Il giorno in cui l'infanzia è caduta dalla Mensola del Tempo

di _Il colore del vento_
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Il giorno in cui l’infanzia è caduta dalla Mensola del Tempo
 



Un giorno, un giorno preciso
che però non riesco a ricordare,
la mia infanzia è caduta dalla Mensola del Tempo,
deflagrando a contatto col suolo.
Ho tentato maldestramente di raccoglierne i cocci,
di rimetterli a posto in fretta,
cercando di ignorare l’Orologio a muro,
placido e panciuto, che rideva beffardo,
inondandomi di rintocchi e ticchettii.
Allarmata, ho gettato un’occhiata ai Fiori Secchi,
stretti nel Vaso sul Camino –
temevo potessero fare la spia, come al solito,
ma loro si appoggiavano instabili e indolenti l’uno all’altro,
come una schiera di ragazzi ubriachi
e ho capito che non si erano accorti di nulla.
Per sicurezza ho controllato anche la Boccia dei Pesci,
sul Vecchio Pianoforte Scordato,
ma per fortuna non ne erano rimasti più –
dentro c’era solo una Sirena,
che a furia di cantare per Vecchi, Barbuti Marinai,
sordi e distratti,
era rimasta senza voce.

La Casa è enorme e affollata.
Per un momento ho pensato che nessuno, in fondo,  
avrebbe fatto caso alla mia infanzia in frantumi.
E presto il Tappeto, ingordo e affamato,
avrebbe divorato tutti i frammenti
e le schegge. Era solo questione di tempo.
Solo che qualcuno deve essersene accorto,
della mia infanzia che giaceva a pezzi sul pavimento del Salotto,
perché, da quel giorno preciso che non riesco a ricordare,
la Casa è cambiata.
Impercettibilmente, a mia insaputa.
 
In Corridoio, un Corridoio Lungo e Senza Finestre,
tanto buio che quasi non si distingue dove mettere i piedi,
ho capito che la Donna che Osservava Paesaggi Invisibili
è andata via.
Ci sono rimasta male perché,
prima che la mia infanzia cadesse dalla Mensola del Tempo,
trascorrevo interi pomeriggi in sua compagnia,
ad ascoltare le Storie dei Mille e Più Mondi che mi descriveva
e che cercavo di riprodurre fedelmente nei miei album da disegno.
I suoi Mondi erano talmente luminosi e inondati di Sole
da consumarmi tutti i pastelli gialli,
tanto che alla fine, quando non ne avevo ormai più,
e mi restavano soltanto grigi e neri,
lei si è girata verso di me –
era la prima volta che lo faceva, ho scoperto che era cieca –
e mi ha sorriso triste.
All’epoca non avevo capito perché;
era come se dovesse partire per un lungo viaggio
in cui non avrei potuto seguirla.
Ma forse lei aveva già presentito il crollo della mia infanzia;
forse è per quello che è andata via.

Al posto della Donna, comunque,
ad attendermi in Corridoio ho trovato delle scie sul pavimento,
scie umide, quasi invisibili.
Sono impronte di qualcuno col mio stesso numero di scarpe.
Che coincidenza!, devo aver pensato,
mentre le seguivo fino al Bagno,
che nel frattempo è diventato una Palude.
La vasca non c’è più ora,
è stata sostituita da uno Stagno Immobile,
sul cui fondale è adagiato un Annegato.
Quando mi sono inginocchiata accanto allo Stagno,
lui ha aperto un occhio, uno soltanto,
e con un certo sforzo ha tentato di dirmi qualcosa,
solo che l’acqua gli distorceva la voce
e le mie orecchie erano ancora invase dal suono di vetri infranti.
L’Annegato allora si è portato lentamente una mano rugosa all’altezza del polso
e ho capito che parlava dell’Orologio.
Mi sono concentrata,
focalizzandomi sul movimento delle sue labbra smorte
e ho capito che diceva:
«Qui il Tempo non può raggiungermi».
Poi ha sospirato e il suo sollievo
ha increspato di bollicine la superficie dello Stagno,
cancellandogli i tratti del viso.
 
L’altra sorpresa è arrivata quando ho scoperto di poter finalmente salire in Soffitta.
Prima, la botola pesante era sempre chiusa, ma proprio sigillata,
e, dato che non riuscivo a sollevarla, me ne restavo a terra a fissarla impotente,
ascoltando l’andirivieni di passi misteriosi sopra la mia testa.
Ma, dal giorno in cui la mia infanzia è precipitata al suolo,
qualcuno deve averla aperta
e così mi sono arrampicata su per le scale,
oltre la botola,
fino a ritrovarmi davanti il volto impiastricciato di un Pagliaccio.
Ha battuto le mani allegro, quando mi ha vista,
e a balzelloni ha raggiunto un Grande Armadio Spalancato,
pieno di Maschere e Costumi di Scena.
«Ti aspettavo, sai? Perché ci hai messo tanto?»
ha cinguettato, affrettandosi ad estrarre tutti i vestiti e gli accessori
che riusciva a raggiungere con le sue manone guantate.
Ho capito che non attendeva nessuna risposta,
perché troppo preso dalla sua ricerca.
«Chi puoi essere?» borbottava fra sé, pensieroso,
e un po’ mi sono offesa, perché avrei preferito
, piuttosto,
che mi domandasse chi volevo essere.
Ho anche intravisto un canovaccio,
abbandonato su una vecchia poltrona polverosa,
su cui era abbozzata la Trama Confusa di uno Spettacolo Senza Titolo.
Ho supposto che il Pagliaccio ne fosse il Regista,
perché tutte le Parti erano state assegnate a me.
 
Anche la Veranda è cambiata.
La Veranda affacciata sul Tramonto è sempre stata vuota,
ma, dal giorno in cui la mia infanzia è esplosa,
qualcuno l’ha occupata.
C’è un Fabbro, ora, che ogni volta mi accoglie,
con i suoi occhialoni protettivi e uno scalpello in mano.
Non distoglie mai lo sguardo dal suo Lavoro,
eppure mi sente sempre arrivare.
Sorride enigmatico e mi rivolge la domanda di rito.
«Come ti chiami?» mi chiede ogni volta,
cercando di cogliermi impreparata.
Io, però, sto sempre molto attenta a non dirgli mai il mio nome
e a inventarne di nuovi.
«Speranza» ho risposto l’ultima volta che sono stata in Veranda.
Il Fabbro ha riso tanto da doversi afferrare la pancia
e la Lapide su cui stava lavorando è caduta.
E io non l'ho mica capito, cosa ci fosse di tanto divertente. 

Ormai mi capita spesso, di non capire.
Prima avevo come l’impressione
che ogni Cosa e ogni Persona presente nella Casa
si trovasse lì proprio per me.
Ora, invece, da quando l'infanzia è caduta dalla Mensola del Tempo,
la Casa s’è fatta esigente
e parla in linguaggi incomprensibili.
Forse s’è offesa,
forse sperava che restassi piccola per sempre.

Quando la Tristezza è troppa, comunque,
e la Casa diventa oscura e impenetrabile,
torno a trovare l’Annegato nella Palude.
Lì, sott’acqua, non dobbiamo parlare per forza.
Mi stendo sul fondale dello Stagno, al suo fianco,
scaccio i Banchi di Piccoli Pesci
che mi mordicchiano i lobi delle orecchie
e mi accoccolo fra i coralli e le alghe invadenti.
L’Annegato ha il sonno pesante
e non sente la lontana, ovattata risata dell’Orologio,
né il Lavorio instancabile del Fabbro.
Io sì, invece, li sento sempre,
nonostante l’acqua nelle orecchie
e il salmodiare dei Pesci.
Così resto ferma e immobile,
insonne,
cercando con tutta me stessa di ricordare –
di recuperare dal fondo della Memoria
le Sfumature Dimenticate del Sole.

 




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