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Una piccola storiella originale scritta per un concorso.
Non ha avuto molto successo (con i giudici, la mia Prof l'ha adorata!O.O):
troppo lunga (!) e leggera (leggasi: nessuna morale da trasmettere).
La posto giusto per non lasciarla in balia delle ragnatele nell'hard-disk del pc.
Se vi va, come sempre i commenti sono più che graditi.
Enjoy the reading,
Manami.
“Solo
un Sogno”
La piccola sveglia posata sul comodino di legno chiaro,
posto al fianco del letto bianco sul quale lei era seduta da ore, stava ridendo.
Ne era certa.
La fissava ridacchiando sotto quei suoi piccoli baffetti
neri, tesi a ricordarle che mancavano solamente tre minuti alla mezzanotte,
beffandosi delle sue disgrazie.
Chiuse gli occhi sconfortata, lasciandosi sfuggire un
sospiro.
- Idiota -
Liberò quella parola nell’aria con un altro sospiro,
indecisa se rivolgerla al foglio ostinatamente bianco, posto di fronte alle
proprie gambe incrociate o, ancor meglio, a se stessa.
Dopo un lunghissimo minuto di silenzio e ostinata
riflessione, il suo proverbiale orgoglio fu costretto a cedere e ad ammettere la
sconfitta, scegliendo la seconda ipotesi.
Era una emerita idiota, e
non c’erano scuse o prove a sostenere una qualsiasi teoria contraria.
A voler essere pignoli, o meglio a volersi arrampicare
sugli specchi, forse una scusa c’era.
Più che un’arma vincente però, era poco più che uno scudo
di vetro contro le spade di un intero esercito nemico e, seriamente, dubitava
che la sua professoressa l’avrebbe accettata.
Aveva avuto quasi due mesi e mezzo per completare quel
lavoro ed era praticamente impossibile che non avesse avuto nessuna ispirazione.
Eppure era stato così.
Fra lei e la sua ispirazione c’era sempre stato un
rapporto di amore ed odio, principalmente dovuto al fatto che quest’ultima non
aveva mai avuto fama di essere un’onesta e costante ispirazione; e anche in quel
caso, come al solito, lei era finita nei guai per colpa delle mancanze di quella
sua non molto fedele compagna.
Quando la professoressa di italiano aveva presentato alla
classe quel progetto, raccogliendo i nomi dei volontari disposti ad immolarsi
per la causa, la sua ispirazione sopita si era prontamente risvegliata
fornendole un canovaccio niente male, e così, entusiasta e pronta a mettersi
alla prova, aveva accettato.
L’eccitazione per quella nuova sfida però era durata sì e
no mezza giornata.
Giusto il tempo di arrivare a casa, sedersi davanti al
suo notebook , e scoprire che quella piccola traditrice era scomparsa.
Di nuovo.
Si era letteralmente dileguata; ed era tuttora latitante.
Riusciva quasi ad immaginarsela, spaparanzata su di una
spiaggia dalla sabbia bianca e finissima, a crogiolarsi sotto il sole rovente
dei Caraibi e, naturalmente, a ridere di lei.
Come la invidiava; avrebbe dato qualsiasi cosa pur di
poterla raggiungere.
Ma ora stava decisamente vaneggiando, e il punto non era
quello.
Il punto era che non aveva ancora scritto nulla e, se non
lo avesse fatto entro le prossime nove ore, sarebbe stata crocifissa dalla sua
entusiasta e fiduciosa professoressa.
Arrivati a quel punto però era totalmente inutile
recriminare e cercare di discolparsi.
Era semplicemente un’idiota, e questo era quanto.
Con uno spasmo isterico lanciò alla cieca la matita che
fino ad un istante prima si rigirava nervosamente fra le mani, colpendo il pouf
azzurro sul quale stava acciambellata la sua paffutissima gatta Urania che, con
un miagolio di protesta, uscì indignata dalla porta leggermente aperta.
Aprì gli occhi e oramai rassegnata si alzò dal letto per
andare a recuperare la matita.
Ora, Artemisia, così si chiama la nostra giovane
protagonista, era sempre stata un po’ sbadata e l’equilibrio non poteva di certo
essere catalogato fra le sue migliori virtù ma, quella sera di metà febbraio
c’era qualcosa di diverso.
Forse si trattava di una sfortunata, ma chissà magari
fortunata, congiunzione astrale, o forse era tutta colpa di una strana forma di
magia.
Oppure, era semplicemente destino che andasse così.
Il tappeto nero striato d’argento che per anni era stato
la sua gioia e la sua croce, perché lo adorava letteralmente ma non era in grado
di avvicinarcisi senza finire a terra piena di lividi, era sparito una mattina
di settembre.
Al suo ritorno da scuola non era più al suo posto al
centro della stanza e, solo dopo un lungo interrogatorio, sua madre aveva
confessato di averlo fatto sparire per il suo bene.
Aveva strillato e ostentato un broncio da primadonna per
giorni, ma il tappeto non era ricomparso.
C’erano voluti ben due anni di duro allenamento ma
finalmente, proprio quella mattina, sua madre aveva deciso che il suo equilibrio
aveva raggiunto livelli accettabili e così, il tappeto era riapparso al suo
posto.
Ma sua madre aveva fatto male i conti.
Artemisia non seppe mai dire cosa successe esattamente
quella sera; se inciampò realmente sul tappeto o se quella macchia nera che vide
di sfuggita prima di toccare il pavimento fosse quella matta di Urania.
Però successe.
Sentì il piede fasciato dalle pantofole di pelo
scontrarsi contro qualcosa, il suo già precario equilibrio abbandonarla e il
tappeto farsi sempre più vicino.
Poco male, fu l’ultima cosa a cui pensò, per lo meno
sarebbe atterrata sul morbido.
Poi tutto divenne nero.
?ª?
Aprì gli occhi piano, sbattendo più volte le palpebre per
riabituarsi alla luce abbagliante del sole, e rimanendo perfettamente immobile,
distesa sull’erba umida di rugiada.
Quando dopo qualche istante riuscì a mettere a fuoco la
vista, e a riacquistare un minimo di lucidità, si rese conto di tre cose
piuttosto preoccupanti.
Innanzitutto era mezzanotte e si trovava nella sua
stanza.
E allora perché in cielo splendeva un sole abbagliante e
sotto di lei non c’era il tappeto nero ma solo una distesa di verde umido?
Ma soprattutto, di chi erano quei piedi all’interno del
suo campo visivo, e perché indossavano sandali di pelle a febbraio?
Stordita e leggermente dolorante si mise a sedere lì
dov’era, alzando lo sguardo sul proprietario di quei piedi.
Un istante dopo aveva gli occhi chiusi e le mani a
reggere la testa che sembrava scoppiarle.
Doveva essere uno scherzo, o forse un sogno, non c’erano
altre alternative.
Riaprì gli occhi fiduciosa; ma non era seduta nel mezzo
della sua stanza e nessuno stava ridendo.
Attorno a lei c’erano solo tralci di viti colmi di
grappoli maturi, un cielo azzurro e limpido come quello nei disegni dei bambini
e il proprietario degli strani calzari.
Incredula e un po’ sfacciata puntò il suo sguardo su
quest’ultimo, studiandolo.
Era un ragazzo giovane, che dimostrava forse qualche anno
in più dei 18 di lei; e aveva un fisico snello e probabilmente agile, con le
gambe lunghe e magre.
Portava i capelli castani tagliati non troppo lunghi, e
sul viso pulito e ben rasato spiccavano gli occhi marroni, svegli e brillanti.
Aveva il naso affilato, forse un po’ troppo grande, e nel
complesso non era né bello né brutto; un tipo un po’ anonimo, di quelli che di
certo non fanno girare a guardarli la gente per strada.
A esser sinceri forse lei si sarebbe voltata, non per il
suo aspetto però, piuttosto per il suo abbigliamento bislacco: oltre ai sandali
di pelle – piuttosto fuori moda – indossava una tunica color sabbia, di quelle
antiche viste solo nei tanti film sull’età classica o durante le feste in
maschera.
Si, qualcuno sarebbe saltato fuori a momenti ridendo di
lei.
Ma più i secondi passavano più le sue speranze si
affievolivano.
Il ragazzo nel frattempo la osservava a sua volta,
sorridendo gentile ma con una punta di divertimento che gli occhi non riuscivano
a nascondere.
Immaginava che quella mal celata ilarità fosse dovuta
alla sua espressione, che in quel momento, stordita com’era, doveva essere
proprio buffa.
Quella situazione era assurda.
Istintivamente portò una mano alla tasca dei jeans in
cerca del suo fedele blackberry, ma con orrore si rese conto di indossare non i
suoi amati jeans ma gli ancor più amati, e in quel momento tremendamente
imbarazzanti, pantaloni del pigiama con gli orsacchiotti.
Stava imprecando a mezza voce in tutte le lingue a lei
conosciute, e forse anche in qualcuna inesistente, quando la voce del ragazzo,
limpida e costante, la richiamò a quella che fino a prova contraria doveva
essere la realtà.
- Ti senti bene? –
Sussultò leggermente incrociando gli occhi curiosi del
giovane.
- No…non sto affatto bene – mormorò astiosa.
Che domanda stupida, come poteva star bene?
- Mi sveglio persa chissà dove, senza sapere come ci sono
arrivata e perché…e non ho neppure il mio cellulare! Ti pare che io possa star
bene? – continuò alzandosi inviperita e facendo sussultare il ragazzo che, in
barba a qualsiasi forma di orgoglio e dignità maschile, indietreggiò leggermente
impaurito.
Poi cominciò a camminare avanti e indietro sbuffando e
mormorando fra sé.
- Cel…cellu cosa? – azzardò lui riacquistando un po’ di
coraggio.
In fondo era solo una ragazzina vestita in modo buffo,
con un buffo modo di parlare e un modo di fare piuttosto irriverente, che male
avrebbe mai potuto fargli?
Nessuno, appunto.
Lei si bloccò di colpo fissandolo con un misto di
incredulità e di terrore negli occhi.
- Lo sai cos’è un cellulare vero? – il tono della
ragazza era piuttosto accusatorio, come se dalla risposta di lui dipendesse la
sua vita.
No, lui non lo sapeva cosa fosse un “cellulare”, così si
limitò a scuotere la testa in segno di diniego.
- Oh cielo...non ci credo – farfugliò incredula.
Tutti nel 2009 sapevano cos’era un cellulare, molti anche
senza averne mai visto uno.
Forse, pensò, si trovava in uno di quei paesi che per
convenzione chiamavano del “Terzo mondo”, tecnologicamente poco avanzati; ma
anche se così fosse stato, come diavolo c’era finita?
- Dove siamo? – chiese infine speranzosa avvicinandosi a
lui fin quasi a sfiorarlo.
- Ecco…ci troviamo un poco a nord di Atene, e quel
boschetto che si intravede laggiù è dedicato ad Akademos – le rispose indicando
un folto bosco alle pendici del colle sul quale si trovavano loro.
Anche fra le viti rigogliose era facile scorgerlo e
Artemisia rimase incantata a guardare mentre il ragazzo continuava la sua
spiegazione.
- Da questo punto non si riesce a vedere, ma è là che ha
sede l’Accademia fondata da Platone – fece una pausa guardando la ragazza
immobile affianco a lui con lo sguardo fisso verso il bosco.
- Io studio lì - asserì infine orgoglioso.
Artemisia annuì distratta poi qualcosa scattò nella sua
testa.
Platone? Accademia? Atene?
L’accademia di Platone era stata soppressa nel 529 d.C.
per volontà dell’imperatore Giustiniano.
Non era possibile.
- Ah… Non mi sono neppure presentato, il mio nome è
Aristotele. – disse il ragazzo con un sorriso interrompendo il corso dei suoi
pensieri.
Aristotele.
Una pugnalata le avrebbe fatto sicuramente meno effetto.
Se quello che il ragazzo diceva era vero, se era davvero
quell’Aristotele, si trovavano a poche centinaia di metri dall’Accademia e se la
sua memoria non la ingannava, doveva essere finita più o meno nel 364 a.C..
- Aristotele… Da Stagira? -
La voce le tremava mentre chiedeva quella conferma; così
come le gambe, che minacciavano di cedere da un momento all’altro.
Lui annuì, chiedendosi come facesse quella strana ragazza
a conoscerlo.
Artemisia invece sentì il respiro venirle meno e le gambe
cedere.
Si ritrovò nuovamente seduta a terra, senza sapere come
ci fosse finita, tremante come una foglia al vento.
Aristotele: com’era difficile credere che quel ragazzo
emaciato in ginocchio di fronte a lei, il cui sguardo preoccupato non la
lasciava un istante, fosse davvero il grande filosofo le cui teorie riempivano
pagine intere dei suoi libri scolastici.
- Non è possibile - farfugliò agitata, guardando verso il
bosco di Akademos senza vederlo realmente.
- Senti… - disse lui posandole le mani sulle spalle per
costringerla a prestargli attenzione – io non ho idea di cosa stia succedendo
ma, se vuoi, posso darti… -
- Un pizzicotto! – lo interruppe lei all’improvviso,
negli occhi una luce speranzosa.
- … si, potrei darti un pizzicot… No! Io intendevo una
mano, perché mai dovrei darti un pizzicotto? – chiese fissandola confuso.
Era sempre stato un bravo osservatore Aristotele,
e più la guardava più quella ragazza gli appariva strana; sembrava quasi venire
da un altro mondo.
Anzi, da un’altra epoca.
- Perché così mi sveglierò… Se questo è un sogno, un
pizzicotto mi sveglierà, mi sembra ovvio. – rispose quasi scocciata, come se
quella fosse un’ovvietà e lui un bambino poco sveglio a cui dover spiegare ogni
cosa.
- Ma certo. Perché mai non ci ho pensato prima… – mormorò
Aristotele, e se la sua espressione incredula non fosse bastata, c’era il
sarcasmo nella sua voce a rendere perfettamente la fiducia che riponeva in
quell’idea assurda.
Con un movimento esagerato, e piuttosto teatrale, allungò
la mano verso il braccio sinistro di lei e le pizzicò la pelle diafana come
quella di una nobildonna.
Com’era scontato che fosse, il dolore non si fece
attendere, e lei non si svegliò da nessun sogno.
Si passò invece la mano destra sul braccio offeso,
sfoggiando un’espressione ferita e delusa, la stessa che la sua sorellina di
dieci anni ostentava quando le veniva negato un nuovo giocattolo.
Il giovane invece stava sforzandosi di trattenere le
risate che, oramai prepotenti, premevano sulle sue labbra per essere liberate
nell’aria.
Era buffa quella ragazza, ma sembrava triste, ed
evidentemente lo era per qualcosa che nessuno dei due avrebbe potuto risolvere.
Forse ridere di lei non era la soluzione migliore.
Ridere con lei invece poteva essere una buona idea:
se non poteva risolvere il problema, poteva per lo meno farglielo dimenticare
per un po’.
- Senti… - si bloccò subito, rendendosi conto di non
conoscere ancora il nome di lei.
- Artemisia – asserì lei intuendo il motivo della sua
indecisione.
- …Artemisia, ecco, mi par di capire che non dovresti
trovarti qui ora, ma oramai ci sei, e se volessi ritardare la tua partenza a
domani, potrei mostrarti l’Accademia –
Non sapeva ancora come avrebbe fatto, ma si sarebbe fatto
venire un’idea per avere il permesso di farla entrare all’Accademia.
- Ecco...mi piacerebbe ma, non posso, devo tornare a
casa. Ho uno scritto da consegnare entro domani e non ho ancora messo nero su
bianco nulla… - rispose torcendosi le mani nervosa.
Si era completamente dimenticata di quel compito, a
differenza della sua prof., che sicuramente glielo avrebbe rinfacciato da lì
all’eternità.
- Uno scritto? Bè, modestamente, sono bravo con le
parole…- commentò con orgoglio.
Ed Artemisia non riuscì a trattenere una risata.
Certo che era bravo, stavano parlando di Aristotele il
grande filosofo, o futuro tale, a voler esser pignoli.
Sarebbe stato un bel colpo presentarsi il giorno dopo con
un componimento scritto da lui.
Ma sarebbe stato anche scorretto, e lei era una persona
leale.
Scosse la testa.
- Devo farlo da sola. -
- D’accordo, ma ormai sei comunque in ritardo. Credo che
tu sia piuttosto lontana da casa e, anche con tutto l’impegno possibile, non
riusciresti a tornarci con lo scritto pronto, quindi… perché sprecare
l’occasione di visitare la nostra Accademia? - ribatté lui cercando di
convincerla, la mano destra tesa verso di lei.
Lo sguardo di Artemisia vagò dal viso di lui fino alla
sua mano tesa, fermandosi dubbioso su quest’ultima.
Forse aveva ragione lui.
Non sapeva quando e come sarebbe riuscita a tornare
indietro, ma sarebbe comunque stato troppo tardi per il suo lavoro; e lei non
era tipo da sprecare un’occasione come quella.
E quella era davvero una fantastica occasione: avrebbe
visitato la scuola di Platone, con nientemeno che Aristotele a farle da
cicerone.
A raccontarlo, probabilmente nessuno le avrebbe creduto,
e sicuramente non avrebbe mai potuto sfruttare quell’avventura come scusa per
non aver svolto il suo compito, ma quella giornata lì nel passato valeva molto
più che mille saggi vincenti.
- E va bene, mi hai convinta – accettò prendendo con un
sorriso la mano che Aristotele le porgeva.
?ª?
Le aveva dato da indossare una tunica molto bella,
trafugata chissà dove, fatta di una stoffa candida molto pregiata e con
rifiniture dorate meravigliose; l’aveva anche costretta ad indossare un paio di
sandali di pelle come i suoi.
Lei aveva protestato all’inizio, ma era evidente ad
entrambi che le babbucce di pelo non erano adatte alla farsa che avevano
organizzato.
Si era acconciata i capelli con una treccia semplice e
morbida ed avevano finto che lei fosse una cugina di Aristotele venuta a
visitarlo.
Con un po’ di fantasia e adattando la frottola alle
tradizioni dell’epoca c’erano riusciti.
Artemisia aveva potuto visitare l’Accademia, aveva
passeggiato e discorso con grandi filosofi e nel primo pomeriggio, dopo un
pranzo leggero a base di frutta fresca di stagione, si era congedata con la
scusa di far ritorno ad Atene.
Ovviamente Aristotele aveva il compito di accompagnarla
fino alla polis ma, ovviamente, il loro percorso si fermò molto prima di
raggiungere Atene.
Passarono l’intero pomeriggio nelle campagne lì vicino,
passeggiando fra i frutteti o seduti all’ombra di qualche maestoso albero,
sempre parlando.
O meglio, discutendo come due
vecchie comari.
Non riuscirono infatti a trovarsi in accordo su nessuno
degli argomenti di cui parlarono, e parlarono veramente di qualsiasi cosa.
Conversarono di tutte le muse, senza tralasciarne
nessuna, ma su ognuna di esse riuscirono a trovarsi in competizione.
Artemisia parlava certa della veridicità delle sue parole
ma, non potendo spiegare al ragazzo il perché delle sue certezze, finiva per
scontrarsi nell’ostinatezza di quest’ultimo che, ovviamente, si fidava più delle
parole dei suoi maestri che di quelle di una ragazzina.
Ed avendo entrambi un carattere piuttosto testardo, a
causa del quale nessuno dei due era pronto a chinar la testa, si erano limitati
a discutere per tutto il pomeriggio, saltando da un argomento all’altro con
grande maestria.
All’imbrunire erano ancora lì; avevano deciso di
raggiungere Atene per trovare ad Artemisia un posto per la notte, e stavano
camminando uno a fianco all’altra, discutendo infine di un argomento che la
ragazza aveva molto a cuore.
- Quello che dici è impossibile, sono stati gli dei a
creare la vita… questa teoria evoluzionaria… -
- Evoluzionistica – lo corresse pronta alzando gli
occhi al cielo.
- Si, quel che è… insomma, non è plausibile! – terminò
con enfasi agitando le mani dinoccolate di fronte a sé mentre lei scuoteva la
testa desolata.
- E poi, chi l’ha mai sentito nominare questo Darvinne? –
chiese retorico come se il fatto che lui, studioso dell’Accademia, non lo
conoscesse ne pregiudicasse le teorie.
Artemisia ridacchiò pensando al famoso motto molto in
voga durante il periodo umanistico.
Ipse Dixit
- È “Darwin”, non “Darvinne”. Ed è considerato un famoso
scienziato nel… posto da dove vengo, uno dei più importanti a dir la verità. Le
sue teorie sono… -
- Avanti Artemisia… proprio tu, che porti il nome di una
delle Dee più importanti dell’Olimpo, credi a queste sciocchezze? – la
interruppe ridacchiando, e stavolta la bambina testarda era lei e lui l’adulto
paziente che cercava di spiegare un’ovvietà.
Lei scosse la testa un po’ irritata, ma in fondo
divertita.
Chissà cosa sarebbe successo se invece che lei nel
passato fosse finito lui nel suo futuro.
Per qualche minuto nessuno dei due parlò, poi ad un certo
punto lui, prendendo il silenzio di lei come un’ammissione di errore, ruppe il
silenzio con l’ennesima risata.
- Per un attimo ho temuto tu fossi realmente impazzita…
come quel buffo individuo capitato qui qualche giorno fa, che sosteneva che
fosse la Terra a gravitare attorno al Sole. Che sciocchezza. Mi pare si
chiamasse… sì, Galileo… - .
Come tanti ricordi di quella sera, anche quello che
avvenne a quel punto, rimase anche a distanza di anni sfocato nella mente di
Artemisia.
Era però sicura di essere rimasta sconvolta da
quell’affermazione pronunciata con così tanta leggerezza.
Aveva mancato uno dei più grandi geni della storia per
una sola settimana.
Forse, si ritrovò a pensare anni dopo, era così che
funzionava, uno alla volta per non mescolare troppo la storia, e le idee.
Magari, una settimana dopo sarebbe arrivato lì ad Atene
proprio lo sconosciuto Darvinne, portatore delle sue scoperte
rivoluzionarie.
Ma Artemisia non lo avrebbe mai saputo, perché proprio in
quell’istante il suo equilibrio dette nuovamente prova di sé e, aiutato da un
sasso nascosto dall’erba incolta, la fece precipitare al suolo.
E tutto si fece nero.
Di nuovo.
?ª?
Quando riaprì gli occhi era a casa.
Se ne rese conto subito, per i colori chiari che
regnavano tutt’intorno e che lei stessa aveva scelto, e per le urla isteriche di
sua madre.
- Quello stupido tappeto! Ah, ma stavolta lo brucio! -
stava urlando, e questo non era sicuramente un buon segno.
Sentì la voce di suo padre, un autentico coro angelico
rispetto a quella da banshee inferocita di sua madre, cercare di dissuaderla dal
processare – e giustiziare – l’arredamento.
Decisamente era a casa.
- Ciao straniera… - la voce bianca di sua sorella la
riportò del tutto alla realtà.
- Ehi mostriciattolo. Cos’è successo? –
Il nasino grazioso di Cinzia assunse la smorfia buffa che
aveva di solito al sentir pronunciare quel nomignolo che lei stessa le aveva
affibbiato, per un istante ebbe quasi la certezza di vederla girare i tacchi e
abbandonarla indignata alla sua momentanea confusione, ma stranamente la piccola
peste rispose.
- Sei inciampata nel tappeto, caduta e svenuta. Al
solito. – rispose con una risatina prima di svignarsela all’inseguimento della
loro gatta persiana.
E mentre distratta fissava i suoi genitori, che
continuavano a discutere sulle sorti del tappeto, nella sua mente iniziò a
prendere forma ciò che era successo, e i ricordi tornarono tutti pressappoco al
loro posto.
Allora era stato veramente un sogno.
Un bellissimo sogno, ma pur sempre il mero frutto della sua
fantasia.
Però, si disse, e di questo era certa, avrebbe conservato il
ricordo di quella notte in eterno.
Ridacchiò allegra; ora aveva anche una storia fantastica da
raccontare, doveva solo metterla nero su bianco.
Nove ore erano più che sufficienti.
Si alzò di slancio, dondolando un po’ a causa del leggero dolore
alla testa, e tenendosi con una mano alla sponda in ferro battuto del letto
raccolse matita e foglio ancora completamente immacolato.
Poi, mentre raggiungeva la scrivania schivando sua madre che
usciva dalla stanza con il tappeto fra le braccia, puntò distrattamente lo
sguardo sulla sveglia indaco che, dal suo posto sul comodino, rideva ora a
crepapelle.
Erano le 7.45, e i pallidi raggi di sole che filtravano dalle
tende socchiuse lo confermavano.
Per il racconto il tempo era scaduto.
Ma per ricordare no.
E il sorriso sul suo bel viso stavolta non si spense.
Fine...?
~ Angolino di Manami
~
Lo ammetto... è un po' autobiografica.
L'ispirazione di Artemisia è la copia esatta della mia, così come la sua
tremenda abitudine a ridursi sempre a fare le cose all'ultimo secondo e la
completa assuefazione per il suo cellulare.
L'equilibrio no invece, il mio è quasi perfetto. ^__^
Ad ogni modo, se non vi è piaciuta prendetevela con il mio programma scolastico:
mesi e mesi passati a studiare l'illuminismo hanno prodotto questi frutti.
Se invece vi è piaciuta o se, soprattutto, avete consigli su stile, forma e
varie, siete liberi di lasciare un commentino.
E io ovviamente ve ne sarò eternamente grata!^__^
Ok, basta, ho finito.
Grazie per essere arrivati fin qui.
XOXO
Campagna di Promozione Sociale - Messaggio No Profit:
Dona l’8‰ del tuo tempo alla causa pro recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
(Chiunque voglia aderire al messaggio, può
copia-incollarlo dove meglio crede)
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