Infecta

di Doppiakappa
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I fiocchi di neve cadevano delicati dall’oceano grigio che sovrastava la città, rapidi componevano danze eleganti per poi posarsi sul freddo asfalto delle strade. Lungo la via, alcuni bambini giocavano a tirarsi la neve sotto il vigile sguardo delle loro madri, un uomo aveva già cominciato a spargere il sale davanti all’ingresso della sua dimora, sbuffando parole incomprensibili mentre si teneva stretto nel suo cappotto.
Roy camminava a passo svelto, con lo sguardo fisso in quella distesa cinerea di nuvole, il suo volto faceva trasparire una forte malinconia. Quel freddo non sembrava disturbarlo, e silenzioso, procedeva lungo il piccolo sentiero che risaliva la collina al centro della città. Una fila di querce ormai prive di foglie riparava parzialmente il ragazzo dall’abbraccio gelido di quei fiocchi argentati, il piccolo ruscello al lato della strada si era congelato, lasciando però un flusso d’acqua corrente quasi impercettibile, che bagnava le foglie a terra, imbrunite dal gelo invernale.
Di tanto in tanto un fiocco riusciva a bagnare i capelli biondi del ragazzo, distogliendo la sua attenzione dalla musica che accompagnava il suo viaggio.
Senza quasi accorgersene era arrivato di fronte alla porta della villetta in cima alla collina, una graziosa casa moderna immersa in quella che era probabilmente l’unica grande parte verde presente nella metropoli di Queen City.
Prima di estrarre le chiavi dalla tasca, Roy posò le sue iridi smeraldine sul piccolo laghetto che ornava il giardino della villa: aveva faticato molto per mantenerlo di quel verde rigoglioso che tanto lo rilassava alla sola vista, ma era bastato il semplice calo di temperature invernale per vanificare tutti gli sforzi fatti durante l’estate. Il ragazzo fece una smorfia mentre guardava la superficie congelata della piccola pozza d’acqua, circondata dalla vegetazione ormai morta e ricordandosi del perché odiasse l’inverno.
La sua attenzione ritornò sulle chiavi di casa, che vennero tolte rapidamente dalla tasca del suo giubbotto e infilate in quella stretta serratura. Roy esitò senza rendersene conto, bloccato dal freddo crudo del metallo, prima di girare per la terza volta la chiave nel chiavistello.
La casa gli si presentava come al solito: vuota.
Vuota e silenziosa.
Silenziosa come lui, mentre si toglieva le scarpe e il giubbotto, mentre si sdraiava sul suo letto spossato da una stanchezza inesistente, ma che lo pervadeva sempre a fine giornata. Attorno a lui una pace muta, inquietante.
Triste.
Il ragazzo si alzò, stirandosi e dirigendosi verso il bagno. Lì rimase fermo davanti allo specchio, osservando le occhiaie che gli coloravano il volto: era da un po’ che aveva avuto problemi a prendere sonno la notte. Fece scorrere l’acqua nella grande Jacuzzi, per poi immergervisi dopo essersi tolto i vestiti. Chiuse gli occhi, facendosi avvolgere dal magnifico tepore dell’acqua che esplodeva nelle bolle dell’idromassaggio, tepore che tuttavia non riusciva a rimuovere quella fredda sensazione di solitudine che lo dominava dall’interno.
Aveva sedici anni ed era il figlio di Aiden Steinberg, l’uomo che aveva rivoluzionato il nuovo secolo con le sue ricerche sulla nanotecnologia e la biosintesi artificiale. Nacque a Eisendorf, un piccolo paesino Della Germania, nel cuore della Federazione Europea.  
A dieci anni si trasferì in America assieme al padre, dopo che la ricerca sulla biosintesi dei nano-tessuti artificiali aveva riscosso un enorme successo. Finì così nella grande metropoli di Queen City, solo, lontano dalla madre e dal fratello minore.
Parlava fluidamente l’inglese, il tedesco e l’italiano, masticava complesse nozioni di fisica, chimica e robotica a causa delle dure imposizioni del padre e praticava arti marziali da quando aveva quattro anni.
Tutti si aspettavano grandi cose da lui e i suoi risultati parlavano chiaro: i voti a scuola erano impeccabili, la sua mente lo portava ad avere brillanti intuizioni agli stimoli del padre, che gli dedicava appena una manciata di minuti del suo tempo quando il ragazzo visitava il laboratorio.
Roy a occhi esterni pareva il ragazzo perfetto, senza difetti, che viveva nel lusso e non aveva problemi, ma in realtà la vita del giovane non era altro che uno spesso guscio vuoto, cupo, solitario.
Era rimasto solo da quando aveva messo piede a Queen City, seguito da una delle tante educatrici pagate fior di quattrini dal padre per crescerlo nel migliore dei modi, persone che entravano nella sua vita come estranee e tali ne uscivano.
Vedeva il padre per poche ore al giorno, a volte l’uomo non tornava nemmeno a casa a causa delle proprie ricerche. La madre era una nota imprenditrice di origini italiane, era la donna a capo della Eisenhauer Technology, la più grande impresa sullo sviluppo tecnologico nella Federazione Europea. A causa dell’importanza del suo ruolo nell’impresa non le fu possibile seguire il marito in America e per non caricarlo di ulteriori responsabilità, aveva deciso di occuparsi del figlio minore, Emil, trattenendolo in Germania.
Roy riusciva a parlare con la madre solamente una o due volte a settimana, discutendo quasi solamente del suo andamento a scuola e dei suoi progetti di ricerca, discussioni che erano diventate ormai un pugno di frasi che, automatiche, uscivano dalla sua bocca prive di una qualsiasi empatia.
La parte più bella della giornata era per il ragazzo il momento in cui leggeva i messaggi del fratello, si raccontavano di tutto: dalle esperienze scolastiche alle impressioni sulle serie televisive che si guardavano nel poco tempo libero che avevano, si raccontavano della vita nei due continenti diversi, del desiderio di poter stare nuovamente assieme dopo sei anni di lontananza. Quello era l’unico momento della vita in cui Roy non si sentiva abbandonato a sé stesso.
A causa della solitudine aveva sviluppato un carattere estremamente introverso e chiuso, era una roccia che non poteva essere scalfita e chi cercava di inserirsi nella sua vita come “amico”, rinunciava subito. A scuola si sedeva in un banco isolato, lontano da tutti, attento solamente alle parole che uscivano dalla bocca del Professore. Non discuteva mai, non partecipava alle attività di gruppo né alle gite di classe, era estraneo a qualsiasi relazione al di fuori dell’ambito scolastico. In molti lo deridevano, in altrettanti lo compativano, c’era chi addirittura lo temeva per quel suo modo gelido di vivere la vita.
Uno dei più grandi sogni di Roy era quello di poter rompere quella gabbia di aspettative che si era costruito attorno, trovandosi degli amici e godendosi una normale vita da sedicenne. Questo sogno tuttavia veniva bloccato da un’immensa paura del giudizio altrui, di deludere le aspettative dei genitori, dei professori, di chiunque vedesse qualcosa in lui. Un enorme demone che lo schiacciava, lasciandolo inerme, abbandonato in quella buia prigione che era la sua mente.
Riaprì gli occhi, disturbato dal suono della sveglia.

“Sono le sette…” pensò, alzandosi e facendo scivolare l’acqua lungo tutto il corpo. Si passò una mano fra i capelli, liberando la fronte e inalando un grande respiro. Aspettò che anche l’ultima goccia d’acqua fosse fluita via dalla vasca, prima di uscire e posare i piedi sul morbido tappeto di moquette. Si asciugò minuziosamente i capelli davanti allo specchio, posando più volte lo sguardo sul suo corpo atletico e leggermente sottopeso: nell’ultimo periodo aveva cominciato a mangiare poco, sia a pranzo che a cena, pervaso da una sorta di continua nausea che non accennava ad abbandonarlo.
Si vestì rapidamente e con scarsa voglia si diresse in cucina, aprì il frigo e ci trovò all’interno solamente un piccolo contenitore con gli avanzi del giorno prima: una mezza bistecca e un pugno di riso. Un pasto più che sufficiente per il ragazzo, che venne consumato in pochi minuti. Roy spostò poi lo sguardo sul post-it fissato alla bacheca appesa sopra il tavolo, lesse l’unico appunto che macchiava il foglietto giallo:
Controllare stadio di avanzamento dell’analisi del Void

Nonostante passasse molto tempo nel laboratorio della villa, sia da solo che occasionalmente in compagnia del padre, il ragazzo non aveva mai avuto l’occasione di osservare l’ultimo soggetto dello studio dell’uomo: il Void. Non aveva idea di cosa fosse quella cosa, tutto ciò che sapeva era che quella ricerca era estremamente importante per il padre e che mai avrebbe dovuto ficcarci il naso. La curiosità era grande, quasi incontenibile: per mesi aveva guardato la vetrina oscurata nello studio dell’uomo, quasi cedendo al forte desiderio di aprirla, ma per paura di una possibile reazione del padre aveva sempre preferito mantenere le distanze da quella porta, quella maledetta porta che sembrava chiamarlo ogni volta che metteva piede nel laboratorio.
Il ragazzo finì di cenare, dirigendosi poi verso la camera in fondo al lungo corridoio della villa, ornato da un particolare e colorato tappeto, comprato dal padre durante il suo viaggio in India. Digitò il codice richiesto dal display della porta blindata che sigillava il laboratorio e ne varcò la soglia, prendendo e indossando poi il candido camice appeso al muro. Si avvicinò al suo bancone personale, sul quale giacevano diversi vetrini contenenti campioni vegetali disposti ordinatamente in file parallele. Ne prese uno della prima fila e lo mise sotto la lente del suo costosissimo microscopio. Guardò attentamente negli oculari, appuntando in un quderno alcune note:
Giorno 78 dall’ibridazione cito-robotica del campione I-2900: non si riscontrano cambiamenti a livello morfologico, condizioni del campione STABILI.”
 
Ripeté il procedimento per tutti i campioni sul tavolo, sbuffando una volta terminato il lavoro. Si lanciò all’indietro sulla sedia scorrevole, sbuffando nuovamente e alzando gli occhi al cielo. Anche quel giorno non aveva fatto progressi, come quello prima e quello prima ancora.
Ardeva dal desiderio di catturare l’attenzione del padre, sviluppando un nano-virus che sarebbe stato in grado di modificare la struttura cellulare delle piante per renderle praticamente immortali. Una ricerca estremamente complessa per un ragazzo di sedici anni, una ricerca alla quale aveva dedicato gli ultimi quattro mesi fra progettazione e sviluppo. Roy non aveva intenzione di mollare, non dopo tutte le notti insonne passate a scervellarsi su come sviluppare quel nano-bot, non dopo tutta la fatica che aveva fatto per seguire quel malato desiderio di farsi notare da quel padre quasi inesistente.
Prese in mano il quaderno azzurro che poggiava accanto al microscopio, sfogliò qualche decina di pagine e fermò l’attenzione sulla numero 58, il titolo della pagina recitava: “Applicazione del nano-virus alle forme di vita vegetali”. Rilesse i suoi appunti, le sue annotazioni sulle possibili reazioni della cellula all’ibridazione forzata, mugugnando parole incomprensibili e riscrivendo con furia su un foglio le reazioni riportate sul quaderno.
- Non ne vengo a capo, maledizione! - esclamò, gettando a terra la penna. Aprì poi un paio di libri, leggendo ferocemente intere pagine di formule e reazioni, impossibili da capire per un normale essere umano.
- Energia… energia… eppure sono sicuro di aver calcolato correttamente la quantità necessaria… - pensò ad alta voce, passando rapidamente il dito lungo una tabella di formule scritte accuratamente a mano, digitando poi nervosamente una serie di cifre nella calcolatrice.
 
- N-non è possibile… - balbettò, mettendosi le mani nei capelli. - Una tale energia è fisicamente impossibile da ottenere! La dissipazione è troppo alta per avere il quantitativo adatto! - urlò infine, sbattendo un pugno sul tavolo.
 
Infastidito, il ragazzo si alzò per raggiungere uno dei tanti raccoglitori di metallo appoggiati alla parete del laboratorio. Aprì uno degli scomparti, estraendone un cubo metallico per poi richiuderlo con forza. Si diresse verso un particolare dispositivo sulla sua scrivania, inserendovi il cubo e accendendo il grande display della macchina. Digitò un codice ed ebbe accesso a una complicata interfaccia, che configurò secondo le disposizioni scritte sul manuale che intanto aveva aperto su un leggio affianco a lui.
 
- Devo riconfigurare le caratteristiche basiche del nano-virus, dev’esserci un modo per correggere la soglia, cazzo… - disse a sé stesso, digitando una serie di comandi nell’interfaccia della macchina.
 
Un rumore di vetri infranti attirò l’attenzione del ragazzo, facendolo giare di scatto. Proveniva dal laboratorio, precisamente dallo studio di suo padre. Corse verso la porta dell’ufficio, dando involontariamente l’invio a un comando del display, non accorgendosene. Il vetro della porta era rotto e di fronte alla vetrina del padre giaceva immobile una figura femminile, stretta con tutte le sue curve in una divisa nera, che gli dava le spalle. La donna aveva sfondato la bacheca, rubandone il prezioso contenuto che fino ad allora era stato custodito con estrema cautela.  
 
- C-chi sei?! Che cosa stai facendo con il materiale di mio padre?! -esclamò il ragazzo, attirando così l’attenzione della donna. Lei si girò di scatto, mettendo mano alla pistola che teneva nella fodera attaccata alla sua cintura.
 
- Fai un movimento e ti ammazzo. Dì una parola e ti ammazzo. Da adesso prendo io in custodia questa sostanza, tuo padre non ha la minima idea di quanto ci sarà utile. - si impose la donna, avvicinando la pistola alla fronte del biondo.
 
- Hai i nervi piuttosto saldi, ragazzino. Mi fai quasi paura… - disse poi sorridendo, mentre osservava l’espressione risoluta di Roy.
 
Il ragazzo aveva il cuore in gola, respirava lentamente e cercava di non far trasparire la paura che lo stava pervadendo in quel momento. Aveva una pistola puntata alla testa, da quella che probabilmente era un sicario ingaggiato da qualcuno che voleva suo padre morto. Le sue iridi smeraldine si scontrarono con i bellissimi occhi azzurri della donna, due biglie glaciali che gli stavano consumando l’anima.
Aveva imparato a disarmare un avversario, praticando arti marziali per oltre dieci anni, ma non avrebbe mai pensato di trovarsi in una tale situazione. Sapeva esattamente cosa fare, ma sapeva anche che avrebbe avuto una sola possibilità, un singolo sbaglio e sarebbe morto. Fece un grande e silenzioso respiro, spostando poi lo sguardo verso la canna dell’arma. Con un movimento repentino afferrò il polso della donna, esercitando pressione in uno specifico punto per impedirle di premere il grilletto, girandolo poi verso il muro e piantando una ginocchiata nello stomaco dell’intrusa. La donna, colta alla sprovvista, fece cadere la pistola che venne immediatamente calciata via dal ragazzo.
 
 - Moccioso di merda… - mormorò la donna infuriata, inginocchiandosi a terra per il dolore.
 
Roy raccolse velocemente il contenitore rubato dalla ladra, correndo poi nell’altra stanza e cercando nervosamente l’allarme che avrebbe avvisato suo padre in caso di emergenza. Il ragazzo non fece in tempo ad aprire la teca dell’allarme che la donna gli si presentò davanti, sparandogli un proiettile nel fianco.
Roy cadde all’indietro, gridando atrocemente per il dolore e accasciandosi involontariamente sul display del macchinario utilizzato in precedenza. Durante la caduta, il materiale contenuto nella teca del padre si riversò nella macchina, causando un intenso flash e mandando in tilt il programma. Un allarme iniziò a rimbombare nel laboratorio, accompagnato dal rumore del surriscaldamento della macchina. Roy era inerme, accasciato a terra in una pozza di sangue, agonizzante.
 
- Qui Viper, missione compromessa, sono costretta a ritirarmi! - gridò la donna, attivando l’auricolare nel suo orecchio sinistro. Con un impossibile salto atletico, balzò successivamente nel condotto dell’aria dal quale era precedentemente entrata, abbandonando velocemente il luogo prossimo al disastro.
 
La luce emessa dalla macchina era diventata ormai incandescente, un rumore sempre più forte si stava diffondendo per il laboratorio e Roy, con uno sforzo disumano, iniziò a trascinarsi verso l’ingresso. Il rumore era diventato ormai assordante, il ragazzo penso che la sua vita sarebbe finita quel giorno: sarebbe morto da solo, lasciando tutto incompleto, incompleto come la sua vita. Si girò verso la fonte luminosa, per vedere il suo lavoro un’ultima volta, prima di essere ucciso dalla cosa che avrebbe dovuto cambiare la sua vita.
Non ebbe tempo di lasciarsi sfuggire una lacrima che la macchina di fronte a lui esplose in un violento vortice di fiamme, gettandogli addosso la misteriosa sostanza fusa per il calore con il nano-virus e facendolo volare contro la parete.
Passò un’ora prima che il professor Steinberg varcasse correndo la porta del laboratorio, trovando la stanza carbonizzata e il figlio accasciato in fin di vita al muro. Alla vista del ragazzo, gli occhi dell’uomo si riempirono di lacrime, e tremante, si avvicinò al corpo del giovane.
 
- Roy… Roy! Ti prego apri gli occhi…! Cosa ti è successo?! Apri gli occhi, ti prego! - la voce roca dell’uomo faticava a uscire, le sue labbra non riuscivano più a comporre le parole. Aiden strappò la maglia mezza incenerita del ragazzo, iniziando a premere ansiosamente le mani sul petto ustionato del figlio. Un colpo, due, tre. Sempre più forti, sempre più nervosi. - No… No! - Aiden gridò disperato, premendo un’ultima volta sul petto del ragazzo. Roy spalancò di colpo gli occhi, lanciando un atroce strepito mentre il suo corpo si contorceva in preda a violentissimi spasmi.
 
- Oddio, Roy! Roy! - urlò l’uomo, cercando di placare disperatamente i movimenti del figlio. Improvvisamente il ragazzo smise di muoversi, cacciando l’ennesimo orribile grido agonizzante. Sul petto del ragazzo, all’altezza del cuore, cominciarono ad apparire delle linee nere; la sclera del suo occhio sinistro, spalancato dal dolore, era diventata completamente nera, facendo spiccare l’iride che aveva assunto una colorazione arancione intensa. La pupilla era diventata triangolare.
Aiden guardava incredulo il corpo del figlio, osservando le intense linee nere che gli stavano cicatrizzando le ferite e ricostruendo i tessuti. Anche le ustioni vennero completamente eliminate, rigenerando perfettamente ogni tessuto compromesso dall’incidente.
L’uomo non ebbe la forza di cercare un senso in quello che aveva appena visto, del laboratorio distrutto non gli interessava nulla, il suo unico pensiero era il corpo privo di sensi di suo figlio. Non sapeva cosa fare, avrebbe dovuto chiamare un’ambulanza, ma non sarebbe stato in grado di dare una spiegazione a quello che stava succedendo sul corpo del sedicenne. Ancora sotto shock prese il ragazzo in braccio, portandolo di peso nella sua stanza e sdraiandolo sul letto. Il respiro del ragazzo si era stabilizzato, ma il battito cardiaco del Professore non accennava a rallentare.
Rimase immobile, seduto sulla poltrona accanto al letto, a guardare il volto del biondo. Gli stringeva una mano, con forza, sperando con tutto sé stesso di vederlo aprire gli occhi. Lo sorvegliò per ore, combattendo le lacrime che premevano per liberarsi dalla dura morsa delle sue palpebre. Venne assalito da un profondo senso di colpa: si era accorto di suo figlio solamente nel momento in cui aveva rischiato di perderlo. Si rese conto di essergli stato troppo lontano: per sei anni lo aveva lasciato da solo, ossessionato solamente dal proprio lavoro, trascurando il bambino che avrebbe dovuto essere la cosa più preziosa della sua vita. Avrebbe voluto chiedergli perdono, avrebbe voluto recuperare in pochi secondi i sei anni che aveva perso pensando unicamente alla propria ricerca. Mentre pensava questo, gli occhi dell’uomo iniziarono lentamente a chiudersi, e senza rendersene conto, il Professore sprofondò in un sonno inquieto, poggiando la testa sul caldo petto del figlio, venendo avvolto dal suo calore
.




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