30.
L’ultima volta
«Sta per imboccare
la I-95. Ripeto: sta per imboccare la I-95.»
«Ricevuto.»
Ashton
girò il volante in direzione dell’imbocco dell’autostrada. L’orologio segnava
le 6:37 del mattino. Il tachimetro invece segnava centoventi chilometri orari e
continuava a salire, come l’adrenalina che avevo in corpo. La sirena che
sentivo risuonare oltre il vetro mi indicava che quella non era
un’esercitazione, ma il reale inseguimento di Harvey Walker, un paio di
macchine avanti alla nostra.
Ashton
azzardò un paio di sterzate e il pickup Ford grigio perla a cui davamo la
caccia tornò rapidamente nel nostro campo visivo. Si era posizionato sulla
corsia di sinistra e manteneva una velocità costante, benché sbandasse appena
di tanto in tanto, forse non abituato a tali velocità.
Tra
noi e quell’auto ora non c’era nessuno - avremmo potuto speronarlo, se avessimo
voluto.
La
radio si attivò di nuovo.
«Proviamo
a circondarlo da destra, passo.»
Notammo
che una delle volanti alla nostra destra si fece strada tra le altre auto per
tentare di circondare il pickup; fu seguita a ruota da un altro paio di
macchine della polizia.
Il
pickup era praticamente circondato. Non aveva possibili vie di fuga se non un
balzo in avanti tale da seminarci, eppure mi sentivo il cuore in gola. Eravamo
a un passo così dal prenderlo, sarebbe bastato un solo gesto per far sbandare
la sua auto sul guardrail e mettere così fine alla sua fuga.
Il
tachimetro saliva ancora e arrivò a sfiorare i centocinquanta; mi chiesi quanto
ancora avremmo potuto spremere quella carretta.
«Quando
hanno intenzione di tagliargli la strada?», domandai, e lì mi accorsi che avevo
il fiato corto.
Ashton
schioccò appena le labbra.
«È
troppo pericoloso qui, rischieremmo un tamponamento a catena.»
Il
tono di Ashton era fermo e all’apparenza calmo. E l’ovvietà che mi aveva appena
detto mi fece capire quanto avessi il cervello in pappa.
Osservai
la prima volante ondeggiare ogni tanto verso il pickup. Forse cercava di farlo
sbandare, forse solo di fargli perdere il controllo del mezzo, ma nessuna delle
due ipotesi mi piacque, visto che io e Ashton eravamo proprio dietro ad Harvey.
Sapevo
che il mestiere che avevo scelto comportava dei rischi, eppure mai come in quel
momento mi sembravano così reali e tangibili. Una sterzata sbagliata, un colpo
di testa, un raggio di sole negli occhi e puff, finito tutto.
Mentre
viaggiavamo, le auto dei civili entrati in autostrada prima della nostra
chiusura si scansavano come fossimo stati Mosè con le acque del mare. Temevo
sempre la distrazione di qualcuno o che uno di quegli ignari automobilisti,
forse nel fracasso dell’abitacolo, non sentisse la sirena e finisse schiacciato
nella sua carcassa di metallo. E invece fino in quel momento era filato tutto
liscio, tranne per il fatto che quell’autostrada pareva non finire mai.
Potevamo
sperare forse che il pickup finisse la benzina o che si decidesse a imboccare
una delle uscite, e quest’ultima ipotesi mi sembrò di gran lunga la più
probabile e la più auspicabile.
Di
colpo la volante in testa oscillò verso il pickup e superò la riga di
demarcazione delle corsie. Il pickup accelerò appena e virò più a sinistra che
poteva. Strusciò contro il guardrail e con una manovra secca si rimise in
carreggiata, quel poco che bastò per scontrarsi con la volante che aveva
tentato la manovra. I fari della volante andarono in frantumi e l’auto assunse
vita propria, oscillando ora a destra ora a sinistra.
Il
pickup approfittò di quello spiraglio per virare a destra quel poco che
bastava.
Le
volanti in corsia centrale frenarono per evitare il tamponamento, così la
nostra corsa fu l’unica a continuare senza rallentare.
Ashton
non si lasciò turbare nemmeno un momento da ciò che era accaduto e proseguì
dritto, svicolando tra un’auto e l’altra, finché non raggiunse di nuovo Harvey.
Nemmeno il tonfo sordo di un altro tamponamento riuscì a distrarlo dalla guida.
Gli
eravamo dietro, soli, senza possibilità di imbrigliarlo come avremmo voluto.
«Vedrai
che al casello dovrà fermarsi», affermò Ashton, forse più a se stesso che a me.
Gli
rimanemmo dietro per quella che sembrò un’eternità, ma che alla fine non fu più
di un quarto d’ora. Il pickup teneva velocità costante e così noi;
probabilmente Ashton non se la sentiva di fare mosse azzardate.
L’attimo
dopo feci caso a due dettagli: che la strada era diventata stranamente sgombra
e che un’altra volante ci aveva superati e stava tenendo testa ad Harvey.
Quell’ultimo
pensiero mi suscitò un formicolio allo stomaco, come se avessi avuto un
coltello puntato alla gola e finalmente qualcuno l’avesse tolto - sollievo,
potrei dire. Noi stavamo dietro, pronti a intervenire, ma se quella volante gli
stava così attaccato, voleva dire che…
Ashton
tentò di frenare.
Udimmo
lo stridio delle ruote del pickup (o forse delle nostre?) sull’asfalto e il
tonfo sordo dell’urto ancora prima di renderci conto che il pickup aveva
sbandato e si era poi ribaltato, e che i fanali di questa volante, così come
quelli dell’altra, si erano ridotti in frantumi.
Il
tachimetro scese vertiginosamente, ma nonostante questo non riuscimmo a frenare
prima del luogo dell’incidente. Avvicinai la testa allo specchietto e sbirciai;
quando vidi entrambi i nostri agenti scendere dall’auto illesi, tirai un
sospiro di sollievo, e quella strana centrifuga che aveva albergato nel mio
stomaco fino a quel momento diventò meno aggressiva.
Fermammo
l’auto e scendemmo. Io cercai di recuperare forza nelle gambe, mentre Ashton si
ricordò appena di chiudere la portiera della macchina, poi si fiondò a corsa
dai nostri colleghi.
Io
li raggiunsi poco dopo e persi un battito quando vidi l’auto ribaltata tra la
carreggiata e il guardrail. Pensai ad Harvey e pensai subito a Nathan, a cosa
avrebbe detto se l’avessimo ritrovato senza vita.
Davies,
due baffi neri e quindici anni di esperienza sulle spalle in polizia, fece il
giro del pickup e cominciò a scalciare sulla carrozzeria.
«Forza,
esci!»
Non
udimmo alcuna risposta. Ashton si avvicinò al pickup e si accovacciò quanto
possibile, per vedere se ci fosse una qualche reazione. Io lo seguii, mentre
Davies continuava a scalciare.
«Ti
ho detto di uscire!»
Mentre
mi abbassavo, cominciai a intravedere Harvey. L’airbag si era aperto e
nascondeva sempre meno la sua camicia rossa a righe e il suo volto che
distinguevo a malapena per via del sole che rifletteva sul vetro del
parabrezza. Notai che il finestrino dal suo lato era ancora intatto, ma non per
molto, a giudicare dai calci che Davies gli stava dando. Si era stufato di mandare
avvertimenti sulla carrozzeria e quindi era passato direttamente al vetro,
insieme a una sbrodolata di insulti.
Intravidi
un movimento. Osservai le righe della camicia che si spostavano e non era il
vento, no: era vivo. Pensai di nuovo a Nathan e al fatto che non avrei dovuto
dargli una brutta notizia… o forse che lui non avrebbe dovuto darla a me,
disperato per la morte del suo primo amore. Mi rimisi su.
Alla
fine il vetro si spaccò. Davies non aveva posto la minima attenzione al fatto
che avrebbe potuto ferire Harvey, perché a lui interessava solo tirarlo fuori
di lì. Si abbassò allora e fece cenno al collega che era stato con lui in auto.
«Taylor,
aiutami!»
Taylor
non se lo fece ripetere due volte e si acquattò accanto a Davies; poi infilò le
mani nell’abitacolo e afferrò Harvey, che cominciò a lamentarsi, con le poche
forze che gli erano rimaste dopo l’impatto. Una volta staccata la cintura di
sicurezza, estrarlo da lì divenne un compito molto più facile: Harvey non aveva
la forza necessaria a opporre una reale resistenza, quindi si lasciò trascinare
fuori, tra un gemito e l’altro.
Non
appena il suo corpo fu completamente sull’asfalto, Davies lanciò un’occhiata a
me e Ashton.
«Ehi,
voi due! Tenetelo fermo!»
Corremmo
verso Davies, sperando di non irritarlo in alcun modo, e mettemmo le mani di
Harvey dietro alla sua stessa schiena, mentre Taylor gli chiudeva i polsi con
un paio di manette.
La
centrifuga nel mio stomaco si era fermata.
Approfittai di un
momento di distrazione per chiudermi in bagno due minuti. Harvey era tenuto in
sala interrogatori sorvegliato a vista da Davies e da altri colleghi che
avevano preso parte all’inseguimento.
Feci
una serie di respiri profondi e riuscii a scaricare in parte tutta l’adrenalina
che avevo ancora in corpo, che mi agitava, più che eccitarmi. Emisi l’ultimo
respiro come a soffiar via nell’aria tutte le preoccupazioni che avevo avuto,
poi aprii la porta del bagno e andai in corridoio.
Intuii
subito che la presenza di Matthew Church in persona, in piedi a braccia conserte
a fare avanti e indietro, non suggeriva niente di buono. Ma proprio niente.
«Scottfield,
ho bisogno di te. Adesso.»
Lo
seguii e mi portò nel suo ufficio, dove c’era già Ashton seduto, insieme a
Davies e Taylor. Sorrisi pensando che mi avrebbe preoccupato meno una riunione
di famiglia.
«Di
che si tratta?», domandai.
Church
incrociò le mani davanti alla bocca, poi sospirò.
«Come
dire… riguarda l’uomo che avete arrestato oggi.»
Mi
porse la sua foto segnaletica in formato A4 e la guardai. Il volto di Harvey
era provato, in parte dall’impatto e poi forse per gli stupefacenti di cui
faceva uso.
Sentivo
attorno a me un silenzio quasi spettrale, per cui, quando ebbi finito di
scrutare quella foto in ogni sua parte, decisi di correre il rischio e porgere la
domanda.
«Cos’ha
di strano?»
Church
sospirò ancora. Aprì un cassetto e tirò fuori un’altra foto di Harvey, che mi
porse senza dire niente, ma solo con un sorriso appena abbozzato.
Presi
anche l’altra foto e la confrontai con la prima. Harvey aveva comunque un
aspetto sciupato, ma decisamente non quanto nella seconda foto, oltre al fatto
che sembrava avere una stempiatura più pronunciata, benché solo abbozzata. I
suoi occhi erano grandi e appena spalancati, le labbra sottili. In qualche
modo, sembrava una persona diversa.
Ripercorsi
con lo sguardo le due foto e mi allontanai appena per vederle più nitidamente.
Mi fermai a fissarle per un po’, pronto a porgere nuovamente la domanda,
ma la paura di vedermi massacrato da quei due mastini di Davies e Church mi
spinse a fare uno sforzo e a connettere i neuroni.
Poi,
la notai.
Puntai
il dito sotto l’occhio destro di Harvey, nella seconda foto che mi aveva dato
Church.
«C’è
una cicatrice qui. O almeno sembra.»
Church
sorrise soddisfatto e io capii di aver passato l’esame.
«Esatto,
Scottfield. Cosa ne possiamo dedurre?»
Fece
una breve pausa nella quale pensai anche di rispondere, ma per fortuna non lo
feci.
«È
semplice: l’uomo che avete preso non è Harvey. È un sosia, cazzo!»
Church
batté il pugno sul tavolo e scattò in piedi.
«Uno
stramaledetto sosia del cazzo, ecco cos’è!»
Impiegai
un attimo per trovare il filo conduttore di quelle sue parole, ma fu subito
evidente: se Harvey aveva una cicatrice sotto l’occhio destro, non era
possibile che fosse scomparsa. E poi anche io, con solo una rapida occhiata,
avevo scorto sottili differenze tra le due foto.
Seguì
un momento di silenzio, poi Ashton osò parlare.
«Siamo
proprio sicuri? Non potremmo chiedere un riconoscimento?»
Church
posò entrambe le mani sul tavolo e si piegò verso Ashton.
«Lo
abbiamo già fatto, signor Stoner. Pensi che siamo tutti un branco di
imbecilli?»
«A
chi è stato chiesto?», proseguì Ashton.
«A
Ryan Goldwin e a uno dei testimoni, Nathan Hayworth. Entrambi hanno confermato
che quello che voi ammasso di idioti avete preso non è lui!»
Quel
silenzio diventò solido e mi si attaccò alla pelle, quasi fino a strangolarmi.
Non mi veniva in mente niente di intelligente da dire, ma pensai che anche
stare in silenzio con sguardo basso non fosse il migliore dei biglietti da
visita. L’unica consolazione fu che in stanza con me c’erano altre tre persone
nella stessa situazione, escludendo Church.
Ma
Davies era un capitano di lunga corsa e non aveva intenzione di sopportare gli
strepiti di Church.
«Si
hanno notizie del vero Harvey Walker, signore?»
Improvvisamente
Church si ricompose e cercò di chiudere in quella giacca striminzita tutto
l’odio e il disgusto che provava per noi, specie per i due seduti in prima
fila.
«Stiamo
effettuando ulteriori verifiche, ma sembra che abbia completato con successo la
sua fuga in Messico. L’ha fatta franca.»
Nessun
altro disse niente. Osai rivolgere il mio sguardo ad Ashton e lui fece lo
stesso con me. Ci scambiammo una rapida occhiata, dopodiché tornai a elaborare
in silenzio quel senso di vergogna e impotenza.
«Adesso
andatevene, tutti quanti.»
Obbedimmo
tutti a quell’ordine senza fiatare. Mentre uscivamo dalla stanza, alzai gli
occhi su Taylor e sul suo volto lessi un’espressione contrita ma non troppo,
forse attenuata dagli anni di servizio che aveva accumulato nel tempo, a
differenza della mia che doveva sembrare davvero orribile.
Quando
fummo nel corridoio, nemmeno Ashton mi rivolse la parola. Nessuno lo fece.
Tornammo solo nei nostri uffici, silenziosi, sperando che nessuno si accorgesse
della nostra esistenza.
Fu necessario
almeno un quarto d’ora di silenzio prima che Ashton, in ufficio con me, si
schiarisse la voce. Alzai la testa dai fascicoli che fingevo di leggere e notai
che mi stava guardando. L’attimo dopo si alzò, prese una delle sedie davanti
alla mia scrivania e la spostò accanto a me, poi ci si sedette. Incrociò le
mani pensoso e piegò in dentro le labbra; io intanto mollai la penna che avevo
in mano, pronto ad ascoltarlo.
«Senti…»,
cominciò, poi abbassò lo sguardo e separò le mani. Una la portò dietro al
collo, in imbarazzo. «Volevo chiederti scusa.»
«Per
cosa?»
«Per
quello che ho detto su Nathan. Per come volevo che fosse il mio colpevole. Mi
dispiace.»
Ripensai
a ciò che mi aveva detto Ash quella sera in ospedale e a come pensava che
Nathan fosse il burattinaio dietro alla rapina e alla droga. Sorrisi pensando
che per un attimo ci avevo quasi creduto pure io - era stato persuasivo, dovevo
ammetterlo.
Non
potevo dire che sul momento quelle sue accuse e la sua ambizione personale non
mi avessero fatto saltare i nervi, perché lo avevano fatto eccome. E l’idea che
mi avesse considerato un poliziotto rincoglionito solo perché mi ero innamorato
- ouch - del testimone era stato un colpo basso che non avevo proprio
digerito. Sapevo però che per l’ego di Ash quelle scuse erano pesate come un
macigno, specie perché fatte con un imbarazzo che non gli avevo mai visto, per
cui decisi di prendere atto del coraggio che aveva avuto nell’ammettere i suoi
errori e provai a mettere da parte il mio orgoglio ferito.
«Ho
sete», risposi, e lui mi guardò con occhi spalancati, senza capire. «Non è che
mi accompagneresti a prendere qualcosa? Offro io, ovviamente.»
Il
viso di Ash si distese e la sua tensione fu smorzata del tutto da una risatina.
«Molto
volentieri, capo.»
Io e Ash prendemmo
posto nel tavolo all’angolo della caffetteria della centrale. Era un ambiente
spazioso e luminoso, con una serie di tavoli addossati alle pareti e alcuni
collocati in mezzo alla stanza. Si dispensavano bibite ma c’era anche da
mangiare, giusto per tagliare la fame quando la situazione non permetteva un
pasto più adeguato.
Avevo
deciso di riempirmi lo stomaco con un sandwich qualunque, mentre Ash aveva
inscenato un calo glicemico che lo aveva costretto a farsi fuori una fetta di
torta ai lamponi.
Parlammo
del più e del meno, ma in particolar modo dell’inseguimento di quella mattina e
della scenata fatta da Church; il fatto che Ash fosse piuttosto bravo a fargli
il verso migliorò in modo sostanziale il mio umore.
Il
locale era piuttosto affollato e il chiacchiericcio riempiva l’aria; notai un
paio di agenti seduti al tavolo accanto a noi in preda alle risate, e li
invidiai perché di certo non avevano avuto una brutta mattinata come quella che
avevo vissuto.
Ash finì
di ingoiare l’ultimo boccone, poi si pulì le mani col tovagliolo. Io invece
diedi un altro morso a quel panino che avevo mangiato solo a metà, ancora con
un frullatore nello stomaco che mi sconquassava a ogni morso. Girava piano,
però girava e non capivo perché. Era per quello scivolone professionale che
avevo fatto? O per qualcos’altro?
«Sai,
c’è una cosa che volevo chiederti da un po’», esordì Ash, così dal nulla, un
sorrisetto stampato sul volto. Io feci un cenno di assenso con la bocca piena,
per farlo proseguire. «Che programmi hai per il dopo-festa?»
Lo
guardai interrogativo e nel frattempo deglutii.
«Festa?
Quale festa?»
Lui
ridacchiò.
«La
festicciola di Nathan. Sai, quella che vuole fare tra qualche giorno per
salutarci tutti.»
Mollai
il sandwich sul piatto, presi il bicchiere e buttai giù due sorsi di Sprite.
«Oh,
quella. Non ci ho pensato granché ancora. Che programmi dovrei avere?»
Ash
sospirò, ma il suo sospiro si trasformò presto in una risatina.
«Alla
tua età devo davvero spiegarti a che genere di programmi stavo pensando?»
Il
frullatore che avevo nello stomaco cominciò a impazzire. Prese a girare a
velocità supersonica e all’improvviso quello che avevo nel piatto mi fece
perdere ogni appetito. Afferrai la Sprite e la avvicinai al bicchiere per
versarne un po’.
«Dai,
Alan, è pure uscito pulito da questa indagine, ora non hai davvero più scuse. E
poi lo so che son due mesi che te lo vuoi portare a letto.»
Sobbalzai
e un po’ di Sprite finì sul tavolo, così con un gesto repentino rimisi la
lattina in posizione verticale sul tavolo. Ash stavolta rise di gusto e pensai
a quante volte aveva immaginato quella scena nella sua testa. Sicuramente era
andata come da copione.
Notai
anche che i due agenti accanto a noi si erano voltati un attimo, e sperai che
fosse per la Sprite e non per quello che aveva detto il mio collega.
«Io
non…», provai a ribattere, ma le parole mi morirono in gola.
Io
non me lo voglio portare a letto, stavo per dire. Ma il
frullatore stava risalendo su per la gola e mi aveva impedito di completare la
frase. O forse non l’avevo completata per un altro motivo?
«”Io
non” cosa? Non te lo vuoi portare a letto? Non ci crede nessuno. Ti ho visto
come lo guardi, sai. Vuoi farmi credere che non ti sei mai mas–»
«Ok,
ok, va bene, basta così. E abbassa la voce!»
Mossi
repentino il capo da destra a sinistra, ma nessuno, nemmeno i due poliziotti
seduti vicino a noi, sembravano aver fatto caso a quello che aveva detto Ash.
Mi sentii avvampare all’improvviso e sospettai che le mie guance fossero
arrossite, senza che io potessi farci niente.
«Oh,
così imbarazzato sei quasi tenerello», disse in falsetto, poi mi tirò un
buffetto su una guancia.
Io
lo scacciai e buttai fuori un respiro di troppo, poi mi portai le mani sul viso
e strofinai lento. Le parole di Ash mi risuonarono in testa e certi ricordi
sfrecciarono così veloci nella mente che non riuscii a fermarli. In più di
un’occasione, infatti, la doccia si era trasformata in un momento di piacere
personale… e in quelle fantasie c’era Nathan. E il fatto che ci fosse stato lui
e non Oliver, che assumeva sempre più le fattezze di un ricordo, aveva imposto
al mio cervello di sotterrare quei momenti sotto un cumulo di imbarazzo e
vergogna, con la speranza di dimenticarli.
Non
avrei mai avuto il coraggio di concretizzare quelle fantasie, ma qualcosa
dentro mi spinse a voler conoscere cosa frullava nella testa di Ash.
«Ok,
sentiamo. A cosa avevi pensato?»
Ash
incrociò le mani e allungò le braccia per sgranchirsi, come se avesse aspettato
da tempo di poter fare quel discorso. Io continuavo a chiedermi perché gli
avessi fatto quella domanda. Tamburellai i polpastrelli sul bicchiere, mentre
pensieri che non riuscivo ad acciuffare si rincorrevano nelle mie fantasie. Non
sarei mai andato a letto con Nathan… o sì?
«Be’,
sicuramente dovrai essere l’ultimo ad andare via, magari con una scusa, tipo di
riaccompagnarlo a casa. Se poi ti chiede di salire, è fatta. O sennò potreste
andare da qualche parte insieme a fare la coppietta.»
Cominciai
a figurarmi la scena nella mia testa. Lui che mi chiede di salire dopo una
serata da soli, la porta dell’appartamento che si chiude dietro di noi, i
nostri sguardi persi l’uno nell’altro…
Rimasi
come inebetito da quella visione, tanto che le mie dita smisero di giocare col
bicchiere. Subito dopo pensai anche che in fondo l’indagine era finita, e che
si era portata via con sé quell’enorme macigno che si era ogni volta frapposto
tra me e Nathan e che mi aveva costretto a tenere sempre su la mia maschera
professionale. Era una maschera che in più di un’occasione aveva rappresentato
un porto sicuro per evitare di essere travolti dal ciclone che era Nathan, ma
mi domandai come sarebbe stato parlare con lui a volto scoperto, senza più
questioni professionali nel mezzo.
«No,
aspetta, ho un’idea migliore!»
Dal
nulla il viso di Ash si illuminò. Sembrava in preda all’estasi, i suoi occhi
che si aprivano sempre più mano a mano che la scena si formava nella sua mente.
«Fai
così: digli che lo accompagni tu all’aeroporto. Nel pomeriggio vai tipo da lui
a prendere i bagagli e li porti da te, così a fine serata sarà costretto a
salire a casa tua, e poi… quel che sarà, sarà.»
Il
mio stomaco stava ancora frullando. A quella sensazione si aggiunse anche un
battito del cuore inusuale - stava pompando sangue dove non avrebbe dovuto,
sicuramente non in pausa caffè. C’era eccitazione, ma c’era anche… paura. Era
un piano perfetto, ma non sapevo se ero pronto, né se lo era lui.
Poi
un altro pensiero sfuggì al mio controllo e sfrecciò nella mia testa: sì, era
da tempo che volevo fare l’amore con Nathan (e non “portarmelo a letto”,
ribadì la mia mente), non aveva più senso negarlo; e il pensarlo in maniera
così chiara, senza filtri e senza censure mi fece avvertire più di uno
scricchiolio in quella diga che arginava i miei sentimenti per lui.
Mi
immaginai a cercare di tapparne le falle, a coprire quelle crepe con le mani.
«È
un’ipotesi molto fantasiosa, ma non credo che succederà.»
Lui
alzò gli occhi al cielo.
«E
perché no?»
«Perché
farò in modo che non accada.»
Ash
aprì bocca per dire qualcosa, ma sospirò soltanto, poi scosse il capo.
«Io
davvero non ti capisco. Perché non vuoi correre dei rischi, vivere la tua vita?
Sarà l’ultima volta che vi vedrete, e tu lo vuoi, lui lo vuole, avete
l’occasione…»
La
mia diga cominciava a fare acqua da tutte le parti. Mi affrettavo a correre da
una crepa all’altra, cercando di arginare l’emorragia, ma bastava distrarmi un
attimo per vedere i miei sforzi vanificati.
«È
complicato, Ash. È complicato.»
Ripensai
a Oliver, alla notizia della sua morte, a come mi ero sentito e a come avessi
desiderato la morte anch’io. Non volevo ripiombare in quel vortice, non volevo
più sentire l’oscurità dentro, la disperazione che quel vuoto aveva lasciato.
Certo,
Nathan non era Oliver, e quello che provavo per lui non era paragonabile a ciò
che provavo per l’uomo che volevo sposare, tuttavia…
«Secondo
me sei tu che rendi le cose complicate, perché in realtà la situazione è molto
semplice. Ti sei innamorato, non c’è niente di male e non era per niente
scontato che accadesse così presto. E credo che, alla luce di questo, sia molto
più faticoso per te trattenere quello che provi che non lasciarti andare.»
Le
ultime parole di Ash mi risuonarono nella testa per qualche secondo. Lasciarmi
andare… sembrava veramente una possibilità fuori dal tempo. Avevo imparato in
quei due mesi a frenare ogni pensiero scomodo e non avevo mai pensato alla
possibilità di vivere un po’ meno trattenuto. Avrei potuto, forse…?
Subito
però i miei pensieri furono interrotti dal flash della foto che tenevo sul
comodino. Di nuovo la censura, di nuovo una giustificazione che sentivo di
dover trovare.
«È
che mi ero ripromesso di essere fedele a Oliver e…»
«Alan»,
e mi mise una mano sulla spalla, «se proprio vogliamo metterla su questo piano,
sappi che non serve andare a letto con un altro per chiamarlo ‘tradimento’.
Quello c’è già nel momento in cui desideri un’altra persona accanto a te, o la
desideri e basta, e mi pare che nel tuo caso sia già successo, quindi…»
«…
Quindi tanto vale andare fino in fondo.»
Ash
mi batté una pacca sulla spalla.
«Bravo,
vedo che ci intendiamo.»
In
qualche modo aveva senso. Era la stessa cosa che avevo pensato quando Nathan mi
aveva baciato al Webster Hall, quella sera. E lì avevo sperato che il senso di
colpa fosse sufficiente per reprimere i miei sentimenti, magari fino a farli
sparire, ma non era successo. Perché quei sentimenti erano cresciuti fino a
occupare uno spazio dentro di me che non potevo più ignorare, e più provavo a
schiacciarli, più loro crescevano. Ma davvero avevo il coraggio di portare a
termine quel tradimento andando a letto con Nathan? Baciandolo, amandolo,
stringendolo a me come desideravo fare da tempo? La tentazione c’era, ma non
potevo voltare pagina in quel modo. Avrebbe significato mettere Oliver da
parte, metterlo da parte per sempre. Ricominciare.
Sospirai.
Forse
in un altro contesto avrei ceduto subito all’idea di passare il dopo-festa con
Nathan nei modi in cui diceva Ash, ma non in quella situazione. Sarebbe stato
un suicidio annunciato, perché sapevo bene che con Nathan non sarebbe stato
solo sesso, visto che io ero… ero innamorato di lui. E a quel pensiero sentii
un pezzo della mia diga cedere completamente. C’era qualcosa che potevo fare,
che non fosse stare a guardare mentre tutto andava in frantumi?
«Ehi»,
aggiunse dal nulla, dandomi di nuovo una pacca sulla spalla. «Prova a lasciarti
andare, dammi retta. Poi non è mica detto che tu debba proprio andare fino in
fondo, eh. E alla peggio puoi sempre pensare che è una festa di addio, quindi
se proprio non dovesse andare non hai nemmeno l’imbarazzo di dover gestire la
situazione.»
“Andare
fino in fondo”... erano un bel po’ di mesi che non lo facevo. Ma aveva ragione
lui: potevo anche cominciare da qualcosa di più soft come un abbraccio e
tastare il terreno di volta in volta, senza per forza avere delle aspettative
irrealistiche. E forse era proprio quello a terrorizzarmi, cioè che le
probabilità che Nathan rifiutasse un mio abbraccio o un mio bacio fossero
praticamente nulle.
«…
È che lo so che se lui mi darà un dito io poi vorrò prendermi tutto il
braccio.»
Lui
fece spallucce.
«Non
vedo dove stia il problema, se anche lui è d’accordo.»
Aveva
ancora ragione, non era quello il punto. Esitai un momento per trovare
coraggio. Sospirai.
«Il
problema è che poi dovrò separarmi da lui. Ora come ora penso di farcela, ma se
dovessi lasciarmi andare non so se–»
Ash
mi posò una mano sull’avambraccio.
«È
questo il vero rischio che devi decidere se correre, caro Alan. E comunque, se
posso fare un pronostico, io ho come l’impressione che questo fuoco della
passione tra voi scoppierà in ogni caso, con o senza il tuo permesso.»
Sbuffai
appena. Quante volte io e Nathan ci eravamo andati vicini? E ogni volta avevo
sentito sempre meno resistenza da parte mia, proprio come se quel fuoco stesse
aspettando solo il momento giusto per divampare senza preavviso.
Alla
fine si trattava di capire se volevo ancora quell’encefalogramma piatto a farmi
compagnia o se invece volevo far schizzare in alto i valori, col rischio che
andassero giù con la stessa intensità. E c’era il pericolo che a trascinarmi
verso il basso ci fossero anche Oliver e i sensi di colpa che, lo sapevo,
sarebbero scaturiti.
Stavo
per dire qualcosa per spezzare quel silenzio, ma l’immagine di Church sulla
soglia della caffetteria che ci faceva cenno di seguirlo ci costrinse a
interrompere quella conversazione.
Lasciai
mezzo sandwich nel piatto con mio sommo rammarico, ma in compenso finii quella
pausa con addosso una strana sensazione, perché nonostante i discorsi, le
convinzioni e l’assoluta volontà di non dare retta ad Ash, dovevo pur sempre
fare i conti con quel qualcosa chiamato istinto, lo stesso che mi aveva
portato, quel giorno in centrale, a fare la mia prima chiacchierata con Nathan.
L’incontro con
Church fu meno traumatico del previsto. Alla fine fu solo una misera strigliata
seguita da una panoramica dei nuovi casi a cui dedicarci, e il fatto che non
avesse deciso di sbatterci fuori lo interpretai come un buon segno.
Girai le
chiavi nella serratura ed entrai nel mio appartamento. Posai i fascicoli in
camera e mi chiusi un attimo la porta alle spalle, poi lasciai che un sospiro
si portasse via tutto lo stress che avevo accumulato. Mi sedetti sul letto e
cominciai a sfilarmi le scarpe, quando lo sguardo mi cadde sulla foto che
tenevo sul comodino. Oliver. D’un tratto mi sentii così sbagliato per quello
che provavo, per quella morsa al petto che era tutta e sola per Nathan. Il
ricordo della chiacchierata con Ash mi fece ripensare a quei momenti di
intimità sotto la doccia, ma soprattutto mi tornarono in mente le immagini che
avevano albergato nella mia mente in quei minuti di piacere, immagini che col
passare del tempo si erano trasformate da baci casti a rapporti completi.
Dio,
se lo desideravo. Ma sapevo che cedere a quella tentazione sarebbe stato come
giocare col fuoco e che le probabilità di bruciarmi erano altissime, perché
avevo capito che lasciarmi andare a Nathan avrebbe significato soffrire come un
cane per la sua partenza, più di quanto non sarebbe già accaduto.
Nonostante
questo, la mia mente cominciò a immaginarlo, lì, in quel momento, in quella
camera…
Ovviamente
non sarebbe stato lì come conoscente o come amico, ma le sensazioni viaggiavano
più veloci delle parole, quindi lasciai che le immagini scorressero senza una
struttura, libere come da tempo desideravano di essere. E c’era Nathan, davanti
a me, su di me, le sue labbra sulle mie - e Oliver come spettatore. Lui che ci
osservava, con quel sorriso un po’ beffardo che sembrava prendersi gioco di
tutte le volte in cui avevo pensato che non ne sarei mai uscito, mentre in
quello scatto mentale ero lì, vorace su Nathan, che davo forma all’unica cosa
che avessi davvero desiderato nell’ultimo periodo.
Poi
però il flusso di coscienza lasciò spazio ai pensieri, e ogni cosa acquisì una
sovrastruttura razionale, e tutti i pensieri che non trovavano il loro spazio e
la loro etichetta si ritrovarono al macero o sepolti dentro un cassetto chiuso
a chiave, spenti. Perché mentre pensavo a fare l’amore con Nathan - perché sì,
non avevo fatto in tempo ad arrivare a quell’idea, ma la destinazione era
quella, no? -, pensai anche che non sarebbe mai successo. Forse c’era la
possibilità di un’occasione, ma quanto coraggio avrei dovuto trovare affinché
accadesse?
Così
scacciai dalla mente tutto, lasciai che la razionalità facesse il suo corso e
mi impedisse di inoltrarmi in una palude di pensieri senza ritorno, pensieri
che avrebbero finito con lo spaccare in maniera definitiva la diga dei miei
sentimenti per lui.
Tornai
quindi a concentrarmi sulle scarpe, che sfilai completamente, poi mi buttai a
peso morto sul letto e chiusi gli occhi, forse sperando, per un motivo o per un
altro, che il giorno della partenza di Nathan arrivasse il più in fretta
possibile.
Angolo
autrice
Salve a tutti!
Finalmente stiamo
entrando nella parte finale della storia, una parte che ho scritto quasi del
tutto negli ultimi due mesi, con rinnovato entusiasmo e tanta ispirazione. Mi
sono divertita tantissimo a buttar giù questi capitoli e spero che possano
piacere anche a voi!
Nel prossimo
capitolo avrà luogo la festa di addio di Nathan… cosa deciderà di fare Alan?
Sceglierà la testa o il cuore? Scoprirete tutto lunedì!
Nel frattempo, il
mio giro di preventivi per l’editing continua, intervallato da momenti in cui
continuo a pensare che dovrei darmi all’ippica, ma spero di trovare presto un
equilibrio e di prendere una decisione.
Ok, la smetto di
annoiarvi, e come sempre ringrazio tutte le persone che sono arrivate fin qui e
anche coloro che trovano sempre un momento per lasciarmi un parere. Grazie!
<3
A lunedì allora
^__^
Simona