Sentii il mio cuore dare un ultimo, feroce colpo e poi
quietarsi del tutto. Ero morta, dunque?
Avevo cercato di urlare ma dovevo essere ridotta talmente
male che ero sicura di aver prodotto soltanto gemiti e lamenti. Mi avevano
immersa nell’acido o forse lanciata nel cuore di un vulcano attivo.. o forse legata a un paletto su una catasta di legna
accesa. Il mio corpo si era arso lentamente. Avevo cercato la morte e pensavo
che sarei stata capace di trovarla. In ultimo pensai ad una punizione. Lo
dicevano che all’inferno faceva caldo. E lo sapevo che i suicidi finivano
là.
- Esme..?
– non avevo mai sentito pronunciare il mio nome in quel modo. Niente
male, l’inferno.
- Carlisle, dalle
il tempo di realizzare. Crede di essere all’inferno – mi
chiesi a chi appartenesse quest’altra voce. Melodiosa e bellissima anche
questa. Cosa stavo credendo? Carlisle? Sentii le
farfalle nello stomaco ed ero sicura che il mio cuore mi stesse scoppiando tra
le costole per l’emozione, anche se a dire il vero sembrava fermo
là, pietrificato.
Sorrisi. In tutta la mia vita, avevo incontrato una sola
persona con quel nome. Il ricordo era sfocato nella mia mente, ora. Eppure,
sentivo forte il suo profumo nell’aria. Più forte dei miei ricordi
confusi. Provai a deglutire: mi parve di avere della
cartavetro in gola. Una sensazione fastidiosissima. Ok, all’inferno ci stavano i dannati, no? Mi rassegnai.
In fondo, me l’ero cercata.
Eppure, sentivo che un’altra mano, grande e morbida e
calda stringeva la mia.
- Edward, perché non apre gli occhi? – era
stato un sussurro. Avevo sentito perfettamente: l’inclinazione
angosciata, la consistenza dolce del suo respiro, il rumore delle labbra che si
sfioravano e quello della lingua che batteva sui denti. Mi sentivo confusa.. avrei dovuto aprire gli occhi? Perché, li stavo tenendo chiusi?
Provai lentamente, con il destro. Era come vedere il sole la
prima volta, dopo essere stati chiusi in una cantina per anni. Non so bene se
il paragone potesse funzionare.. perché non ero
mai stata chiusa in una cantina per anni. Eppure vedevo, sentivo, percepivo tutto. Ero meravigliosamente ubriaca del
mondo che mi circondava. Aprii anche l’altro occhio. E mi assicurai di
non stare sognando. Ai piedi del mio letto, un ragazzo bellissimo mi osservava,
accennando un sorriso triste. Era un ragazzo. Davvero, davvero bellissimo.
Provai a sorridergli di rimando. Era pallido quel ragazzo. Davvero, davvero
pallido. Eppure provai un senso di serenità nell’osservarlo. Avrei
voluto con tutto il mio cuore che il mio bambino, avesse
potuto diventare un ragazzo così. Storsi il naso, rivedendo in me
quella persona frivola e meschina che era stata mia madre. La mia mente pensava
tutto contemporaneamente. Mi sentivo un po’ angosciata: non capivo cosa
mi stesse succedendo. Edward fece un cenno d’intesa, a qualcuno al mio
fianco. Avevo quasi paura a voltarmi, eppure, inspiegabilmente lo feci: mi
voltai.
Non è che, alla
fine, ero finita in paradiso?
I ricordi erano una fitta nebbiolina nella mia mente ebbra,
eppure il volto perfetto e meraviglioso del dottor Cullen,
i suoi profondi e liquidi occhi d’oro, il suo sorriso dalla dentatura
bianca e perfetta, mi osservavano cauti. Allungai una mano, e gli accarezzai i
capelli. Forse lo feci per controllare la fittizia realtà di quello che stavo
vivendo o forse non so.. ma mi sentivo serena. Avevo
sognato ad occhi aperti, da ragazza, una cosa del genere. Poi la mia vita aveva
preso quell’altra strada e il ricordo del dottore si era messo da parte,
sopraffatto dalla disperazione. Avrei voluto piangere. In realtà pensavo
di stare piangendo ma non sentivo né gli occhi umidi, né le
lacrime rigarmi le guance. Era come se il fuoco che era scoppiato dentro ed
intorno a me non mi avesse arso soltanto la gola, ma
anche tutto il resto. Sentii il ragazzo allontanarsi e chiudere la porta della
stanza. Avrei voluto chiamarlo e dirgli di non andare via. Lo avrei voluto
vicino ancora un po’. O anche per sempre. Stavo ancora accarezzando il
volto del dottore. Facevo troppe cose contemporaneamente e forse le stavo
facendo anche molto velocemente. La lancetta sottile dell’orologio sul
comò non aveva ancora fatto il giro dei… secondi. Sobbalzai,
sedendomi e strinsi forte la mano del dottore. Non capivo, non riuscivo a
capire. Lo fissai, spaventata.
- Esme, ti ricordi di me? –
sorrisi maliziosa. Chi se lo scorda ‘sto schianto di dottore?! Avrei voluto rompermi anche l’altra gamba e
entrambe le braccia, solo per sentire di nuovo le sue mani gelide accarezzarmi.
Credo di averci anche provato.
- .. hai provato a.. ti sei..
– rinunciò – eri all’ospedale l’altro ieri
notte. Ed io ti ho portata via – sorrisi ancora: certo, il tutto
compreso. Ecco la chiave: un arto alla volta te lo aggiusta chi è di
turno al pronto soccorso, tutta intera prendi il pezzo grosso. Venni travolta
dallo sconforto.
- .. quindi non sono morta –
realizzai con angoscia. E ora che cosa mi aspettava? Charles mi avrebbe
massacrata. Allora si che sarei morta, agonizzando ancora un bel po’. Mi
arrabbiai, mi sentivo una belva feroce, ringhiai.
Ringhiai.
Ringhiai!
Le braccia di Carlisle mi
stringevano. Con fatica. Cercai di riprendere il controllo. Ma non accadde.
Forse l’ansia, forse l’angoscia, forse quella mia strana nuova
mente che produceva immagini così vive e pensieri così funesti.. mi prese il panico. Strinsi forte il suo maglioncino. E
sentii la stoffa lacerarsi lentamente. Non riuscivo a mollare la presa: io
avevo paura. E non capivo. E volevo piangere e non riuscivo. Mollai
di colpo, pentita. Nascosi il volto nell’incavo della sua spalla.
- Esme, tu non sei più
quello che eri – sembrava dispiaciuto. Alzai la testa, incitandolo a
continuare. - .. non sei morta, ma è come se lo
fossi. – alzai un sopracciglio. L’unica cosa che mi premeva era non
rivedere mai più Charles. Una profonda tristezza mi colse
all’improvviso. Stavo ripensando al mio bambino. Contemporaneamente
ripensai al ragazzo triste dai capelli ramati.. che mi aveva letto nel pensiero. Rimasi immobile,
trattenendo il respiro. Lo trattenni ancora e ancora e ancora. Non avevo bisogno
di respirare. Sulla fronte di Carlisle si era formata
una profonda ruga.
- Ora sei come me. Ti ho dato la vita eterna ma ti ho
privato della tua anima, Esme. Potrai mai perdonarmi?
– vita eterna. Cercai di realizzare. Quindi, non ero morta. Anzi. Lo fissai. Grandi ragionamenti, ma
poche parole. Mi stupii di me stessa. Dovevo capire.
- Perché mi brucia la gola? – lui
sospirò.
- .. perché hai sete. – Non capii bene il senso di
quella parola: che mi desse un bicchiere d’acqua, no? Era un dottore,
diamine, mica avrei dovuto dargli suggerimenti io!
- I tuoi bisogni sono cambiati, Esme.
Il tuo corpo è cambiato. Sei stata congelata in questo tuo primo e
ultimo infinito giorno, non è necessario per te respirare, dormire.. nemmeno mangiare – io cercavo di capirlo, ce la
stavo mettendo tutta… ma come avrei potuto placare quel fuoco nella mia
gola? Non mi accorsi di aver ragionato a voce alta. La risposta mi
arrivò come una valanga addosso. Mi sembrò scontata, tutto ad un
tratto. Avevo letto anche io Dracula
di Bram Stoker. E mentre Carlisle
continuava in una sorta di spiegazione tecnica riguardo a quello che era
diventata e sarebbe stata la mia vita, cercavo analogie e ricacciavo indietro
il ricordo di quella bestia di Charles. Sangue animale, occhi rossi. Brillare.
Volterra, Volturi. Londra, milleseicento. Edward, Chicago, spagnola. Uccidere, nomadi. Sangue. Segreti, documenti, fingere, immortalità. Trasferirsi,
pioggia. Forza, velocità, istinto. Mesi, iridi dorate. Niente funzioni
vitali, niente lacrime. Niente ciclo, niente bambini. Trasalii. E strinsi di
nuovo il suo maglioncino tra i pugni. Carlisle si
scusò.
- Che ne sarà di me, allora? – ero spaventata. Ora avevo perso le coordinate della mia
esistenza.
- Sei libera di scegliere - ma cosa
avrei dovuto scegliere, in fondo? C’era solo da rassegnarsi. E solo e
soltanto una cosa mi premeva. Del resto non mi interessava. Avrei accettato
tutto. Lo sussurrai.
- Perché mi hai salvata?
– Carlisle sospirò mestamente, dandomi
una carezza sul volto.
E capii.
Sorrisi, folle, facendo una cosa che mai e poi mai mi sarei
aspettata: lo baciai. Dolcemente, timidamente. Le sue mani mi strinsero la vita
e i fianchi e dimenticai il pudore: lo trascinai sopra di me e continuai a
baciarlo, con passione e desiderio… e amore. Era tutto nuovo, tutto
amplificato. Le nostre labbra fameliche si rincorsero a lungo. I nostri corpi
sembravano due pezzi di un puzzle. Le sue mani correvano veloci su di me,
ovunque, sopra e sotto i vestiti. Poi, di colpo, si fermò. Una violenza
bella e buona: staccarsi da me, così. Lo fissai impudicamente felice. Non sapevo cosa fosse la felicità. Ed
era così tanto, tutto assieme, in un solo giorno. Fermai le sue mani
addosso a me, prima che si allontanasse del tutto.
- Ho passato giorni e notti a pensare a te. Ero solo una
ragazzina con una gamba rotta.. – sorrise,
fissandomi. Mi mancarono le parole. Mi diede un bacio sulla fronte. Era una
bella sensazione. Stavo provando… amore.
- Devo portarti a caccia
– annuii. La gola raspava, feroce. Mi strinsi un po’ di più
al suo corpo perfetto e sospirai beata. Ero sempre più ebbra. Ed
euforica.
Alla fin fine, mi era
toccato davvero il paradiso.