Il segreto di casa Holland

di Framboise
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IL SEGRETO DI CASA HOLLAND
 
 
Le gocce di pioggia si rincorrevano sul vetro, scorrendo veloci prima di andare a morire a terra. Ned le seguiva con lo sguardo, il loro ticchettio un suono consolante che lo distraeva dai suoi pensieri. Allungò un dito verso la finestra per seguire il tragitto di una di loro.
Il rumore di una porta che si chiudeva alle sue spalle lo fece sobbalzare e la sua mano si ritirò di scatto, come un ladro colto a rubare. Voltandosi, con l’occhio buono mise a fuoco corti capelli rossi e un viso pallido e coperto di lentiggini. Era Rosemary.

Sua sorella Rose.

La giovane si avvicinò con il suo tipico passo silenzioso e gli posò una mano leggera sulla spalla.
«Come stai?»
Lui cercò di sorridere in risposta, sentendo il proprio volto stirarsi dolorosamente. Si chiese che aspetto avesse, ora, quando rideva. Spaventoso, probabilmente, ma con Rose era difficile dirlo. Lei non distoglieva mai lo sguardo dal suo viso, anche quando non indossava la protesi.
«Sto bene. Com’è andata al lavoro?»
Rose sospirò, avvicinandosi alla vecchia poltrona di tela stinta su cui era seduto.
«Come sempre. Posso?»
Ned si scostò quel tanto che bastava per permetterle di accoccolarglisi accanto. La ragazza si sedette con un sospiro stanco, posò il mento sulle ginocchia e chiuse gli occhi.

«Mi racconti della mamma?»
Il giovane si irrigidì. Erano mesi che temeva questo momento.
«Non me la ricordo più» mormorò.
Rosemary si voltò a guardarlo, stupita. Un lampo di tristezza le balenò negli occhi, ma fu lesta a nasconderlo.
«È per lo shock?» domandò. I medici l’avevano avvertita che avrebbe potuto succedere. Spesso i reduci soffrivano di problemi di memoria, ma aveva sperato che a Edward non sarebbe accaduto.
Lui annuì, evitando il suo sguardo. La ragazza si costrinse a sorridere.
«Non è niente, te lo racconto io. Diceva che Ned era il soprannome perfetto per te, perché aveva un suono allegro, mentre Edward era troppo lungo e serio per un bambino. Aveva i capelli rossi, come me, e il suo vestito preferito era lilla e leggero. Profumava di lavanda, perché ne teneva sempre dei sacchettini nei cassetti. Era quello che indossava il giorno in cui se ne è andata».

Tacque per un attimo, poi riprese.
«Mi piacerebbe poterti dire di più, ma sai, non me la ricordo quasi. Ero tanto piccola».
Ned le circondò le spalle con un braccio e la strinse a sé.
«Va bene così».
 
***
 
In paese mormoravano, lo sapeva. Parlavano dell’uomo con maschera che si nascondeva nella casa che era stata del padre, che non si vedeva mai per strada e parlava solo con la sorella. Non era del tutto vero. I primi tempi Ned aveva provato a uscire, ma gli sguardi della gente lo perseguitavano, con il misto di pietà e ribrezzo che vi si leggeva. In realtà, la protesi copriva la maggior parte del suo viso bruciato, ma così fissa e immobile, restava inquietante da vedere, inoltre la sua voce roca per le corde vocali danneggiate e l’unico occhio sano che si affacciava dall’apposita apertura come se stesse spiando il mondo dal buco di una serratura non miglioravano la situazione. A Londra, di reduci se ne potevano vedere a ogni angolo della strada, mentre lì si sentiva come il pezzo forte di un museo degli orrori.

Forse sarebbe stato meglio non lasciare la capitale, ma all’epoca era sembrata ad entrambi una soluzione, per quanto avesse l’amaro sapore della sconfitta. La sua morfina si mangiava il magro stipendio di Rosemary, che riusciva a malapena a pagare l’affitto dell’appartamento in cui vivevano. In quel periodo, qualsiasi rumore improvviso bastava a terrorizzarlo, riportandolo alle trincee. A volte, tornando dal lavoro, la sorella lo trovava rannicchiato a terra, tremante, con le braccia alzate a proteggersi la testa: a quel punto gli si sedeva accanto, lo teneva stretto mentre singhiozzava e gli canticchiava vecchie canzoni con voce sommessa come a un bambino fino a quando il tremito non cessava.

Era stata Rose che aveva proposto di tornare a vivere nella casa del padre, che dalla sua morte era rimasta vuota, nonostante avessero giurato a se stessi di non tornarci più. Lo aveva fatto per disperazione, per quei soldi che sembravano non bastare mai, nella certezza – o forse con la speranza – che Edward si sarebbe rifiutato di fare ritorno nell’Essex. Con sua grande sorpresa, invece, il fratello aveva accettato senza discutere. Forse, aveva pensato lei, un luogo più isolato e tranquillo gli avrebbe davvero fatto bene. Da qualche tempo, però, Ned sembrava ogni giorno più teso ed esausto, come se un peso invisibile gli gravasse le spalle, e sembrava fare fatica anche solo ad incrociare il suo sguardo. La verità era che non era sicura che qualcuno potesse stare meglio, in quel posto.

La casa era stata costruita isolata dal paese, discosta dalle altre case come una dama impoverita ma dal contegno altezzoso, e pareva rispecchiare il carattere del vecchio proprietario. Rose non era mai riuscita a considerarla sua: dentro di lei, sarebbe rimasta sempre la casa di suo padre. Forse era stato diverso, quando sua madre viveva ancora con loro, ma all’epoca era troppo piccola per esserne davvero sicura. E poi, se lo fosse stato davvero, che bisogno avrebbe avuto lei di andarsene?

Era una giornata di fine estate quando sua madre aveva indossato il suo vestito lilla ed era uscita per andare al mercato, per non fare più ritorno. Le ricerche non avevano dato alcun esito. In seguito, si era scoperto che aveva portato con sé il minimo indispensabile, dei soldi e pochi abiti, niente di più. Quando, anni dopo, lei e Ned si erano trasferiti a Londra, si era chiesta se anche la madre avesse provato il suo stesso senso di sollievo nel lasciarsi quella casa alle spalle.
No, davvero non avrebbe voluto dover tornare.

 
***
 
Lo specchio restituiva lo sguardo di Ned in modo quasi beffardo.
Il giovane osservò il reticolo di cicatrici violacee che gli ricopriva il viso e il collo, la palpebra sigillata dell’occhio cieco. Il suo riflesso gli ricordava una statua di cera lasciata sbadatamente troppo vicina a una fiamma. Erano passati dei mesi, eppure faticava ancora a riconosce quel volto devastato come il suo.

Allungò le mani verso la protesi che attendeva paziente sul cassettone. Una volta che l’ebbe indossata, si guardò di nuovo allo specchio. Forse, si disse, a uno sguardo disattento avrebbe ancora potuto passare per un essere umano. Cautamente si diresse verso la porta, i suoi passi che risuonavano nella casa silenziosa. Rosemary era al lavoro e non sarebbe tornata prima di qualche ora. La prospettiva dell’attesa gli stringeva lo stomaco in una morsa: la casa vuota lo faceva sentire a disagio, un intruso che vi si fosse introdotto di nascosto e ora si muovesse a tentoni tra oggetti che parlavano della vita di qualcun altro.

Per scrollarsi di dosso quella sensazione, Edward uscì in giardino, sedendosi su una sedia all’ombra dell’ippocastano. Aveva preso con sé un libro, ma rinunciò a leggerlo quando la testa cominciò a dolergli per aver sforzato troppo l’unico occhio. La sua mente cominciò a vagare, ma per una volta non sembrava voler tornare alle trincee. La sensazione del sole tiepido di fine estate sulla pelle era piacevole.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato, quando ad un tratto un rumore lo distolse dai suoi pensieri. Ned si irrigidì, in ascolto. Ci fu uno scricchiolio di foglie secche, poi delle voci che bisbigliavano concitate. Aguzzando gli occhi, riuscì a distinguere due figure nascoste dietro a un cespuglio poco lontano, il lampo di un maglione rosso vivo che faceva capolino tra le foglie. Erano due ragazzini del paese vicino, probabilmente erano entrati scavalcando la recinzione nel punto in cui si era rotta una delle assi di legno. A quella vista, il giovane sentì la rabbia risalirgli la gola, un sentimento bruciante, come non ricordava di averlo mai provato. Con uno scatto si alzò in piedi e si diresse a grandi passi verso la pianta dietro alla quale erano accovacciati i due, fino a sovrastarli. I bambini, che non dovevano avere più di dodici anni, lo osservavano impietriti ad occhi spalancati.

«Ci dispiace» balbettò uno di loro, le parole che si accavallavano l’una sull’altra per la paura. «Ci scusi tanto».
«Volevate dare un’occhiata?» ringhiò lui, portandosi le mani al volto. «Eccomi qui».
Con un gesto rapido, si tolse la protesi. A quella vista, i ragazzini scattarono in piedi e corsero via a rotta di collo. Edward li seguì con lo sguardo, il cuore che gli martellava nelle tempie e le mani che tremavano incontrollabilmente.

Solo dopo che furono scomparsi oltre la recinzione, si voltò e si diresse barcollando verso la casa. Una volta entrato, si appoggiò al muro e si lasciò scivolare a terra, inspirando lentamente nel tentativo di calmare il tremito. Quando gli sembrò di riuscire a respirare normalmente, si prese la testa tra le mani, le dita affondate dolorosamente nei capelli neri. Aveva esagerato, erano solo dei bambini. Da quando era tornato, a volte gli pareva che le sue emozioni sfuggissero al suo controllo e lo sommergessero, lasciandolo boccheggiante a cercare di arginarne il flusso come un pazzo che cerchi di fermare un’onda con le braccia.

Il sole stava cominciando a calare. Ned si alzò faticosamente da terra e stava per entrare in cucina, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Dal cassettone del salotto spuntava l’angolo bianco di un foglio di carta. Incuriosito, il giovane estrasse un plico di lettere tenute insieme da uno spago. Avevano i bordi sgualciti, a volte macchiati, a testimoniare le miglia che avevano percorso.
Le prime frasi gli fecero venire un groppo in gola.
 
Cara Rose,
ieri mi è arrivato il tuo pacco. I biscotti erano meravigliosi, credo di non essere mai stato più vicino al Paradiso di quando ho aperto quella scatola. Harry è seduto accanto a me e mi punzecchia un fianco con la sua matita per farmi aggiungere che ti ringrazia per averne mandata una anche a lui. Sono stati davvero apprezzati, se non l’avessi capito.
Ti ho scritto altre lettere nei giorni scorsi, ma forse ti arriveranno tutte insieme, sai come funziona la posta. In realtà non ho niente di nuovo da raccontarti, è solo che mi manca parlare con te. Stammi bene, sorellina.
Ned
P.S: ci tengo ad aggiungere che anche Harry ti saluta. La sua matita è particolarmente minacciosa.  
 
Edward strinse il foglio fino a spiegazzarlo, gli occhi serrati.

Al suo ritorno dal lavoro, Rosemary trovò il fratello in piedi in salotto, una lettera stretta in mano, l’occhio sano enorme e spaventato che contrastava in modo inquietante con l’espressione di forzata serenità della protesi che indossava.
«Ned, ti senti bene?»
Avvicinandosi a lui, riconobbe la lettera: era una di quelle che le aveva mandato dal fronte. Nell’angolo in basso a destra, subito sotto alla sua firma, Harry aveva aggiunto lo schizzo di un fiore.

Harry, il migliore amico di Edward, che l’aveva conosciuto al fronte.
Harry, che era morto il giorno dell’attacco, lo stesso in cui lui era rimasto ferito. Rose sapeva che suo fratello pensava spesso a lui, ma non ne parlava mai, così come evitava di raccontarle qualsiasi cosa avesse a che fare con la guerra. Aveva provato a fargli raccontare qualcosa, ma lui sembrava semplicemente ignorarla.

Rose gli tolse delicatamente il foglio di mano.
«Va tutto bene, Ned. Non sentirti in colpa per lui. Non avresti potuto fare niente. Così ti fai del male da solo».
La giovane rimise la lettera nel plico, insieme alle altre e fece per uscire dalla stanza, poi, come per un ripensamento, si fermò sulla soglia.
«A proposito, come le hai trovate?»
Suo fratello indicò con un cenno della testa il mobile di legno scuro che troneggiava nel salotto.
«Non le stavo cercando. È solo che spuntavano da lì e volevo sapere che cosa fossero».
A quelle parole, Rose aggrottò la fronte, per poi passarsi distrattamente la mano nei capelli rossi.
«Strano. Avrei detto di averle lasciate nel cassetto della mia scrivania. Le ho sempre tenute lì».

 
***
 
A volte Rose sentiva tanto la mancanza di Londra che le pareva che il suo cuore fosse sul punto di scoppiare. O forse non era la città, ma il ricordo della sua vita laggiù. Per la prima volta nella sua vita, si era sentita libera. Lontano da quella casa senza luce, dagli scatti d’ira di suo padre e dalle sue regole assurde e ossessive, aveva sentito di poter finalmente cominciare a respirare. Tornare era stato come vedersi chiudere di nuovo intorno le sbarre di una prigione. Continuava a ripetersi che era solo una soluzione temporanea, che sarebbero tornati nella capitale non appena Ned si fosse sentito meglio, ma questo non le impediva di provare un senso di soffocamento ogni volta che posava lo sguardo sulla casa.

Non ce l’aveva con suo fratello per aver dovuto trasferirsi di nuovo nell’Essex, o almeno era questo ciò che si ripeteva. Quando le era arrivata la lettera che le comunicava che era stato ferito, era immediatamente partita per la Francia, nonostante i rischi. Una volta raggiunto l’ospedale, un infermiere dall’aria stanca l’aveva accompagnata per un dedalo di corridoi sovraffollati fino a raggiungere una stanza isolata. Lei era entrata quasi correndo, per poi bloccarsi bruscamente davanti alla figura distesa nel letto.

«Vuole sedersi?» aveva domandato l’infermiere, forse temendo di vederla svenire.

Abituata a persone che scambiavano la sua timidezza per fragilità, Rose aveva rifiutato con un cenno brusco e si era avvicinata al capezzale di Ned. L’uomo aveva cercato di prepararla, ma nessuna delle parole che aveva usato – non “gravemente ustionato” e neppure “traumi facciali” – avrebbero potuto prepararla alla vista che si era trovata davanti agli occhi. Suo fratello era irriconoscibile, il volto una maschera di carne viva. La ragazza si ritrovò a cercarvi febbrilmente dei tratti che le fossero familiari: sì, i capelli neri, per quanto fossero stati tagliati per via delle operazioni, erano quelli di Edward, e l’occhio sinistro, miracolosamente intatto, era del blu che ricordava così bene.

In seguito, i medici le avevano spiegato che Ned era stato investito in pieno dallo scoppio di una granata. La morfina, che gli era somministrata in grandi quantità per mitigare il dolore delle ustioni e delle ferite causate dalle schegge, lo manteneva per la maggior parte del tempo in uno stato di stupore febbrile. La maggior parte delle volte, Rosemary non era neppure sicura che la riconoscesse, ma questo non le aveva impedito di restare fino a quando il fratello non era stato nelle condizioni di tornare in Inghilterra. L’aveva visto girare per la casa come uno spettro, come se fosse entrato per la prima volta in un luogo mai visto.

Sapeva che non sarebbe stato lo stesso: aveva sentito i racconti di altre donne i cui mariti o figli erano tornati dal fronte, inoltre i medici l’avevano avvertita che avrebbe potuto essere soggetto a sbalzi d’umore dovuti allo shock e alla progressiva diminuzione delle dosi di morfina, eppure non riusciva ad impedirsi di pensare che a tratti le pareva uno sconosciuto. Aveva creduto che con il tempo la situazione sarebbe migliorata, ma da quando avevano lasciato Londra, Edward sembrava se possibile ancora più guardingo, quasi credesse che ci fosse sempre qualcuno sul punto di cacciarlo via. Non dormiva neppure nella sua vecchia camera da letto, che aveva insistito per chiudere a chiave: si era sistemato in quella che un tempo era chiamata la stanza degli ospiti, anche se era un modo piuttosto ottimistico per definire quattro mura spoglie e un letto dal materasso cigolante che nessuno aveva mai avuto occasione di usare. Suo padre non era esattamente una persona amichevole.

Era la casa la causa di tutto. Era un’idea irrazionale, assurda, eppure Rose non riusciva ad impedirsi di pensarlo. C’era qualcosa di affamato in quel luogo, qualcosa che prendeva e prendeva. Qualcosa che reclamava ciò che era suo, e che escludeva il resto.
“Può una casa non riconoscere qualcuno?”
***

All’inizio aveva creduto che fosse solo il temporale, ma una volta che il vento si fu placato, lasciando posto a un silenzio simile ad un respiro trattenuto, Ned si rese conto che il rumore proveniva dal pianterreno. Udiva dei passi e dei fruscii, come di oggetti che venissero spostati per la stanza.

“C’è qualcuno in casa”.

Il giovane si irrigidì e allungò a tentoni una mano sulla piccola scrivania fino ad afferrare un tagliacarte, quindi si diresse il più silenziosamente possibile verso le scale, le orecchie tese e il cuore che gli martellava nelle tempie. Per un attimo si ritrovò proiettato nella trincea, sommerso dal fango e con il fucile a baionetta stretto tra le mani, ad aspettare il segnale di attacco sperando di non essere colpito da un proiettile o da una scheggia vagante. Ma non era più in Francia, si disse, forzandosi a respirare normalmente e scrollando la testa come se potesse cacciare quei pensieri, nonostante fosse sempre più difficile, visto che i rumori si erano fatti più forti e vicini. Quelli non erano i tedeschi, ma probabilmente i ragazzini di qualche giorno prima, tornati per un qualche scherzo di cattivo gusto. O forse dei ladri, ma era improbabile che qualcuno credesse che lì ci fosse qualcosa da rubare. Erano bambini, nient’altro.

Nessun altro.

Uno schianto improvviso, come di un bicchiere gettato a terra, lo fece trasalire. Con un grido, Edward fece d’un balzo gli ultimi gradini, il tagliacarte brandito davanti a sé, e spalancò la porta del salotto.
La stanza era devastata. Alcune sedie erano rovesciate sul pavimento, circondate dalle schegge di un vaso di vetro e dai fiori che aveva contenuto, i cui petali rovinati erano sparsi per tutta la stanza, insieme a dei fogli di carta.
Il giovane fece cautamente un passo avanti, cercando di non tagliarsi con i frammenti e guardandosi freneticamente attorno. La porta d’ingresso era ancora bloccata con il catenaccio, come l’aveva lasciata, e anche le finestre erano chiuse. Era impossibile che qualcuno fosse entrato, non da lì. Ned si abbassò sulle ginocchia e cominciò meccanicamente a raccogliere tutto quello che era caduto a terra. Quando prese in mano uno dei fogli, sussultò. In grandi lettere rosse – da quando avevano inchiostro rosso in casa? – c’era scritta una parola, una sola, che occupava tutta la pagina.

Harry.

Il ragazzo raccolse un altro foglio, poi un altro ancora.

Harry. Harry. Harry.

A tentoni, afferrò qualcosa di freddo. Era la cornice della fotografia di famiglia che di solito stava sul cassettone e ora giaceva a faccia in giù sul pavimento. Ned si tagliò un polpastrello con un angolo del vetro che la copriva. Imprecando, si portò il dito alla bocca, poi voltò l’immagine, sperando di non averla macchiata.

Fu solo a quel punto che cominciò a urlare.
***
 
La fotografia era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Rose l’aveva avvicinata al viso, come se ci fosse stato qualcos’altro da vedere. L’avevano fatta quando lei doveva avere tre o quattro anni. Ricordava vagamente lo studio del fotografo, le mani della madre sulle sue spalle, il pizzicore del vestito della domenica che le avevano fatto indossare per l’occasione. Il padre aveva intimato loro di avere un’aria seria, appropriata alla circostanza, ma Ned aveva riso, l’unico di tutti loro. Il suo sorriso era sempre stato accattivante, già quand’era bambino, tanto che era sempre stato quello il dettaglio dell’immagine che catturava l’attenzione di chi osservava l’immagine. Sorriso che era solo un ricordo, ora, perché al posto del volto di suo fratello e di quello della madre restavano due buchi dal bordo bruciacchiato, come se qualcuno vi avesse premuto sopra una sigaretta accesa.
«Chi è stato?»
Il giovane sospirò, sconfitto. «Saranno stati quei ragazzini, te l’ho detto. Te ne avevo già parlato».
«Ma come avrebbero fatto a entrare? E perché, poi, fare una cosa del genere?»
«Non lo so!» gridò lui, alzandosi in piedi di scatto. «Non lo so, non è possibile che sappiano…»
Rose si interruppe, voltandosi verso di lui. «Che sappiano cosa?»
Suo fratello si lasciò cadere sulla sedia. «Niente» mormorò, passandosi stancamente una mano sulla protesi. «Non so a che cosa stessi pensando. Scusami».
La giovane sospirò, poi si alzò e cominciò a camminare nervosamente per la cucina.
«Ragazzi o no, ce ne dobbiamo andare. Prenderemo un appartamento in affitto, non importa dove, basta che sia lontano da qui».
«Con quali soldi?» domandò amaramente l’altro.
«Ho dei risparmi da parte. Non è molto, ma per un po’ basterà».
«Per quanto? Due mesi? Tre? Poi dovremo tornare qui e non sarà cambiato niente».
«Troverò un altro lavoro. Le fabbriche cercano sempre operai».
«Stanno licenziando le donne per fare posto ai reduci dal fronte. Non è più come durante la guerra, Rose. Lasciare il tuo lavoro qui è una follia».
«La vera follia è restare. Questa casa è marcia, Ned, e ci sta facendo impazzire entrambi. Sta solo aspettando che facciamo un passo falso».
A quelle parole, il ragazzo trasalì. Prendendo un profondo respiro, ringhiò: «Questa è casa nostra. Io non me ne vado».
Distogliendo lo sguardo da lui, la giovane scosse la testa.
«Casa nostra? E da quando? Come se non ce ne fossimo andati da qui non appena ne abbiamo avuto la possibilità» sbottò, uscendo dalla stanza. «A volte mi sembra di non riconoscerti. Non so chi sei, Ned. Non lo so più».
Qualche ora più tardi, svegliandosi all’improvviso, Rosemary udì dei gemiti provenire dalla stanza del fratello. Non era una novità: era da quando era tornato dalla Francia che soffriva di incubi. Non parlava nel sonno, ma emetteva dei suoni soffocati e singhiozzanti, come un bambino spaventato, o come se qualcuno fosse sul punto di fargli del male.
Quella notte, non andò a svegliarlo.
***

La mattina seguente, Rose e Ned si muovevano con cautela attorno al tavolo della cucina, lanciandosi di tanto in tanto uno sguardo in tralice, come se un movimento brusco o una parola di troppo potesse irrimediabilmente rompere la fragile tregua che si erano imposti.
Era una domenica mattina assolata ma fredda, con il vento del nord che spazzava inclemente le fronde degli alberi e il cielo terso di un azzurro pallido. La giovane si avvicinò alla finestra socchiusa, guardando le foglie vorticare nell’aria.
«Penso che uscirò a fare una passeggiata. Vieni anche tu?»
Una domanda che era una mano tesa, un’offerta di pace. Con aria di scusa, Ned scosse la testa. Non si sentiva troppo bene, disse, forse sarebbe uscito in giardino più tardi.
«Preparo io il pranzo» disse, osservando Rosemary lottare contro le maniche del suo cappotto e uscire di casa in un lampo di capelli rossi scompigliati dalle raffiche, dopo avergli rivolto un rapido sorriso.

Una volta rimasto solo, Ned lavò le tazze della colazione, improvvisamente consapevole del silenzio intorno a lui. Rifiutare la proposta di uscire era stato quasi automatico, forse per il timore di sostenere lo sguardo di qualcuno dei paesani, o forse per il ricordo ancora vivo del litigio della sera precedente, una ferita aperta per entrambi. Lentamente, rassettò la tavola, cercando di ignorare il crescente senso di oppressione che gli serrava il petto. Senza Rose la casa sembrava diversa, come se la sua presenza rendesse l’aria più respirabile. O come se qualcosa non lo volesse lì.
«Questa è casa mia» disse rivolto alla stanza vuota. La sua voce rimbombò stonata e fuori posto nella cucina silenziosa, la frase quella di un bambino che prova a convincersi della sua bugia. Non importava quante volte la ripetesse, non sarebbe mai suonata vera, neppure alle sue stesse orecchie.
Gli dispiaceva di aver discusso con Rosemary la sera precedente. Al suo ritorno le avrebbe chiesto scusa. Sì, avrebbe fatto così, e nel pomeriggio avrebbero preso il tè con i biscotti come ogni domenica – un piccolo rituale confortante – e lei gli avrebbe raccontato le ultime novità del paese con il rumore del vento in sottofondo. Rasserenato, cercò di respirare profondamente come gli avevano insegnato i dottori, per scacciare la sensazione di essere osservato.

Un rumore di pasi alle sue spalle lo fece voltare.
«Già qui?» chiese, ma la domanda gli morì sulle labbra quando si rese conto che l’ingresso era deserto.
C’era qualcosa di strano in quel suono. Ad un ascolto più attento, si rese conto che non proveniva dal lì, ma dal piano di sopra. Dalla sua stanza. Non quella in cui dormiva, ma quella che aveva chiuso a chiave. Quella consapevolezza gli tolse il respiro, tanto che dovette afferrarsi al bordo del tavolo con entrambe le mani per non cadere a terra.
«Non è possibile» mormorò, una frase che voleva suonare sicura, ma che suonava più come una preghiera. Una supplica inutile, perché dalla camera continuava a provenire quel rumore, come se qualcuno la stesse misurando a grandi passi.
Febbrilmente, Ned estrasse da un cassetto la pistola dell’esercito – Rose l’aveva nascosta tempo prima, ma lui l’aveva ritrovata mentre lei era al lavoro e l’aveva messa in un mobile del salotto, per ogni evenienza – e si diresse il più silenziosamente possibile, stringendola nella mano sudata. Il suono era diventato più forte. I passi si erano fatti sempre più concitati, da bestia in gabbia, ed erano intervallati da tonfi e colpi improvvisi, come se qualcuno stesse lanciando degli oggetti contro le pareti. 

Dopo aver percorso un corridoio troppo lungo, da sogno, il giovane si ritrovò davanti alla stanza chiusa a chiave e allungò una mano riluttante davanti a sé, fino a portarla a pochi centimetri dalla maniglia. In quel momento, come se qualcuno all’interno vi si fosse buttato contro con tutto il suo peso, la porta tremò sui cardini con uno schianto, seguito dopo pochi secondi da un altro, poi da un altro ancora. Il legno sembrava sul punto di spezzarsi, ma il vecchio lucchetto non cedeva.
“Vuole uscire, Dio mio, vuole uscire” pensò confusamente Ned nel vedere la maniglia che veniva scossa violentemente su e giù. “Sa che sono qui. Sa quello che ho fatto”. 
Si lasciò scivolare sul pavimento, lo sguardo sempre fisso sulla porta, che si piegava sotto nuovi, furibondi assalti. Dietro la maschera, i denti – quelli che gli restavano – battevano incontrollabili e il suo volto era coperto di sudore, o forse di lacrime.
Vagamente gli parve di udire una voce, ma sembrava lontana, irreale come un ricordo. La stanza invece era lì, così come quello che lo aspettava lì dentro, smaniando per uscire.
“Sta arrivando”.
***

Non appena ebbe messo piede in casa, Rose capì che c’era qualcosa di sbagliato. Istintivamente, attraversò il salotto in punta di piedi, guardandosi intorno ma incontrando solo stanze vuote.
«Ned?»
Un suono soffocato al piano superiore attirò la sua attenzione. La giovane salì le scale quasi di corsa, e una volta sul pianerottolo si trovò davanti suo fratello che, accasciato sul pavimento, fissava terrorizzato la porta della sua vecchia camera da letto. Con un tuffo al cuore, si rese conto che stringeva in mano la pistola. Come aveva fatto a trovarla?
Lentamente, fece un passo verso di lui.
«Edward» lo chiamò dolcemente, cercando ti mantenere un tono il più calmo possibile. «Va tutto bene. Sei con me, adesso, sei a casa al sicuro. Non hai bisogno di quella».
A quelle parole, il giovane si voltò. Dietro all’espressione di imperturbabile tranquillità della protesi, l’occhio rimasto, come impazzito, saettava da lei alla porta della stanza.
Suo fratello prese un respiro tremante.
«Rose. Rose, mi dispiace tanto».
«Va tutto bene» ripeté la ragazza, ma lui la interruppe.
«Lui sa che cosa ho fatto. È qui».
«Chi, Ned? Chi è qui?»
Rose lo vide prendersi la testa tra le mani.
«Io non sono Ned» replicò con voce roca, alzando un dito malfermo ad indicare la camera. «Ned è lui. È lì dentro».
***

«Quando torneremo a casa, puoi venire a stare da noi».
Seduto sui talloni nella trincea fangosa, Harry aveva riso brevemente.
«Certo. Sono sicuro che tua sorella ne sarebbe entusiasta».
Ned gli aveva allungato una gomitata nelle costole.
«Dico sul serio, scemo! Dove si vive in due, ci si sta anche in tre. E Rose ti vuole già bene, la conosco. Non avrebbe mandato anche a te quei biscotti, altrimenti. La conosco».
L’altro aveva scosso la testa brevemente. Edward stava scherzando, lo sapeva. Certe cose non succedono e basta. Però la sera, prima di addormentarsi, ogni tanto ci pensava lo stesso, colpevolmente. Loro tre – Rosemary non l’aveva mai vista, in realtà, ma dai racconti di dell’amico gli pareva di riuscire a immaginarsela – seduti attorno a un tavolo, a colazione, tra le risate.
Era ridicolo, lo sapeva. Da bambino, all’orfanatrofio, lo avrebbero preso in giro a sangue per delle fantasie del genere, buone solo per i più piccoli. E dire che aveva passato i dieci anni da un po’.

L’attacco era stato chiamato. Macchinalmente, Harry aveva stretto il fucile in mano e si era arrampicato fuori dalla trincea, mettendosi poi a correre sul terreno dissestato. Tutt’intorno sentiva il sibilare dei proiettili e l’aria sembrava fatta di fumo e acciaio. Nella confusione, ad un tratto aveva scorto in lontananza la sagoma familiare di Edward e aveva cercato di dirigersi verso di lui in mezzo alla calca. Era già quasi a portata d’orecchio, quando uno scoppio improvviso l’aveva sollevato e sbattuto a terra, mentre gli occhi e la bocca gli si riempivano di fango. Quando era riuscito a rimettersi in piedi, mezzo assordato e scosso da una tosse furibonda, aveva alzato lo sguardo. Nel punto dove fino a poco prima aveva visto Ned c’era un cratere spalancato nel terreno, come se la terra stessa volesse gridare la sua disperazione.

Incurante delle pallottole, Harry era corso verso la buca, scivolando sul terreno bagnato e inciampando nei corpi che coprivano il campo di battaglia. Una volta che l’ebbe raggiunta, era caduto in ginocchio. Per un attimo aveva creduto di urlare, ma la voce non riusciva a farsi strada nella sua gola, mentre la sua mente si rifiutava di accettare – aveva già visto molte cose indicibili, ma quello no, quello non era possibile – che quei pezzi insanguinati davanti a lui fossero tutto ciò che restava del suo migliore amico. Si era ritrovato proiettato in avanti, piegato in due dai conati di vomito. Quando era riuscito a riprendere fiato, un piccolo oggetto semisepolto dalla terra aveva attirato la sua attenzione. Era una targhetta identificativa, con il nome Edward Holland che si leggeva chiaramente nonostante il fango, la cordicella ancora attaccata a – Dio, non lo sapeva più…
Il più delicatamente possibile, l’aveva staccata, stringendola in mano come se da ciò fosse dipesa la sua stessa vita. In quell’istante, un rumore era riuscito a farsi strada nella sua mente annebbiata. Voltandosi, aveva visto una sagoma scura volare verso di lui.

Mesi prima, da qualche parte nelle retrovie, aveva sentito alcuni soldati dire che le granate non cadevano mai due volte nello stesso posto.
Non era vero.

Dei giorni successivi ricordava soltanto il dolore, mostruoso e senza tregua, come se un branco di lupi lo stesse divorando vivo. Quando la sua coscienza febbricitante riemergeva dall’oblio, la sola cosa che riusciva a fare era gridare e gridare, finché la voce non gli si spezzava o una mano misteriosa non gli concedeva la grazia di un’altra dose di morfina.
Doveva essere rimasto in quello stato per settimane, anche se non aveva memoria del viaggio dal fronte verso l’ospedale. Nei pochi momenti di veglia, vedeva dei volti confusi che parlavano vicino a lui, ma le loro parole avrebbero potuto essere in una lingua straniera.
Non sapeva quando si era reso conto che tutti lo chiamavano Edward. Aveva sentito il suo nome sulla bocca di medici e infermiere, ma i loro discorsi per la maggior parte del tempo si perdevano nella nebbia fumosa che erano i suoi ricordi da quando si era risvegliato in ospedale. Quando si erano fatti più chiari, l’improvvisa consapevolezza lo aveva spinto ad afferrare di scatto la mando della sconosciuta dai capelli rossi e gli occhi cerchiati che vedeva spesso accanto alla sua brandina.
«Har…ry» era stato tutto quello che era riuscito a mormorare, con una voce che non era più la sua. Più tardi avrebbe scoperto che, oltre a cancellargli per sempre il viso, le schegge dello shrapnel gli avevano danneggiato le corde vocali.
La giovane gli aveva stretto la mano, sospingendolo dolcemente sul letto.
«Harry è morto, Ned. È stato nella stessa esplosione dove sei rimasto ferito. Mi dispiace così tanto».
Lui si era guardato intorno, smarrito. Fu così che vide il proprio riflesso nella brocca d’acqua che tenevano accanto al suo letto.
Avevano dovuto fargli un’altra iniezione di morfina, perché smettesse di gridare.

In seguito, i medici avevano detto che avevano potuto identificarlo solo grazie alla targhetta che aveva in mano. Doveva essersi staccata dalla sua divisa durante l’esplosione, infatti non ne avevano trovato traccia sul poco che restava della sua uniforme. Era stata una vera fortuna che la stringesse così forte, tanto che, prima dell’operazione, per togliergliela avevano dovuto aprirgli a forza le dita. Per un uomo in stato di incoscienza, era davvero incredibile.
***

«Volevo dirtelo. Ogni giorno mi alzavo e pensavo che sì, ti avrei raccontato tutto, ma non ci sono mai riuscito». Il giovane chiuse l’occhio buono, come per cancellare l’espressione attonita di Rosemary. «Avevo paura. Non c’era nessuno ad aspettarmi a casa, e non sopportavo il pensiero che tu te ne andassi. Avevo soltanto te».
La ragazza lo osservava, frugando la protesi come a volervi trovare un segno che, nonostante tutto, da qualche parte sotto la maschera c’era ancora suo fratello.
«Mi dispiace tanto. Edward è morto, e io ho rubato quello che restava della sua vita. E lui lo sa». 
Improvvisamente, si portò la pistola alla tempia.
«Ned!» gridò Rose. Quella parola strappò all’altro un gemito basso, da animale ferito.
«Harry. Harry, aspetta».
Per un attimo, incrociò il suo sguardo, e lo vide allontanare lentamente l’arma dalla testa, come se fosse stato sul punto di posarla sul pavimento, poi il braccio gli si piegò di scatto con un movimento fulmineo e innaturale, da burattino, e uno sparo esplose nel silenzio.
“Come se avesse preso una decisione solo in quel momento” raccontò una Rosemary in lacrime alla polizia, poche ore dopo.
Oppure – ed era impossibile, lo sapeva, eppure non riusciva a impedirsi di pensarlo – come se fosse stato qualcun altro a premere il grilletto. 
 





 




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