visivo intorno a me parlava chiaro! Ma avere una conferma
concreta, e per di più, leggere il nome di quella
città, mi emozionò non poco. Forse, la speranza di
vivere un bel sogno non era ancora andata a farsi fottere! Sta di fatto,
che io continuavo a essere nella medesima situazione di ore, ore
prima. Cosa potevo inventarmi? “Quasi,
quasi mi metto a chiedere l’elemosina, tanto non mi conosce
nessuno…” Scrollai
subito la testa per l’assurdo pensiero, la disperazione ti
induce spesso a valutare l’impossibile. Volsi lo sguardo prima
a destra e poi a sinistra e vedendo una piccola via appartata dal
traffico, decisi di imboccarla. Lì sarei stata sicuramente più
tranquilla. Era una classica viuzza di quartiere costeggiata da
edifici di cinque o sei piani, la maggior parte muniti di grandi
balconate. Percorsi con calma una decina di metri, fin quando,
arrivata all’altezza di un enorme terrazza a livello, notai uno
svolazzante bucato appeso a dei fili, vicinissimo alla ringhiera che
lo delimitava dalla strada. Vi erano stesi maglioni, felpe e qualche
paio di jeans. Mi balenò un’idea. “E
se…” Mi
sincerai con gli occhi di essere sola, ma nuovamente scrollai la
testa, cancellando l’impulso. Però, il sole era
tramontato, l’aria era fredda e la fame era tanta. Non ne
potevo più! “Seré,
pazienza! Tanto poi ti svegli! Ma che ti frega?” Chiusi
gli occhi, feci un profondo sospiro e annuendo, presi coraggio.
Ributtando nuovamente uno sguardo attorno, mi avvicinai
silenziosissima al muretto, e con la tipica grazia da ippopotamo che
mi contraddistingue da sempre, alzai una gamba, facendo leva con le
mani. Dopo il terzo o quarto tentativo, riuscii ad arrampicarmi sopra
a un rialzo di poco più di settanta centimetri, incredibile.
“Ma
guarda tu che fatiche mi tocca fare, domani mattina sarò più
stanca di ieri sera!” Finalmente
in piedi sulla lastra di marmo, allungai una mano riuscendo ad
agguantare gli indumenti più vicini, una vecchia felpa e dei
terribili jeans marroni. Bene, ora avrei solamente dovuto cercare un
paio di scarpe. Stavo per ripoggiare il piede a terra, quando
avvertii un’improvvisa presa sulla mano ancora attaccata alla
ringhiera. Trasalii e lentamente mi voltai. Una prorompente signora
sugli ottanta mi fissava arrabbiatissima.
“S-salve!”
Con gli occhi sgranati e l’imbarazzo a livelli altissimi, fu
l’unica cosa che riuscii a pronunciare. Dopo qualche istante di
esitazione, la vecchia iniziò a urlare a squarcia gola “Aiuto!
Al ladro! Al ladro!”
Con
una velocità mai avuta in tutta la mia vita, cominciai a
correre via in preda al panico. Sfrecciavo a piedi nudi, tra le
macchine in sosta, saltando da un’aiuola all’atra mentre
la signora, nel frattempo, era uscita in strada continuando a urlare
“Ladra! Ladra!” sventolando un battipanni con la mano,
incitando i passanti ad acciuffarmi.
“Voglio
svegliarmi!” Supplicai
me stessa durante la corsa, piangendo ormai disperata. Svoltai il
viale, quando una moto della polizia frenò davanti a me,
sgommando rumorosamente. “E’ lei! Arrestatela!”
Grido
la voce alle mie spalle. “Ah,
signò! Ma vaffanculo!”
Con un’agilità inaspettatamente acquisita, riuscii a
scavalcare un muretto pochi metri più in là e con le
ultime forze rimaste, ricominciai a fuggire disperata. Penso
che in tutta la mia vita non abbia mai corso così tanto e
ricordo che la mia milza iniziò a farmelo presente. Sfiancata,
ebbi un sussulto quando il rombo di quella maledetta moto ruggì
nuovamente alle mie spalle, sbucata, molto probabilmente, da qualche
via di traverso. Ormai ero quasi giunta al collasso, le mie gambe
stavano cedendo ed ero convinta che i miei piedi stessere sanguinando
dalle ferite. Riuscì a fare qualche metro ancora, finché
mi resi conto di aver faticato invano: era una strada senza uscita.
Un immenso muro bloccava ogni via di fuga. Lentamente mi fermai,
poggiando stancamente una mano sul fianco indolenzito.
“Perché
ho bevuto da quella boccetta? Che cazzo mi avrà detto il
cervello!?”
Il
rumore del motore sparì, lasciando il posto al leggero
ticchettio di raffreddamento. Avvertii, rimanendo di spalle, i passi
del poliziotto farsi sempre più vicini.
“Mani
in alto!”
“Eccoci!”
Deglutii
nervosa, iniziando ad alzare lentamente le braccia, fin quando, una
strana sensazione me le bloccò a mezz’aria. “Ma
io quella voce la conosco!”
Sbarrai gli occhi “Oh
mio Dio!” e portai
le mani al cielo con un sorriso a trentadue denti.
“Voltati!”
Ovviamente,
non opposi resistenza.
Ormai non avevo alcun
dubbio, nonostante il casco integrale, la vera identità di
quel giovane poliziotto, alto poco più di un metro e
cinquanta, era più che palese. “Crili!”
Esclamai incredibilmente euforica, come se fosse un amico di lunga
data. L’agente abbassò subito la difesa, calando
la pistola e alzando la visiera di plastica che copriva gli occhi.
“C-ci
conosciamo?”
Un’ora
dopo…
Le
lancette di quel maledetto orologio fisso alla parete davanti a me
scandivano i minuti in una maniera incredibilmente lenta ed
estenuante e non smettevano di ricordarmi da quanto tempo, oramai,
ero rinchiusa in quel dannato incubo. Sì, perché a
questo punto, di ciò si trattava. Dopo aver passato l’intera
giornata come una zingara in mezzo alla strada, affamata e
infreddolita, mi ritrovavo quasi
arrestata, in questura, seduta su uno scomodo seggiolino, in attesa
di essere interrogata! Nonostante tutto, vi era una nota positiva:
l’agente che ogni tanto intravedevo fare capolino, dalla porta
semi socchiusa del suo ufficio, era niente popò di meno che
Crili
e
ciò racchiudeva in sé un barlume di speranza. Tanto,
l’ipotesi sogno
era
ormai già scartata da un bel mezzo, e lo spazio era stato
lasciato per un ipotetico coma
cerebrale o
per un’improvvisa pazzia.
Non
vi erano altre spiegazioni plausibili.
Dopo l’ennesimo sospiro, vidi una mano
farmi cenno di entrare. “Finalmente!”
Presi
coraggio, e varcai la soglia.
L’ufficio
era abbastanza accogliente, non molto grande, e l’unica
finestra, posta sulla parete alla destra della porta, affacciava
direttamente sul cortile che costeggiava l’entrata
dell’edifico. Quasi sicuramente, nelle ore diurne, era molto
luminoso, vantando un’esposizione diretta alla luce del sole.
Crili
era visibilmente stanco e nervoso, ricoperto da pile di scartoffie,
con i gomiti poggiati sull’enorme scrivania.
“Polizia, buonasera.” Neanche il tempo di
rivolgermi la parola, che squillò ancora una volta il
telefono. Senza interrompere la conversazione, mi fece segno con la
mano di accomodarmi. “Che
situazione, ancora non mi capacito!” Sfruttando
il suo sguardo coinvolto nel prendere appunti, mi soffermai a
scrutarlo: era proprio lui, fedele all’originale, senza naso,
con il tratto della saga di Majin Bu, ma rasato a zero.
E
la cosa più assurda, era che non fosse in carne e ossa, o
meglio, lo era, ma nello stesso modo in cui sembrava esserlo
nell’anime o nel manga! Ovviamente, io
non
ero da meno. Chissà come appariva Serena
in
versione disegnata?
“Perfetto
signora, allora può stare tranquilla. Le auguro una buona
serata.” Si buttò pesantemente sullo schienale della
poltrona, sbuffando distrutto. Si diede una bella grattata alla
pelata sudata e afferrando i bordi della scrivania, fece leva per
avvicinarsi. “Bene, veniamo a noi. Scusa l’attesa, ma è
stata una giornata infernale!”
“Non
dirlo a me!” Scrollai
la testa, sorridendo timidamente.
“Come
caspita ti è venuto in mente di rubare quella roba? Sei
scappata da qualche istituto?”
“Eccallà!*”
Sapevo
sarei passata per matta. “No, non è come sembra.”
Abbassai la testa imbarazzata. “G-generalmente, non vado
conciata in giro in questa maniera.”
“E
allora? Ma poi, mi hai chiamato per nome!? Perché? Come mi
conosci?”
Bene,
forse sembrava essere arrivato il momento. Quel
momento.
Magari, avrei dovuto esordire dicendo: sai,
tu sei uno dei protagonisti di Dragon Ball! Ieri sera, prima di
andare a dormire, ho bevuto uno strano liquido da una boccetta, ed
eccomi qua! Magari!
Peccato
che ‘sto cavolo di sogno/incubo/trip mentale sembrava essere
diventato a tutti gli effetti realtà,
e
la mia timidezza mi vietava di dire certe cose.
“Beh,
ecco… Vedi, Crili”
“Crilin,
mi chiamo Crilin. Con la n!”
“Ah…
Ok, scusa.” “Perfetto,
dovrò rivedere un sacco di nomi!”
“Insomma?”
Insomma,
inizia a sbiascicare frasi senza senso, non capendo da che punto
iniziare a raccontare la storia, tanto per non passare ancora per
pazza, senza gettare acqua sul fuoco. Più proseguivo, più
il suo interesse nell’ascoltarmi andava scemando. Lo vedevo, di
tanto in tanto, alzare lo sguardo tra lo schermo del computer e i
fascicoli aperti sulla scrivania. Mancava solo un bello sbadiglio e
il quadro era perfetto! Molto probabilmente non credeva a ogni
singola parola.
“I-io
so il tuo nome, perché ti conosco. Vi
conosco.”
Stringevo fortissimo la stoffa dei pantaloni, con lo sguardo puntato
sul portapenne accanto al telefono.
Crilin
alzò un sopracciglio. “Ci conosci? Cioè?”
“Cioè…
Ascolta, ricomincio da capo.” Presi coraggio e incrociai il suo
sguardo. “Io vengo da un mondo, diciamo, parallelo. Ieri sera
sono andata a dormire nel mio letto e stamattina mi sono svegliata in
questa dimensione. Ho detto di conoscervi perché”
Sospirai, portando una mano dietro al collo “voi
siete
famosi, fate parte di un” non so il motivo, ma dire fumetto, in
quel preciso istante così dannatamente reale, mi sembrava
assurdo. “una storia.
Ho
sperato con tutta me stessa di riuscirci, ma mai avrei pensato che
sarebbe andata a finire in questo modo! Sto vivendo questo sogno come
se fosse una realtà parallela.”
Terminai
il monologo sperando con tutta me stessa di averlo convinto, almeno
in parte, ma il suo sguardo scettico e al contempo attonito non
sembrava dare una risposta positiva. Si riaccasciò sullo
schienale della poltrona e incrociò le braccia.
“Non
ho ancora capito cosa intendi per voi.”
“Tutto
quel discorso, per poi chiedermi solo questo? Ottimo.” Mi
schiarii la voce. “Tu e tutti i tuoi amici” Iniziai a
elencarli lentamente, prendendo pausa tra un nome e l’altro
“Bulma…Yamcha… Muten… Goku” Ecco,
qui ebbi un fremito. Ero nel suo
mondo.
In questo mondo lui
c’era.
In questo mondo era reale.
“Cristo santissimo!”
“Frena,
frena! Potresti benissimo esserti informata! Bulma è famosa,
qui in città e in tutto il mondo. Yamcha è un giocatore
profe”
Mi
alzai in piedi così d’impulso che non riuscì a
terminare il discorso. “Ti prego Crilin, non sto scherzando!
Sto iniziando a essere disperata!” I miei occhi tornarono ad
arrossarsi e velarsi di lacrime. “Sono quasi dodici ore che
vago in pigiama senza una meta! Digiuna, senza scarpe e molto
probabilmente, visto l’andazzo, mi toccherà dormire per
strada! Sto impazzendo, devi credermi! Te lo giuro, te lo giuro su”
e lì, ebbi un lampo di genio “su Dende.”
Due
occhi, improvvisamente sgranati, mi fissarono. “E-e tu c-come
fai a” L’avevo lasciato senza parole “Cavolo!”
Portò le mani alla testa spiazzato.
Ovviamente,
nessun umano, in questo
mondo,
era a conoscenza del nome di battesimo del venerato Supremo. Avevo
colto nel segno. Mi risedetti, attendendo silenziosamente la sua
reazione.
“Va
bene, provo a crederti.”
“Ce
l’ho fatta!” Sospirai,
scrollando via tutta la tensione di dosso.
Lo vidi alzarsi,
avvicinarsi al mio fianco e poggiare la schiena al bordo della
scrivania. Grazie a Dio, anzi, grazie a Dende, cominciavo a
intravedere
quel
barlume di speranza.
“Facciamo
così” incrociò le braccia al petto “prima
di tutto, cerco di rimediarti qualcosa da mettere.” Posò
lo sguardo sull’orologio al polso “Tra una mezz’ora
finisco il turno e non posso portarti in giro in questa maniera!”
Gli sorrisi, constando l’evidenza. “Poi, dammi il tempo
di fare una telefonata e vedrai che troveremo una soluzione.” I
miei occhi si riempirono di felicità e, dentro di me, sentii
smuovere qualcosa. Il mio sesto senso iniziò a bussare e,
molto probabilmente, lo captò anche lui, poiché colse
prontamente la mia espressione incuriosita.
“Hai
detto che conosci tutti i miei amici, no? Chi credi possa contattare
in grado di aiutarti, in questa città?”
A
quel punto, le mie labbra si schiusero a comando e un sorriso enorme
apparve sul mio volto. Risposi esternando, finalmente, tutto il
ritrovato entusiasmo:
“Bulma!”
Note
Ciao
a tutti!
Forse qualcuno ancora non mi conosce, quindi, per sicurezza, mi
ripresento: sono Serena, fra qualche
giorno compirò 32 anni, sono sposata e sono mamma di una bimba
di due anni. La storia in cui vi siete imbattuti rappresenta per me una
sorta di sfida. In realtà,
mai avrei pensato di crearne una fanfiction! Ciò che ho iniziato a raccontare, è nato circa quattro anni fa,
come una specie di fantasia, e credevo che tale sarebbe rimasta! Su
incitamento del marito, mi sono buttata e ho iniziato a scrivere…
Vi porterò in un viaggio ambientato nei miei sogni, sperando
che possiate impersonarvi nel mio personaggio.
Come avrete visto, il narratore, essendo io, è in
prima persona, ma non sarà sempre così, tranquilli! Non
racconterò solo fatti personali, ci saranno tante altre
situazioni parallele, con delle coppie a voi molti famigliari!
Spero tanto di non
avervi annoiato!
Vi ringrazio di cuore e al prossimo capitolo!
Sereana <3
Angolino dell'autrice
Oh,
che bello trovarvi qui! Se siete arrivati a questo punto, significa
che avete terminato la lettura del primo capitolo e spero con tutto
il cuore vi sia piaciuto!
Che brutta “giornata” vero? Ma sembra che tutto stia
avendo una svolta positiva…
Nel
prossimo capitolo vi porterò con me nella Capsule Corporation
e spiegherò il modo con cui sono riuscita a capitombolare in
“questo” mondo… Chissà come reagirà
Bulma e, soprattutto, cosa mi capiterà ancora!
Intanto
vi ringrazio e vi aspetto al prossimo aggiornamento <3
*ecco
qua, non rendeva l’idea ahahahahah Sono del Lazio e
quell’esclamazione l’ho trovata più consona!
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