28.
Fratelli
Le ultime note di
un motivetto pop finirono di aleggiare nell’aria dell’abitacolo, prima che
spegnessi la radio e la mente per quella giornata. Ero abbastanza sicuro che
fosse It takes a fool to remain sane, canzone che Oliver spesso
ascoltava, perché trovava che il titolo si adattasse bene a quello che la sua
carriera lavorativa gli avrebbe riservato. Mi rimbalzarono nella testa tutte
quelle parole sui pregiudizi, sui muri tra le persone e la fatica di essere se
stessi su quelle note appena dissipate; e l’attimo dopo pensavo che ad Oliver
non sarebbero più piaciute nuove canzoni - del resto era bloccato,
cristallizzato, sì, in un attimo di tempo fermo come un’istantanea, esposta su
una lapide in balia del giudizio inesorabile del tempo, che lo avrebbe inghiottito
fino a farlo sparire.
Adagiai
il capo sul poggiatesta, girai le chiavi della macchina e provai a scacciare il
suo viso, dai contorni sfumati per via della stanchezza, così finalmente rimasi
solo con me stesso. Lasciai che la mia mente si rilassasse, come se fosse stata
compressa da una corona troppo stretta per tutto quel tempo. Chiusi gli occhi
per qualche minuto e il cerchio cominciò ad allentarsi, fino a scomparire del
tutto, poi un sospiro profondo mi uscì senza che me ne accorgessi.
Se c’era
una cosa che mi appariva chiara, in quel momento, era che il destino mi stava
di certo mandando un messaggio. Io e Nathan non eravamo destinati a
oltrepassare quella linea tra amici e più che amici; potevamo solo continuare a
starci in bilico sopra, finché non avremmo perso entrambi l’equilibrio dalla
parte sbagliata.
Sospirai
ancora, poi riaprii gli occhi piano. Scorsi un paio di gocce bagnare il
parabrezza. Cadevano decise, fino a schiantarsi, per poi scendere giù e
tracciare una riga sul vetro. Afferrai la valigetta che portavo con me, aprii
la portiera, uscii e me la misi sopra la testa. Poi cominciai a correre, la
valigetta in una mano e le chiavi dell’auto nell’altra.
Si
sarebbe prospettata una serata difficile, per più di un motivo.
Come rientrai in casa,
trovai mio padre sul divano a leggere il giornale, mentre di mia madre
avvertivo solo la voce, presumibilmente dalla cucina. La sentii richiudere il
frigo e, subito dopo, lamentarsi del fatto che fosse vuoto.
«Ciao,
bentornato.»
Salutai
mio padre di rimando e mia madre si affacciò all'ingresso. Erano arrivati
quella mattina, dopo poco più di due settimane che non ci vedevamo. In linea di
massima ci incontravamo solo per le feste, ma da quando era morto Oliver
avevano infittito le visite, che per fortuna non pesavano troppo sul bilancio
familiare per via del lavoro di mia madre, che oltre ad avere una buona
posizione aveva anche molti clienti negli Stati Uniti.
«Ehi,
tesoro. Come va? Ti vedo un po’ stanco.»
«Sì,
in effetti è stata una giornata pesante.»
Abbassai
la valigetta e la poggiai in corridoio. Presi posto sul divano accanto a mio
padre e sbirciai le notizie di sport che stava leggendo.
«La
mamma sta bene? Mi sembra un po’ agitata.»
Mio
padre rise, poi chiuse il giornale e lo ripiegò, posandolo accanto a lui.
«Oggi
è stata in riunione tutto il giorno, probabilmente è ancora su di giri. Sai,
sta per concludere un affare con un cliente importante ed è un po’ tesa. Quindi
mi ha cacciato via dalla cucina e si è messa di là a squartare un po’ di
verdure. Così, per rilassarsi.»
Non
finii di ridacchiare che lei sbucò dal corridoio. Le facemmo cenno di farci
compagnia e lei acconsentì di farlo senza coltelli in mano.
«È
stata una giornata orribile. Stiamo per concludere un accordo importante con la
Play Records, ma vogliono imporci condizioni assurde. E poi così, dal nulla, si
inventano clausole di cui non avevamo mai discusso!»
Mio
padre scosse il capo.
«Te
l’ho detto, cercano di tirare l’acqua al loro mulino.»
Lei
alzò gli occhi al cielo, spazientita, in contrasto col completo che indossava,
che invece suggeriva un certo contegno. Camicia bianca, giacca e pantaloni blu;
un classico intramontabile.
«D’accordo,
ma avevano già sottoscritto gli accordi preliminari! Evidentemente siamo stati
troppo ambigui in alcuni punti, fanno leva sui cavilli o su frasi di cui
trovano interpretazioni molto fantasiose. E tutto questo per qualche stupido
migliaio di dollari!»
La
osservai e pensai che, se era così agitata con noi, col cliente doveva aver
dato in escandescenze.
«Ma
il loro problema qual è?», domandai.
Osservai
mio padre e capii che stava seguendo la regola principe da sfoderare con le
persone incazzate: dar loro spago fino a farle calmare.
«Dicono
che chiediamo troppo per la campagna pubblicitaria che abbiamo offerto.
Pubblicità cartacea, cartelloni, pure sulla rete! Quegli stupidi ci hanno
contestato che chiediamo troppo per un servizio che ancora utilizzano in
pochi.»
«Internet
sarà il futuro del mondo, lo dicono tutti gli esperti.»
La
voce di mio padre, per lei, era solo un disturbo nel suo lungo flusso di
pensieri e lui lo sapeva bene. Io, invece, guardai l’ora e mi accorsi che era
quasi tempo di cenare.
«Ah,
basta, non voglio parlarne più. Gli abbiamo dato tempo una settimana, poi
devono farci sapere. Forse Alan sa darci qualche consiglio su come persuadere
qualcuno.»
Distolsi
l’attenzione dai miei pensieri appena in tempo. Non sembravo così tanto
assente, ma non avevo la risposta pronta. Il mobile della tv davanti ai miei
occhi sembrava più interessante, in quel momento.
«Be’,
mi sa che anch’io ho bisogno di perfezionare quest’arte.»
Forse
fu il tono, forse la freddezza con cui mi uscì, ma la mia risposta ebbe il
potere di mettere una pietra tombale su quella discussione. Dalla finestra
entrò una lieve brezza, che portò con sé anche un leggero alito di fumo. Il mio
pensiero volò nuovamente a Nathan e fui pervaso da un senso di delusione mista
a tristezza.
Mi
ero ripetuto fin troppe volte di non crearmi false speranze, ma avevo preferito
dimostrare qualcosa a quell’Alan cinico che credevo fosse nel torto; tuttavia,
la persona che ero stata per venticinque anni la sapeva decisamente più lunga
di quella che mi ero illusa di essere per quasi due mesi.
I
miei continuarono a scambiare due chiacchiere, poi mia madre se ne tornò in
cucina a squartare verdure, come aveva detto mio padre. Fui tentato di andare
con lei, ma, quando la vidi estrarre un coltello per la carne dal primo
cassetto, pensai che forse sarebbe stato meglio restare sul divano.
Tutto
ciò che rimase furono rumori ambientali. L’orologio al muro scandiva i secondi
davanti a me, mia madre apriva e chiudeva cassetti e mio padre faceva
sfrigolare la fodera del divano rimettendosi comodo. Fissai il soffitto bianco
del salotto sopra la mia testa, mentre la stanchezza cominciò a farsi largo
tutta insieme. Mi sembrò di non avere più forza nelle braccia, né tantomeno la
capacità di alzarmi dal divano per fare qualcosa; poco dopo, poi, subentrò di
nuovo quel cerchio alla testa forte e improvviso, che mi debilitò quasi
completamente.
Abbassai
lo sguardo solo quando udii la televisione accendersi. Mio padre aveva il
telecomando in mano e sembrava molto incuriosito dalla pubblicità che stavano passando
in quel momento: una nuova serie tv ambientata in un ospedale, dove il
protagonista sembrava uno svitato che non prendeva troppo seriamente il suo
lavoro. Nella scena successiva, un’altra dottoressa ammiccava al protagonista,
ma forse era solo frutto della sua fantasia. Sembrava divertente, ma non era il
genere di cose che avrei guardato con Oliver.
O
forse avrei dovuto dire: “che non avrebbe guardato Oliver”?
«Alan,
tesoro, ma hai solo insalata in frigo?»
Ruotai
semplicemente la testa verso la cucina, il massimo a cui potevo aspirare in
quel momento.
«Sì,
perché? Fa bene.»
«Hai
ragione, ma non ti ricordavo così salutista.»
Ruotai
ancora una volta lo sguardo verso la tv. La serie sarebbe iniziata proprio
quella sera, in seconda serata. Non la consideravano evidentemente un gran
cavallo di battaglia.
In
frigo avevo solo insalata, era vero. O meglio, c’era anche altro: yogurt magri,
snack al forno e non fritti, e tutta un’altra serie di cose a basso contenuto
calorico e di grassi. Ripensai al me diciannovenne con una valigia in mano e
una barretta al cioccolato in bocca, appena uscito dall’aeroporto. E no, non
erano le barrette per sportivi.
Ormai
continuavo a comprare quella roba per inerzia, andavo al supermercato col
pilota automatico. Abituarmi a quel regime alimentare aveva però dato i suoi
frutti: mi ero tenuto meglio di tanti colleghi in polizia, che al contrario
avevano messo su una bella pancetta.
La
barretta al cioccolato, che di dietetico non aveva proprio niente, mi sfrecciò
di nuovo nella testa.
Lasciai
gli occhi sulla tv, ma spostai la mente: il minimarket nell’isolato accanto era
sicuramente aperto. Aperture giornaliere, grande invenzione del nuovo
millennio, create apposta per venire in soccorso ai drogati di cibo.
Chiusi
gli occhi per un attimo e cercai di calmarmi. C’era qualcosa di familiare in
tutta quell’impazienza e alla mente, ancora una volta, mi tornò Nathan. Avrebbe
anche ucciso pur di avere il suo pacchetto di sigarette in tasca e una sana
dose di tabacco in giro per i polmoni.
Bah,
al diavolo le insalate salutistiche. Tutte quelle trasgressioni cominciarono ad
apparirmi quasi sane, indispensabili, così come lo era Nathan.
Ripensai
a quando lo avevo visto sul divano, addormentato, e al momento in cui era
rotolato sul pavimento perché lo avevo svegliato. Avevamo parlato avvolti dalla
notte, in un silenzio che era sembrato quasi surreale per quella città, ma
perfetto per la parte più intima di noi.
Forse
sarebbe potuto succedere qualcosa in quell’occasione, o anche nelle molte altre
che erano seguite, ma entrambi ci eravamo sempre tirati indietro. Come aveva
detto lui in ospedale, forse non eravamo ancora pronti. Ma se lui se ne fosse
andato, lo saremmo mai stati?
«Ah,
ecco cosa volevo chiederti!»
Mio
padre interruppe la mia sequela di ricordi.
«Dimmi
tutto.»
«Come
sta il ragazzo che era all’ospedale con te?»
Tirai
un sorriso: sicuramente gli era venuto in mente guardando la pubblicità alla
televisione.
«Bene,
è stato ricoverato per un paio di settimane, ma adesso si è rimesso
completamente.»
Sperai
che quello bastasse a sopire ogni sua curiosità. Evitai di guardarlo negli
occhi e contai i secondi che mi separavano dalla sua prossima domanda, che non
arrivò. Mio padre sembrò soddisfatto della mia risposta e annuì, poi riprese a
guardare la tv.
Sospirai
senza volere. Distolsi lo sguardo e lo puntai anch’io sulla televisione,
sperando di sprofondare nel divano e di diventare invisibile nei successivi
dieci minuti, senza lo sguardo di tutti puntato su di me, libero da qualsiasi
domanda scomoda.
Era
una sensazione che avevo provato fin da bambino, ma soprattutto da ragazzo.
Ricordavo le cene di famiglia, tutti seduti in una tavolata interminabile,
ognuno a farsi gli affari di quei parenti che non vedevamo da mesi. Erano
perlopiù cinquantenni interessati solo dalla cattiva politica, con
l’immancabile scontro tra chi voleva accantonare quella farsa della monarchia e
invece la considerava un punto di riferimento. A parte i ferventi
attaccabrighe, a sedere su quelle sedie c’erano solo facce annoiate. I più
giovani, con i genitori da una parte e dall’altra, faticavano a trovare un
posto in quell’ammasso di gente con cui non avevano nulla da spartire.
Quando
poi le discussioni politiche si calmavano, si passava al piatto forte della
serata: i pettegolezzi. Alle prime cene io non ero nient’altro che un
ragazzino, più interessato ai camion giocattolo che alle chiacchierate per
adulti; più sfortunato di me e più grande di una decina d’anni, però, c’era mio
cugino Thomas. Un ragazzino minuto, con uno spruzzo di lentiggini e gli
occhiali sul naso, costantemente subissato di domande imbarazzanti. La
ciliegina era di certo la domanda sulla fidanzatina, per cui tutti si
aspettavano un’eterna risposta negativa. Thomas però spiazzò tutti e, dopo
qualche anno, se ne arrivò con una bellissima rossa scozzese, capelli lisci e
lunghi, anche lei cosparsa di lentiggini e con un’aria talmente timida addosso
che pensai che non avrebbe resistito più di un anno.
Seguirono
molte altre cene, dove per lui giunsero domande sulla laurea (che presto
lasciarono il posto a quelle su matrimonio e figli) e per me cominciò l’età
dell’adolescenza. Messi da parte i camion giocattolo, ero ufficialmente entrato
nell’età delle relazioni amorose, e finalmente capii cos’era il lieve imbarazzo
che colorava le guance di Thomas ogni santissima volta che qualcuno gli parlava.
Il destino, comunque, fu generoso con lui: la sua ragazza sentì un
irrefrenabile impulso di tornare in Scozia e lui la seguì senza troppi
complimenti.
Io
presi presto il suo posto. Ricordavo ancora in maniera chiara l’espressione di
mia zia, con le guance paonazze e il sorriso beffardo sul volto, a chiedermi
ogni volta perché non avessi ancora portato qualcuno. Tutte le altre
discussioni si interrompevano e gli altri parenti cominciavano a fissarmi con
quegli occhietti piccoli e bramosi, mentre io speravo solo che le mie risposte
fossero abbastanza convincenti.
Ogni
volta mi sentivo violato, perché nessuna delle loro domande era mossa da un
sentimento sincero, ma solo dalla voglia di sparlare di me non appena avessi
voltato lo sguardo. A nessuno interessava davvero della tempesta più feroce
della mia vita, quella che mi stava divorando giorno per giorno, sotto gli
occhi indifferenti dei miei genitori. L’importante era avere qualcosa da dire
su di me, per poi dimenticarsene un attimo dopo. Io, però, non potevo
dimenticare. Perché la mattina dopo quello che doveva fare i conti con se
stesso ero io. Mi guardavo allo specchio e mi ripetevo che ero un vigliacco. E,
subito dopo, che nessuno aveva avuto il coraggio di fermare quelle domande
stupide che mi facevano sentire ancora più sbagliato, come se tutti si fossero
aspettati qualcosa da me.
«Ma
è un tuo amico? O siete solo conoscenti?»
Quella
domanda mi colse alla sprovvista. Mia madre aveva sempre avuto delle
aspettative molto alte per me, soprattutto relativamente alle persone che
frequentavo. In ogni caso, non sapevo quale fosse la risposta più giusta da
darle, e non perché avevo qualche dubbio su come classificare Nathan per me, ma
perché non sapevo come classificarlo per lei.
«Be’,
penso di poter dire che siamo amici, più o meno.»
La
sentii chiudere un coperchio con forza. Non c’era un coperchio sulla scodella
dell’insalata, perciò immaginai di aver perso qualche passaggio. Il fatto più
strabiliante, comunque, era che non me ne importava quasi niente. Forse era per
via del mal di testa o forse erano altri dieci anni sulle spalle che mi avevano
reso più consapevole, ma in quel momento volevo solo seguire il telegiornale e
chiacchierare del più e del meno con mio padre.
«Davvero?
Non ci hai mai parlato di lui.»
Una
sensazione di urgenza mi assalì.
«Mica
vi devo raccontare di tutte le persone che incontro.»
«No,
certo, ma ci farebbe piacere sapere con chi ti vedi, visto anche il periodo che
stai passando.»
L’urgenza
di scappare. Fuggire via di lì, il più in fretta possibile.
«Mamma,
non sono affari tuoi e soprattutto credo che sia passata l’età in cui farmi la
predica.»
Lì
si voltò anche mio padre e una carrellata di pensieri mi invasero la mente. Il
primo fu certamente la faccenda tra Nathan e suo padre. La loro era una
situazione difficile e io avevo sempre pensato di aver avuto fortuna con una
famiglia così comprensiva. Ma guardando in quel momento mia madre, e sentendo
addosso lo sguardo di mio padre, pensai che forse lo era stata solo perché ero
scappato via. Perché a tutte quelle domande sulla fidanzatina, io mi ero
semplicemente tappato le orecchie ed ero fuggito. Di conseguenza, il secondo
pensiero fu piuttosto una domanda: ma eravamo davvero così diversi, io e
Nathan?
Lei
si lasciò scappare una risatina incredula, quasi strozzata. Teneva la bocca
aperta, quasi fosse sul punto di dire qualcosa, ma si limitava a scuotere il
capo con una lentezza esasperante. Alla fine si appoggiò al tavolo, come se non
riuscisse più a reggere il peso della sua incredulità.
«Cosa
ti è successo? Mi sembra quasi di non riconoscerti più.»
«Ogni
tanto le persone cambiano.»
Mio
padre si alzò e si frappose tra noi. Io seduto sul divano, con la perpetua
speranza di sparire da un momento all’altro; lei in piedi, incapace di dire
qualcosa.
Poi
parve calmarsi. Mio padre abbassò le braccia e si scambiò uno sguardo di intesa
con mia madre, che cominciò a muovere qualche passo verso di me. Quando fu
abbastanza vicina, alzai gli occhi e la guardai.
«Hai
ragione, sai? Ormai non hai più l’età per una predica. Ma stai soffrendo e non
voglio che che la tua sofferenza ti faccia fuggire di nuovo da noi.»
Mia
madre non aveva mai parlato della mia partenza come una fuga, né lo aveva fatto
mio padre; ma lui non si scompose di un millimetro, segno che ne avevano
parlato chissà quante volte, forse fino allo sfinimento.
Io
ero scappato. Ero fuggito da chiunque mi conoscesse abbastanza bene da potermi
giudicare con affetto; perché delle critiche degli estranei puoi sempre
fregartene, ma non di quelle dei tuoi genitori. Forse temevo che mi avrebbero
sbattuto in faccia la realtà, così come stavano facendo in quel momento.
Avevano talmente tanta ragione che non ebbi il coraggio di ribattere.
Il
viso di mia madre si abbassò alla mia altezza. Si era inginocchiata al lato del
divano e mi guardava con tutto l’affetto che mai aveva potuto avere per me. Mi
accarezzò la testa e io la lasciai fare, pentito dell’arroganza con cui l’avevo
trattata. Per un attimo, mi resi conto che anche io avevo cercato di lasciare
il mio ruolo da protagonista nella vita dei miei genitori, per diventare una
comparsa di cui nessuno si sarebbe ricordato. E quell’immagine mi ricordò da
vicino qualcuno, che chissà che fatica aveva fatto per interpretare un ruolo
più importante nelle vite degli altri.
«Sono
solo preoccupata per te, Alan. Se c’è qualcosa che possiamo fare, qualunque
cosa, ricordati che a noi puoi chiedere tutto. Noi ci saremo sempre, in
qualunque parte del globo tu sia. Va bene?»
Annuii
a testa bassa. Non riuscii a fare altro, né a emettere alcun suono. Vidi mia
madre rialzarsi con la coda dell’occhio, mentre il mio sguardo era fisso sul
pavimento davanti ai miei piedi. Non avevo voglia di far perdere tempo a
nessuno, di ammorbare la gente sulla solitudine che sentivo in quel momento.
Qualcuno mi baciò la fronte e probabilmente non fu mio padre, perché mi passò
davanti un attimo dopo. Loro provavano un amore sconfinato verso di me, quello
che io non riuscivo a provare per me stesso, per quel codardo che ero stato
anni prima e che ero anche in quel momento.
Mia
madre tornò in cucina e chiuse con dolcezza la porta dietro di lei, forse per
lasciarmi solo coi miei pensieri. Mio padre, che intanto si era rimesso gli
occhiali sulla testa, si sedette di nuovo sul divano accanto a me. La
televisione nel frattempo continuava a riempire il vuoto che mi rimbombava
nella testa.
«È
tuo il tabacco sul cuscino?»
Afferrò
quello alla sua destra e me lo fece vedere. C’erano piccoli vermicelli scuri
che sfiguravano evidenti sulla fantasia bianca del tessuto.
«È
di Nathan.»
Lo
ripulì dalle prove che aveva trovato e poi lo rimise dov’era.
«Non
prendertela per le domande che ti fa, davvero. Ogni volta che ripartiamo è
sempre preoccupata all’idea di lasciarti solo, per questo ti chiede dei tuoi
amici. Vuole solo assicurarsi che tu stia bene. E penso anche che sia pronta all’idea
che possa esserci qualcun altro dopo Oliver.»
Pensai, per un attimo, a cosa sarebbe accaduto se mia madre
avesse conosciuto Nathan in un’altra veste. Le sarebbe bastato vedergli una
sigaretta in bocca per disapprovarlo tout-court. Poi mi consolai pensando
che una cosa del genere non sarebbe mai accaduta, purtroppo o per fortuna.
«Tra
me e Nathan non è come pensi.»
«Sarà,
ma intanto entra in casa tua e si fuma sigarette in salotto.»
«No:
le arrotola in salotto, ma poi se le fuma fuori.»
Mio
padre sorrise e io mi vergognai del tono con cui avevo ribadito quel dettaglio.
«Se
a te va bene così, andrà bene anche a noi.»
Di
certo non parlava delle sigarette, ma non avevo voglia di parlare di Nathan e
della sua partenza, e di come quella notizia mi avesse asfaltato peggio di un
tir in corsa.
«Va
bene. Grazie.»
Mi
tirò un buffetto affettuoso e raggiunse mia madre in cucina. Si chiuse la porta
dietro le spalle e io rimasi di nuovo solo, in mezzo alla seconda tempesta più
feroce della mia vita, senza l’ombra di un timone o un salvagente.
Mangiammo tutti
insieme poco dopo, in un’atmosfera di innaturale cordialità ma tutto sommato
piacevole. Li salutai con un abbraccio e con la promessa di rivedersi
l’indomani; poi, quando se ne furono andati, mi ributtai sul divano stanco
morto.
Tutto
quel parlare di Nathan mi aveva fatto ripensare al suo interrogatorio, al fatto
che si fosse professato innocente per quanto riguardava quel cellulare, e al
sollievo che avevo provato di fronte alla sua faccia smarrita quando Church
glielo aveva messo davanti. Certo, poteva anche essere una messinscena come
aveva poi insinuato Ash, ma le reazioni improvvise di rado sono false, e io
l’espressione di Nathan l’avevo vista molto bene. Mi fidavo di lui e continuavo
a pensare che l’idea che avesse manovrato i fili fin dal primo momento fosse
assurda, anche se il mio ruolo mi imponeva di considerare tutte le possibilità.
La
televisione continuò a parlare per una buona mezz’ora. Telegiornali,
pubblicità, qualche sketch comico. Poi una sigla accattivante. Un motivetto
allegro che mi costrinse ad alzare gli occhi: un camice bianco, una faccia da
idiota e risate finte in sottofondo.
Il
protagonista si chiamava AJ. Era un infermiere appena laureato e stava facendo
praticantato in un ospedale importante. L’assistente con cui lavorava era
troppo carina per lui e il capo uno stronzo. Bastarono pochi minuti per
scoprire che la ragazza aveva fatto finte moine al protagonista e che aveva
messo in giro qualche voce sul significato delle sue iniziali. In realtà, erano
semplicemente l’acronimo del suo nome - Adrian James -, ma ne uscirono le
varianti più disparate che mi strapparono una risata.
Le
iniziali.
A.J.
Se
le pronunciavi, sembravano un’unica parola, ma in realtà erano due lettere.
Mi
alzai in fretta e furia dal divano, presi la valigetta con le copie dei
fascicoli e volai in camera. Ne scorsi un paio, finché non trovai la cartellina
relativa al caso. La posai sulla scrivania, accesi la lampada che illuminava il
tavolo e mi sedetti. Afferrai un foglio bianco dalla pila che tenevo alla mia
sinistra, estrassi una penna dal portapenne e la posai sul tavolo, in preda a
un guizzo di intuizione per via di quelle iniziali.
Presi la
cartellina, la aprii e scorsi la prima pagina del fascicolo, quella che avevo
visto un miliardo di volte e che conteneva le dichiarazioni della rapina. Sotto
c’era un altro foglio, con la firma di Church in calce, che riepilogava a
grandi linee i punti salienti del caso. Cominciai a leggerlo, ma non mi
ritrovavo nella sua scrittura; così arraffai la penna, la stappai e, foglio
bianco alla mano, cominciai a buttar giù un quadro della situazione.
Tutto
ciò che emerse è che di Waitch sapevamo ben poco; di lui aveva raccolto giusto
qualche intercettazione, tramite le telefonate captate di Ryan Goldwin. Quella
più significativa era quella dell’undici agosto, dove parlavano della solita
“soda”, ormai evidentemente un pretesto per parlare di cocaina. Ryan aveva
risposto che ne aveva “assolutamente bisogno”, quindi era plausibile ipotizzare
che si riferisse a una dose di droga.
La
seconda intercettazione che avevamo di Waitch riguardava un certo Naitch. A
sentirlo faceva piuttosto ridere, ma era plausibile che anche gli altri membri
del gruppo avessero un nome che finisse in “aitch”.
Altra
intuizione, che mi provocò più fastidio nel momento in cui la vidi svanire. C’era
qualcosa - qualcosa di ovvio -, ma non riuscivo a concentrarmi a sufficienza
per coglierla.
Fissai
quegli appunti per un’altra mezz’ora buona. Guardavo Waitch, Ryan, li collegavo
con una freccia e speravo che l’intuizione che avevo avuto tornasse a farmi
visita, ma senza successo; allora ripassavo i contorni delle lettere di Nathan,
Michael e William, e coloravo la pancia delle “a”; e dopo che i miei occhi si
furono fusi a sufficienza su quei nomi, ripresi a ripassare le lettere con la
penna nera, fino a che il foglio non si bucò.
La
suoneria del telefono interruppe quei pensieri che non andavano da nessuna
parte. Quando lessi il nome di Nathan sul display, non esitai a rispondere. In
fondo, c’era una domanda tra noi che era rimasta in sospeso.
«Ehi,
ciao.»
Forse
era la sera, forse era il silenzio attorno a me, ma la voce mi uscì più calda
del dovuto. Trasudava un affetto che non sarebbe dovuto trapelare.
«Ciao,
ti disturbo?»
Nella
mente mi passarono le immagini di mio padre col tabacco appiccicato alle dita,
nonché le risposte che avevo dato alle sue domande. Anche lì, mi era scappato
qualcosa di troppo; la coperta che copriva le mie sensazioni stava diventando
troppo corta.
«Figurati,
dimmi tutto.»
Lo
sentii inspirare e poi espirare profondamente. Pensai che volesse parlarmi di
quello che era successo in centrale, per dirmi che sì, c’era un modo per farlo
rimanere. Mi ritrovai in preda alle emozioni senza nemmeno rendermene conto.
«Ecco,
volevo dirti una cosa. Su oggi.»
Trattenni
il fiato. Presi la penna e cominciai a fare righe parallele, scarabocchi,
cerchi su quelli che erano stati i miei appunti. Sentivo solo il suo respiro e
lo immaginai lì, accanto a me, in tutta una serie di scene che risultavano
incompatibili con la sua partenza.
Sospirai,
poi aspettai che continuasse.
«Allora.
Non sapevo se dirtelo o no. Cioè», e lì mi scappò una risatina per il suo
nervosismo, «ovviamente volevo dirtelo, ma non sapevo quando farlo. Ci ho
pensato un po’ da quando mi è venuto in mente e penso che questa sia la cosa
più giusta.»
Un
groppo in gola mi colse alla sprovvista. Brutale e tagliente, come non lo
provavo da tanto tempo. A dire il vero, erano diverse le cose che non provavo
da troppo tempo. Nathan le stava risvegliando una per una.
«Va
bene, ti ascolto.»
Tre,
due, uno…
«È
di Harvey.»
Un
corto circuito.
«Cosa?!»
Mi
uscì una reazione stupita, ma non per il reale significato della frase, che
intesi dopo una decina di secondi. No, decisamente non era quello il motivo, ma
il fatto che non stava parlando di lui, di me, di me e lui, di noi...
no!
Stava
parlando dell’interrogatorio.
«Il
cellulare… è di Harvey. Aveva qualcosa di familiare, lo sapevo, ma mi è venuto
in mente solo dopo. Scusa se te l’ho detto per telefono, ma se avessi aspettato
domani forse ci avrei ripensato.»
Rimasi
in silenzio qualche secondo.
Lasciai
da parte i pensieri su noi due e analizzai quello che mi aveva detto. Il
telefono… era di Harvey? Seguendo quella linea di pensiero, quindi, Harvey e
Waitch erano la stessa persona? E la telefonata anonima chi l’aveva fatta? Fermai
un attimo quel flusso di deduzioni a cascata perché l’ipotesi sostenuta da Ash
mi sfrecciò nella mente. Lui di certo avrebbe detto che era solo un altro
tentativo di Nathan di incastrare i tasselli secondo un suo tornaconto. Dove
stava la verità?
«Grazie
per questa informazione.»
Non
mi uscì altro. Mi grattai la fronte, come in cerca di una soluzione per
quell’enigma troppo difficile, ma non ottenni risultati.
«Lo
so che è una mezza bomba, scusami. Non sai quanto mi sia costato dirtelo.»
Immaginai
l’occasione in cui Harvey aveva lasciato il telefono a casa di Nathan. Si erano
visti, erano stati insieme, di sicuro. Intravidi una piccola crepa, là sotto,
sulla diga che teneva a bada i miei sentimenti per lui; da fuori non si vedeva,
ma bastava immergersi un poco per notarla e per rendersi conto di quanto in
realtà fosse profonda.
«Hai
fatto benissimo. Domattina dovresti passare da noi per fare una dichiarazione
ufficiale, però, in modo che possa essere materiale d’indagine.»
«Va
bene.»
Attendevo
un suo saluto mentre nella mia testa frullavano ancora le parole che mi aveva
detto poco prima, ma non arrivò. Quando faceva così significava che aveva altro
da dire, e mi sentii in imbarazzo come lo ero stato con mio padre perché quel
pensiero denotava una certa familiarità con lui, un’intimità che avrei voluto
fare mia ma che non riuscivo ad acciuffare. Nathan stette zitto qualche altro
secondo ancora e poi, come da copione, proseguì.
«Senti…»
«Sì?»
Fece
di nuovo una pausa.
«Ma
secondo te…», e lasciò passare altri quattro o cinque secondi, «… è possibile
che qualcuno abbia architettato tutto questo per far ricadere la colpa su di
me?»
La
sua domanda mi sorprese. Ironia della sorte, era la stessa conclusione a cui
era giunto Ash per accusare Nathan, anche se con le dovute differenze.
«Cosa
intendi con “tutto questo”?»
«Dico…»,
seguì un’altra pausa, «il cellulare, i bigliettini, l’aggressione, i volantini…
tutto. Tutto studiato.»
Avevo
sempre bollato come assurda l’idea di Ash perché coinvolgeva Nathan e io volevo
credere alla sua innocenza, ma quella stessa ipotesi, nella prospettiva che
potesse essere architettata e manovrata da qualcuno che non fosse lui, assumeva
un sapore più interessante e mi resi conto che riuscivo a osservarla con più
lucidità.
«Spiegati
meglio. Perché qualcuno avrebbe dovuto usarti per questo?»
«Perché
sono ingenuo», rispose secco. «E perché mi fido sempre delle persone sbagliate,
e questo fa di me il perfetto capro espiatorio su cui scaricare la colpa quando
le cose si mettono male. Tutto pensato fin dall’inizio.»
La
sua ultima frase mi fece pensare a due cose: la prima era che non sembrava
un’idea che gli era venuta dal nulla, ma pareva che ci avesse pensato almeno un
po’; la seconda era che dava l’impressione che quel qualcuno di cui parlava
avesse per lui un nome e un cognome. E forse ce l’avevo pure io.
«Nathan,
se sospetti di qualcuno lo dovresti dire.»
«E
per cosa? Per finire ancora di più nei casini per qualcosa che non ho fatto?
Dovevo farmi i cazzi miei, ecco cosa.»
«Nathan–»
«…
e non dovevo nemmeno venire a rilasciare quella dichiarazione subito dopo la
rapina. Dieci dollari che è partito tutto da lì. Vaffanculo, cazzo. Dovevo
stare zitto.»
La
voce gli tremava.
«Nathan…»
«…
e invece mi sono cacciato in questo casino, perché sono un coglione! Il giorno
che imparerò a tenere la bocca chiusa sarà un grande passo per l’umanità.»
«Nathan!»,
sbottai.
«Che
vuoi?!»
La
voce gli si era spezzata del tutto e lo sentii piangere. Avrei dato qualunque
cosa per poterlo consolare, per potergli essere vicino. Nathan non era un
criminale, no… ma forse qualcun altro sì. Un qualcuno che avevamo avuto
entrambi la sfortuna di conoscere.
«Scusa…»,
sussurrò dopo secondi di singhiozzi. «Scusami. Sono solo stanco di tutto questo
casino, e la cosa peggiore è che non so come tirarmene fuori.»
Sì,
avrei dato qualunque cosa per poterlo abbracciare, per accarezzarlo e dirgli
che sarebbe andato tutto bene. Ogni volta, però, i nuovi tasselli dell’indagine
sembravano solo aumentare la distanza tra me e lui, rendendo impossibile che
quei desideri si concretizzassero.
«Vuoi
che venga da te?»
«No»,
rispose senza nemmeno pensarci. «Se vuoi fare qualcosa per me, trova un modo
per dimostrare questa cosa. Aiutami. E per favore non mi denunciare per
corruzione o robe simili.»
Quell’ultima
frase mi strappò un sorriso. Non era in effetti nella posizione di farmi una
richiesta del genere, ma aveva un senso. Dovevo trovare la verità, far luce su
tutta la vicenda iniziata con la rapina del trenta luglio; lo dovevo a lui, ma
lo dovevo anche a quella Giustizia che avevo giurato di servire.
«Farò
il possibile per aiutarti. Te lo prometto.»
Forse
nemmeno io ero nella posizione per potergli dire una cosa simile, ma pensai che
Ash non aveva tutti i torti quando mi aveva accusato di avere poca obiettività
in certi frangenti. Non era stato bello sentirselo dire e non era lusinghiero
pensare di avere così poco polso sulla situazione, ma in fondo era difficile
rimanere in piedi quando a travolgerti era un uragano. Immaginai che avere
esperienza significasse anche saper far fronte a simili inconvenienti.
«Vado
a dormire, sono stanco», disse lui dopo un po’. «A domani, allora.»
«Buonanotte,
Nathan.»
Lui
ricambiò, poi riattaccai. Incrociai le braccia sul tavolo e ci schiaffai la
testa sopra, pronto a ripartire con un’altra sessione di ragionamenti.
Di fronte alla
scrivania trovai di nuovo la voglia di riscrivere tutto da capo. Mi sgomentava
l’idea di buttar giù nuovamente fiumi di parole, ma volevo provare a incastrare
le informazioni di Nathan.
Quindi
il telefono ritrovato, quello che apparteneva a Waitch e che era legato alla
rapina, poteva essere di Harvey. Nathan me lo aveva comunicato con una certa
sicurezza, ma non volevo darlo per scontato.
Afferrai
di nuovo la penna senza indugio e la poggiai sul foglio; vincendo la pigrizia
cominciai a scrivere ancora una volta le informazioni in mio possesso. Come
potevo legare Harvey e Waitch?
Esiste
un gruppo di spacciatori capitanato da Waitch, di cui fa parte anche R.G.
M.C.
è entrato nel giro quasi per sbaglio e, in seguito al suo rifiuto di spacciare
per ripagare i debiti, ha deciso di nascondersi.
M.C.
ha fatto luce su R.G. e sui bigliettini, ricevuti anche da N.H.
N.H.
conosce H.W. e sono stati insieme il pomeriggio dell’undici agosto.
H.W.
è probabilmente proprietario del telefono ritrovato a casa di N.H.
Lasciai
cadere la penna. Era sempre la solita storia, né più né meno.
Un
altro flash.
Che
però riuscii a catturare.
La
prima sera che eravamo andati al Webster Hall, era saltata fuori la faccenda di
Waitch. Io avevo pensato subito a delle iniziali, che avevo ricondotto presto
al nome della discoteca. Poi, be’, Church aveva stroncato sul nascere la mia
ipotesi, senza che la riprendessi.
Però,
potrebbero anche essere le iniziali di una persona, no?,
aveva detto Nathan.
Le
iniziali di una persona.
W.H.
Ricontrollai
le mie note, piene di lettere puntate, ma di W.H. nessuna traccia. C’era
“M.C.”, “R.G.”, “N.H.”, “H.W.” e “W.C.” - l’ultima mi strappò un sorriso.
Ero
sul punto di lasciar perdere tutto, quando in realtà mi accorsi che una
corrispondenza c’era.
W.H.
H.W.
Harvey
Walker.
Be’...
aveva un senso. Mandava all’aria la teoria di Ash e sosteneva quella di Nathan,
di fatto liberandolo da ogni accusa. Pensai di nuovo ad Harvey. Non sapevo bene
quando fosse rispuntato, ma ipotizzai che fosse poco dopo la rapina; e se fosse
stato davvero in combutta con Ryan e, in seguito alla dichiarazione di Nathan,
avesse deciso di gestire la situazione più da vicino?
W.H.
N.H.
Nathan
Hayworth?
Mi
ricordai dell’intercettazione che avevamo ascoltato, quella dove Ryan e Waitch
parlavano del pericolo che - a questo punto - Nathan rappresentava per loro e
di tenerlo fuori dal giro. Nathan era stato bravino a scoprire tutte quelle
cose da solo, gli andava riconosciuto, ma forse con le sue ricerche aveva messo
i bastoni tra le ruote ai piani dei due. Probabilmente le cose non erano andate
come si aspettavano, ed erano corsi ai ripari con i volantini prima e con
l’aggressione poi. Per quanto riguardava i bigliettini e il cellulare, aveva
senso l’idea di Nathan secondo cui era stato usato come l’ingenuo di turno a
cui provare ad addossare la colpa in caso di problemi.
Il
discorso filava. Aveva un inizio e una fine, tutte le domande trovavano una
risposta in quell’ottica. Ma come potevo trovare delle prove che dimostrassero
quella teoria?
A ben
vedere, c’era solo una cosa che potevo fare ed era richiedere un nuovo
interrogatorio per Ryan. Dovevo assolutamente trovare un modo per farlo
parlare, visto che conosceva entrambi e che avrebbe potuto dirci la verità
senza problemi.
Sentii
il respiro bloccato a metà tra l’eccitazione e la paura. Avremmo trovato il
modo di far sputare il rospo a Ryan, prima o poi, ma se non avesse collaborato?
Mi alzai
nuovamente dalla sedia, quella volta in maniera definitiva; richiusi la penna,
riordinai le schede e diedi un’ultima occhiata a quelle iniziali.
Tirai
un sospiro e, pigiama alla mano, mollai tutto per andare a letto.
L’atmosfera del
Tombs era soffocante come quella di tutte le carceri, ma quello di certo aveva
una marcia in più. L’odore di umidità mi aggredì potente non appena misi piede
nella sala riservata ai colloqui, che i carcerati utilizzavano per parlare con
i familiari.
La
stanza era separata da un lungo vetro divisorio, appannato in più punti, mentre
in altri, quelli dove verosimilmente sedevano gli interlocutori, sembrava molto
più lucido. Sul soffitto, a filo del vetro, troneggiava una fila di luci al
neon. Mentre mi avvicinavo alla sedia che era stata disposta per me, alzai gli
occhi e notai una ragnatela in prossimità della luce. Una sagoma piccola e nera
si mosse appena, forse disturbata dal nostro movimento. Ridacchiai e abbassai
lo sguardo.
Avevamo
fatto disporre l’intera stanza per noi, per questioni di riservatezza. L’unica
persona a cui fu concesso di rimanere era il secondino alla porta situata
dall’altra parte del vetro, in modo che potesse sorvegliare il carcerato.
Feci
per mettermi seduto quando sentii una porta aprirsi; alzai gli occhi e una figura
sparuta varcò la soglia. La prima cosa che notai fu che gli avevano rasato la
testa; del vecchio Ryan rimanevano solo quegli occhi verdi che in quel momento
colpirono me così come avevano colpito Nathan quella fatidica mattina. Il suo
sguardo però era assente, nessun segno di tensione sul viso. Due guardie lo
scortarono fino alla sedia che lo attendeva, lo fecero accomodare e poi si
allontanarono. Si scambiarono un cenno con il secondino di guardia e uscirono,
facendo sbattere la porta dietro di loro.
Ryan
Goldwin alzò lo sguardo verso di noi e all’improvviso tutta l’umidità di quella
stanza mi penetrò nelle ossa: nel profondo di quelle iridi non c’era niente,
nulla che lasciasse intuire cosa si agitasse dentro di lui, perché nulla c’era;
seguii il suo respiro stanco, scandito da quella bocca semiaperta, abbandonata
come se non avesse la forza di richiuderla.
«Ciao,
Ryan. Sono l’agente Scottfield e lui è l’agente Stoner», dissi puntando il
mento verso Ashton.
Ryan
non reagì, se non spostando appena gli occhi non appena feci il nome del mio
collega, poi tornò a guardarmi.
«Siamo
qui per farti alcune domande sulla rapina del trenta luglio scorso. Puoi
aiutarci?»
Il
ragazzo al di là del vetro alzò per un attimo le sopracciglia, quasi dubbioso,
ma almeno smentì la mia ipotesi che fosse completamente morto dentro. C’era
ancora un guizzo di vita da qualche parte, là sotto, sepolto da un cumulo di
polvere bianca.
A
ogni modo, non proferì parola. Ogni tanto abbassava lo sguardo o alzava gli
occhi verso la luce, per poi strizzarli subito dopo. Non c’era sfida nei suoi
occhi, ma sembrava davvero che ogni tanto fosse disconnesso dal mondo.
Volli
provare a incalzarlo subito.
«Bene,
cominciamo. Qual è il tuo rapporto con Harvey Walker?»
Parve
tornare nel mondo reale. Si grattò il naso e tirò su, poi sospirò.
«Ci
siamo conosciuti qualche mese fa. È un amico, niente più.»
Tirò
su di nuovo e si grattò di conseguenza. Un altro spiffero congelò l’aria ed
ebbi la sensazione che i miei polpastrelli cominciassero a intorpidirsi.
Strofinai le mani sui pantaloni.
«Puoi
essere più preciso su quando vi siete conosciuti?»
Il
suo sguardo si perse sul muro della stanza. Ancora una volta mi sembrò
disconnesso, le labbra di nuovo schiuse in un’espressione innaturale. Notai
solo in quel momento che la divisa che portava era un po’ troppo larga per lui.
L’attimo dopo intravidi sul collo una serie di escoriazioni; mi domandai se
fossero frutto di qualche incontro ravvicinato con gli altri carcerati.
«Prima
dell’estate. Quest’anno, comunque, durante una vacanza nel Vermont, a Stowe.»
«La
stessa circostanza in cui l’ha conosciuto Michael Cossner. Una bella
coincidenza.»
Ryan
fece spallucce.
«È
esattamente quello che sembra: una coincidenza. Almeno per quanto mi riguarda.»
Ci
spiegò brevemente della vacanza, di come Harvey lo avesse avvicinato e di come
avesse intravisto anche Michael.
«Harvey
è un tipo che ispira fiducia, se lo vedi», proseguì. «Non sembra, ma ha
studiato e parla bene. Non viene dai quartieri poveri, anche se vuole dare
quest’impressione. Probabilmente perché l’aria da sofisticato mette i bastoni
tra le ruote ai suoi affari.»
«È
stato Harvey a darti la droga?»
Ryan
fece nuovamente spallucce.
«Certo
che è stato Harvey. Lui ha un giro, sai. All’inizio è partita come una cosa
molto tranquilla, qualche spinello ogni tanto. Poi però non ci è bastato più.
Non basta proprio più. Allora un giorno è venuto fuori con la cocaina,
gliel’aveva venduta un tizio sull’undicesima. Non volevo provare quella merda,
ma Harvey mi aveva detto che avrei dimenticato tutto lo schifo. Quindi
l’abbiamo tirata su», e si strofinò di nuovo il naso, «roba buona.»
Ryan
fermò il racconto. Cominciò a far ballare un piede, in preda a un tic nervoso.
Il suo sguardo si perse di nuovo sul muro alla sua destra, che di interessante
aveva solo qualche crepa nell'intonaco.
«E
poi?»
«E
poi vuoi i soldi. Vuoi la roba. E fai veramente di tutto.»
«Come
una rapina all’ufficio postale?»
Ryan
spostò il busto verso di noi in maniera repentina, come se avesse voluto
imporre la sua opinione con la sua presenza.
«Io
non volevo, va bene? Ma dovevo pagare delle dosi. E poi ne dovevo comprare
altre.»
«E
Michael Cossner?»
Ryan
ridacchiò, ma il sorriso gli si spense subito. Scosse il capo negando forse
qualche pensiero nella sua mente.
«Lui
è stato più furbo di tutti noi. Si è fermato a roba meno pesante, ma aveva
comunque dei debiti. Ma a scopare coi vecchi e a far rapine non ci voleva
andare.»
Aggiunse
qualche altro dettaglio su Michael, e la sua testimonianza trovò riscontro con
quanto ci aveva detto tempo prima Michael stesso. Le telefonate minatorie, la
macchina, il senso di inquietudine: tutto secondo i piani di Ryan.
«Quindi
è stato un atto intimidatorio nei suoi confronti, oltre che una rapina a sfondo
economico, giusto?»
«Non
aveva pagato la roba! Merda, erano tutti incazzati là dentro.»
«Perché
gli avete venduto la cocaina prima che pagasse?»
Ryan
sospirò, come quando si ripensa a un errore irreparabile.
«Sai
quando vai al supermercato e ci sono le offerte? Lo fanno per attirarti, no? È
un cliente in più. Lo stesso valeva per noi. Uno in più nel giro, uno in più a
far marchette e più soldi nel giro.»
«Fammi
capire, avete una specie di fondo comune?»
Tirò
su col naso, poi si stropicciò gli occhi. Subito dopo fu scosso da un tic nervoso.
«Ci
aiutiamo, sì. Siamo un gruppo, una famiglia, ci aiutiamo come possiamo. Ognuno
dovrebbe fare la sua parte, almeno finché non si fa la pera definitiva.»
Ci
raccontò a grandi linee di altri membri del gruppo morti di overdose. Mi
ricordai di un paio di casi di morte per eroina nel celebre McDonald’s sulla
trentaquattresima, avvenuti non più di tre mesi prima. Li avevamo ritrovati con
gli occhi sbarrati e una siringa conficcata nel braccio.
Ryan
non sembrava impressionato da quell’eventualità. Si riteneva al di sopra della
morte, ma in certi momenti anche al di sopra della vita; parlava delle sue
giornate in maniera totalmente distaccata, quasi non avessero un nesso l’una
con l’altra, guidate solo da un unico pensiero: la cocaina. Quelli morti per
overdose venivano sostituiti rapidamente da altri mille Michael Cossner, e
c’era chi resisteva e chi scappava. Furti e prostituzione non facevano nemmeno
più notizia.
Ma
mentre lo immaginavo protagonista di quelle scene - con la siringa, sul
marciapiede -, non potevo fare a meno di avere un altro, martellante pensiero
in testa.
«D’accordo...
conosci Nathan Hayworth, giusto? Che rapporto c’è tra voi?»
«Che
c’entra Nathan in questa storia?»
Ashton
entrò a gamba tesa nella discussione.
«Qua
siamo noi a fare le domande, signor Goldwin. La prego di rispondere.»
Mi
voltai verso il mio collega e gli scoccai un’occhiata che chiedeva più garbo
nelle risposte. Se ci fossimo bruciati Ryan, avremmo perso ogni possibilità di
risalire a Waitch.
«Sì,
conosco Nathan, più o meno da quando siamo piccoli. Eravamo vicini di casa e
andavamo alla stessa scuola. Ci incontravamo ai giardini per giocare e cose del
genere. C’è stato un tempo in cui siamo stati migliori amici, ma ora ci siamo
un po’ persi.»
Ricordai
che era più o meno ciò che aveva detto Nathan. Amici d’infanzia, un periodo
d’oro e poi l’allontanamento che aveva parecchio il sapore di un addio.
«Però
devo tanto a Nathan», continuò all’improvviso. «Ho avuto un periodo di merda in
famiglia, sette o otto anni fa. Ok, in realtà è stata proprio una bella merda,
di quelle grosse. Volevo scappare di casa e non sapevo dove andare. La famiglia
di Nathan mi ha ospitato per quasi due mesi, come fossi stato un loro figlio.
In quel periodo abbiamo vissuto come fratelli, stavamo sempre insieme... È
stato un periodo felice, nonostante i casini. Liz e James avevano anche avviato
le pratiche per l’affido temporaneo o qualcosa del genere. Poi sono intervenuti
i servizi sociali e la cosa è rientrata, ma devo tanto alla sua famiglia.»
Pensai
che Nathan doveva aver avuto un’infanzia abbastanza felice, quantomeno prima
che scoppiasse tutto il casino sulla sua sessualità. Da come ne parlava Ryan,
sembravano proprio una famiglia modello, e Nathan il figlio di cui andare
orgogliosi. Riuscivo proprio a vederlo, suo padre, fiero di lui. Al contempo,
però, vedevo un ragazzo caricato di tante aspettative, che riteneva di aver
distrutto e deluso lui stesso.
«E
Nathan...», e lì indugiai un attimo, «in che rapporti è con questo giro?»
«Non
ha niente a che vedere con la cocaina. Non ha mai fumato nemmeno uno spinello.
È un coglione, sì, ma a modo suo. È sempre stato alla larga da quella roba,
forse perché voleva essere il figlio modello. Sai, per via di suo padre
eccetera eccetera.»
Annuii.
L’affetto di Nathan per suo padre, il voler riconquistare la sua fiducia erano
quasi commoventi. Ryan aveva ragione: per tante cose era un deficiente, ma per
altre era proprio un bravo ragazzo, con la sua dose di sofferenze da portare
sulla schiena.
Per
la prima volta, però, Ryan non aspettò un’altra domanda.
«Ma
perché mi chiedete di lui? Che c’entra Nathan in tutto questo? È pulito.»
Ashton
prese di nuovo la parola.
«Non
è necessario pippare cocaina per entrare nel business della droga.»
Il
mio collega non si scompose di un millimetro, a differenza di Ryan che invece
aveva posato le mani sul tavolo e quasi sembrava che volesse salirci sopra.
«Stai
scherzando!»
«Sono
affari e a lui mancano soldi.»
«Non
dire cazzate, Nathan non lo farebbe mai! Se qualcuno l’ha tirato in ballo l’ha fatto
solo per pararsi il culo e addossargli la colpa. Perché lui è pulito, punto!»
Quella
frase attirò la mia attenzione. Addossargli la colpa… la stessa cosa che aveva
ipotizzato Nathan. Intervenni.
«Va
bene, va bene. Riprendiamo un attimo il filo.»
Ryan
e Ashton si guardavano in cagnesco. Ash aveva il suo solito sorrisetto di sfida
stampato sul volto, mentre Ryan respirava quasi con affanno, le mani ancora
appoggiate sul tavolo. Le tolse solamente dopo diversi secondi, quando ormai
anche la sua respirazione era tornata a un ritmo regolare. Il mio sguardo
passava dall’uno all’altro, cercando di capire quando fosse il momento buono
per ricominciare.
Nel
frattempo pensai alla reazione di Ryan, a quel suo difendere Nathan a spada
tratta. Era realmente innocente o era quell’antico legame che avevano a farlo
parlare? Quanto davvero la loro amicizia si era spezzata? Ripensai inoltre a
ciò che aveva detto su un qualcuno che aveva cercato di incastrare Nathan solo
per crearsi un alibi… ma volevo arrivarci per gradi.
«Ryan,
senza mezzi termini… stiamo cercando di scoprire l’identità di un certo Waitch.
Pensiamo che tu possa aiutarci.»
Lui
sbuffò, poi scosse ancora il capo. Subito dopo lo abbassò, mimò l’azione di
tirarsi indietro i capelli per poi fermarsi sulla sommità della testa, per
frenare quel gesto frutto dell’abitudine. Mi restituì un mezzo sorriso, come a
sottintendere che non sarebbe stato così facile.
«Non
so niente a proposito di questo tipo.»
«Quindi
è una persona.»
«Certo
che è una persona. Cosa doveva essere, un cane?»
Notai
che Ash era già pronto a scattare, ma lo fermai con un cenno della mano.
Aspettai
che Ryan aggiungesse qualcosa, o che mostrasse segni di cedimento, ma non
arrivò niente di tutto ciò. Avvistai però un certo nervosismo che parve nascere
tutto insieme. Riprese a far ballare il piede e i suoi occhi compivano
movimenti rapidi, come a caccia del prossimo pensiero da rincorrere.
«Ryan,
devi aiutarci su Waitch. Altra gente potrebbe finire nel giro, lo sai benissimo
anche tu.»
«È
solo un pesce un po’ più grosso degli altri. E la gente che vuole infilarsi in
questo giro non va mica solo da lui, sai? È pieno di stronzi così. A loro
interessa fare cassa, ti vendono di tutto.»
Avevo
fatto un buco nell’acqua. Come potevo convincere Ryan a parlare? Sospirai
anch’io, come aveva fatto lui poco prima, in cerca di una risposta.
In
realtà, avevo un asso nella manica. Si trattava della normale procedura in casi
come quello, ma avrei preferito una dichiarazione spontanea. Al tempo stesso,
però, una ricompensa forse lo avrebbe allettato di più. Tanto valeva provare.
«Potresti
diventare nostro informatore, Ryan. Ti verrebbe annullata la pena relativa al
reato di spaccio. Dovresti scontare solo quella della rapina. Pensaci.»
Il
suo sguardo si piantò nel mio. L’espressione era ferma, forse a riflettere
sulla mia proposta. Alzò appena il mento, come in cerca della fregatura, ma la
verità era che non c’era. Si trattava di una prassi consolidata per coloro che
sceglievano di diventare informatori. Uno come Ryan dalla nostra parte ci
avrebbe permesso di sgominare la banda in pochissimo tempo.
Alla
fine, il ragazzo si decise a dare la sua risposta.
Abbassò
di nuovo il mento e le difese, poi scosse il capo.
Aveva
rifiutato.
Mi
sentii sconfitto. Molti piccoli spacciatori avevano spesso accettato quel
compromesso, perché di certo quello che li legava ai loro pusher non era certo
la fedeltà. L’unica che avevano era la fedeltà alla roba, e loro la seguivano
ovunque andasse, cambiando spacciatore come si cambia la biancheria intima. E
se quindi parlare implicava salvarsi la pelle, perché no? Il più delle volte
riuscivano ad avere un posto nelle comunità di recupero e tanto bastava per
averci guadagnato da ambo le parti.
Ma
Ash, che fino a quel momento era intervenuto solo per dare contro a Ryan,
iniziò il discorso con modi piuttosto pacati.
«Caro
signor Goldwin, vorrei che le fosse chiara una cosa.»
Lui
spostò lo sguardo subito verso il mio collega, ma attese prima di reagire.
Ashton continuò.
«Ci
sono forti indizi a carico del suo amico Nathan Hayworth.»
«Cosa?!
Non è possibile!»
«Lo
è, lo è. Ora, se non vuole farlo per amor proprio, lo faccia almeno per Nathan.
Rischia diverse accuse pesanti, come spaccio di stupefacenti, rapina,
detenzione illegale di droga eccetera eccetera.»
Lo
guardò con occhi sbarrati. Non disse niente, ma non spostò lo sguardo da
Ashton, forse perché temeva di perdersi qualche informazione. Però in quel
momento fui certo di una cosa: il mio collega aveva trovato il nervo scoperto
di quel ragazzo, quel punto d’appoggio su cui anch’io potevo far leva e che ci
avrebbe allontanati da quel binario morto.
«…
E inserirei anche “depistaggio” nella lista delle accuse», aggiunsi.
«Cosa?!
E perché?!»
Pensai,
con un briciolo di soddisfazione, che la mia frase aveva sortito proprio
l’effetto sperato. Ryan si stava scaldando, e non poté che farmi piacere,
perché avrebbe controllato molto meno le sue risposte.
«Diciamo
che potrebbe aver montato ad arte alcuni dettagli per passare da vittima della
situazione, come l’essersi finto testimone della rapina quando in realtà era un
complice, o aver nascosto quei bigliettini nella sua buca delle lettere o il
telefono sotto al suo stesso divano», continuai.
Ash
mi guardava impietrito, forse perché stavo sostenendo quella sua ipotesi che
avevo sempre rifiutato - benché fosse una finzione - o forse perché avevo
rivelato a Ryan una serie di dettagli che dovevano rimanere privati, ma che
avevo giocato con un preciso scopo in mente.
«No,
no, non è vero niente. Nathan non ha fatto nulla di tutto questo. Semmai sono
state sue idee…»
Si
fermò subito dopo, ma come sospettavo Ryan non aveva mostrato la minima
sorpresa nei fatti che avevo elencato, segno che li conosceva. Era un grosso
passo avanti e avvalorava l’idea della pianificazione, ma sentivo che potevo
fare di più.
«“Sue”
di chi?», lo incalzai, a metà tra l’eccitazione e la paura.
Ryan
abbassò lo sguardo e le sue sopracciglia aggrottate mi diedero l’idea che stesse
pensando. Si portò istintivamente le dita alla bocca e cominciò a rosicchiare
l’unghia del pollice, mordicchiando prima quella e passando poi alle pellicine
alla base. Avrei pagato oro per sapere cosa si agitasse nei suoi pensieri, ma
dovetti accontentarmi delle mie supposizioni.
«Ryan?»,
lo chiamai, ma non dava cenno di star ascoltando.
Quel
ragazzo voleva bene a Nathan, ed ero abbastanza certo anche del contrario. Non
avrebbe mai accettato di mandare in galera un amico per la sua codardia. E in
quel momento mi tornarono alla mente, un po’ confuse, le parole che avevo letto
in un libro: che se è vero che la droga ti fotte il cervello, quello che ti
lascia è una sorta di affetto per chi ha fatto parte della tua vita.
E
fu proprio con questo sentimento che Ryan smise di torturarsi le dita e
pronunciò le parole che mi sollevarono da un peso che non potevo più ignorare.
«Sta
per scappare in Messico. Non Nathan, ovviamente. Sto parlando di Waitch. W-H.
Walker Harvey, o solo Harvey per gli amici. E questo piano è tutta opera sua…»
Angolo
autrice
Salve a tutti!
E così i nodi dell’indagine
sono venuti al pettine! Riusciranno i nostri poliziotti preferiti ad acciuffare
Harvey? Lo scoprirete tra non molto :D
Nel frattempo,
Alan si fa sgamare dai suoi nel rapporto con Nathan e non riesce granché a
negare tutto. E forse si rende conto che tutte queste pressioni e paranoie sul “dopo-Oliver”
erano perlopiù sue XD
Non ho molto da
dire su questo capitolo, se non che l’ho scritto dopo mesi di pausa dal
precedente, basandomi solo sulla scaletta che mi ero fatta, quindi riprendendo
la scrittura in maniera un po’ asettica. I successivi, invece, li ho scritti
tutti o in parte in questi ultimi due mesi e penso che si noti. Sono molto
contenta di come sono usciti!
Per il resto, mi
manca da aggiungere un paio di frasettine al capitolo 33 e poi posso dire di
aver finito. Sono molto, molto tentata di infittire la pubblicazione mettendo
due capitoli a settimana, il lunedì e il giovedì, ma data la loro lunghezza
forse non è il caso… al massimo lo faccio solo per il 31 e il 32 come pensavo
già da un po’. Se avete voglia, fatemi sapere XD
Ringrazio come
sempre tutte le persone che seguono e commentano, vi adoro <3
A giovedì
prossimo,
Simona