8 ottobre 3019,
Terza Era
Palazzo
del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
240 miglia a sud
«Oh...»,
la voce di suo fratello la raggiunse dal basso, «Iriel, sei
stupenda». Erchion si era fermato a guardarla da
in fondo le
scale, un fascio di documenti rilegati in pelle sotto al braccio e
un’espressione stupita in volto. «Non mi sarei
aspettato di vederti così agghindata».
Lothíriel
finì di scendere gli ultimi gradini, afferrando la mano che
il fratello le aveva porto. «Non
me ne prenderei il merito.
Sono stata vestita contro la mia volontà»,
la
Principessa indicò con lo sguardo Thïria, qualche
passo dietro di lei.
«In tal
caso…», Erchion chinò la
testa in
direzione della donna, «Hai
fatto un ottimo lavoro,
Thïria, le mie congratulazioni. Posso immaginare non sia stato
un compito facile».
«Dovere,
Principe, dovere. Ma vedere la Principessa così bella mi
ripaga decisamente delle mie pene».
«Mi
ricorderò delle tue pene anche quando preparerò i
salari», le promise ammiccante. Il suo sguardo
tornò alla sorella, i suoi occhi la percorsero con una certa
incredulità. E anche qualcos’altro, che
Lothíriel non avrebbe saputo definire. Le strinse di
più la mano, «Sembri
proprio…
Sembri-».
«La
mamma», s’inserì Amrothos
mentre li
raggiungeva d’altro lato dell’atrio
d’ingresso. «Woh,
Iriel», si
arrestò a due passi da loro, la stessa espressione del
maggiore. La sua bocca però deteriorò rapidamente
in una smorfia. «Tutto
questo per il Comandante?».
«Amrothos…
Le tue personali antipatie non concernono nostra sorella. Non le sono
utili. Ti prego di tenerle per te».
«Da
quando sei così diplomatico? Trovi il Comandante sgradevole
almeno quanto me. Sono piuttosto certo che lo detestassi con ardente
passione durante gli anni dell’Accademia. Nostro padre ha
dovuto dedicare un intero cassetto del suo scrittoio alle tue lettere,
quelle in cui lo supplicavi di poter essere assegnato a una camerata
dove non ci fossero né lui né Elphir».
Erchion emise un
sospiro. «Sono
passati anni dai tempi in cui eravamo cadetti
all’Accademia e-».
«E
quindi ora hai una considerazione diversa del Comandante? Mi stai
dicendo questo?».
«Nemmeno
le mie personali antipatie concernono
nostra sorella, è
questo quello che sto dicendo. Iriel»,
tirò le
labbra in un sorriso diretto a lei,
«Sono contento che tu
stia facendo del tuo meglio per non dare ulteriori preoccupazioni a
nostro padre. So che questo genere di impegni sociali non sono
congeniali alla tua indole, me ne rendo conto, ma so anche che il
Comandante non sarà spiacevole con te. Per quanto mi costi
ammetterlo, è un uomo acuto, giudizioso. Si contano sulle
dita di una mano i suoi passi falsi. E questo fidanzamento è
indubbiamente importante per lui».
«Ugh»,
il Terzogenito scosse le spalle, come attraversato da un brivido.
«Smetti di
incoraggiare questa grottesca frequentazione,
fratello».
«E tu
smetti di scoraggiare
questa frequentazione, fratello. Nostro padre
l’ha già approvat-».
«Corteggiamento
volevi dire?». Lothíriel
richiamò a
sé l’attenzione dei due uomini.
«Cosa
intendi?».
«Ha-hai
detto fidanzamento poco fa».
«L’ho
chiamato così?».
«Sì,
lo hai fatto, nonostante si tratti di un corteggiamento. Hai sbagliato
termine», le occhiate che si scambiarono i due
fratelli non
furono delle più promettenti, «Perché
hai sbagliato termine, non è così…
Erchion…?».
Il Secondogenito
la fissò qualche istante, impreparato. Si voltò
semplicemente verso il fratello, «Tu
dove sei stato fino
adesso?», gli diede una pesante pacca sulla
spalla,
«Questo è un impegno di Iriel, non uno dei tuoi.
Non puoi farle fare tardi».
«Chi
credi avesse l’incarico di avvisare Madegar della nostra
assenza?», si giustificò Amrothos. «Ho
ascoltato il resoconto della sua mattinata per venti minuti e
argomentato per almeno altri quaranta».
«Argomentato
per cosa?».
Amrothos
sollevò il paniere che teneva in mano. «Non
c’è stato verso. Ha voluto prepararci un pranzo di
riserva. Nel caso in cui, e sto citando, quei lavapentole delle cucine
della Tenuta ci dessero acqua sporca al posto del brodo».
I tre giovani
ridacchiarono. «Tipico
di Madegar, mandarvi a pranzo con il
pranzo», Erchion allungò una mano e
si
appropriò a sorpresa della cesta. Il sorriso sulle labbra di
Amrothos si spense all’istante. «Tuttavia, sarebbe
irrispettoso se vi presentaste con un pasto di ripiego»,
anticipò le proteste in arrivo, «E i consiglieri
saranno lieti di ricevere questo spuntino, la riunione va avanti da
ore. Ora andate, i cavalli sono pronti. Se nostro fratello dovesse
metterti in imbarazzo, sorella, non me lo terrai nascosto,
vero?».
Lothíriel
scosse la testa. Amrothos le porse un braccio, che lei
accettò.
«Pronta?», le sorrise.
«Affatto».
«Ottimo.
Questo è lo spirito»,
commentò senza
battere ciglio mentre la guidava verso l’uscita. Salutarono
Thïria e il Secondogenito sulla soglia.
«Ah,
Iriel». La Principessa si voltò.
Erchion la stava
di nuovo guardando con quell’espressione malinconica negli
occhi. «Al tuo
rientro, prima di cambiarti d’abito,
passa a salutare nostro padre. Quel lilla, che indossi… Era
il colore della mamma. E potreste… No, dovreste parlare
del
tuo avvenire».
Sebbene
il suo rango glielo
avrebbe permesso, il Comandante Sîrfalas non alloggiava a
Palazzo. In una buona posizione panoramica, su di un crinale con ampia
vista sulla Baia del Principe e sui Porti Commerciali, si trovava la
sua tenuta di famiglia, conosciuta in città come la Tenuta
del Giglio. Il verdeggiante giardino davanti alla villa era in parte
pensile e terminava con un emiciclo racchiuso da mura di pietra
opalina.
Superati gli alti
cancelli, lo sguardo di Lothíriel spaziò sulla
facciata principale che si stagliava contro il cielo del mezzogiorno.
L’iridescente blasone araldico catturava immediatamente
l’attenzione. L’intarsio di madreperla che
componeva il giglio di mare al centro dell’insegna nobiliare
scomponeva i raggi solari diventando una fonte fulgente di luce
rifratta. Si diceva che una nave che giungesse ai Porti di Dol Amroth
avvistasse il giglio bianco dello stemma del Comandante ancor prima
delle luci faro.
Dopo che i suoi
occhi si furono abituati alla luminosità della villa,
conversero naturalmente sulla figura del Comandante. Era un uomo dalla
notevole fisicità, e il taglio della sua divisa non faceva
che sottolineare le sue spalle larghe. Sarebbe spiccato in qualsiasi
folla, ma anche così, in piedi sotto il loggiato centrale
della sua gloriosa tenuta, il suo portamento era inequivocabile.
Inequivocabilmente superbo. Lothíriel inspirò
profondamente. Sarebbe andato tutto bene. Era solo un pranzo.
Il Comandante
andò loro incontro. «Principessa,
benvenuta. Grato
che abbiate accettato il mio invito», le
sfiorò il
dorso della mano con un bacio. Prolungò il contatto tra le
loro mani oltre al necessario, mentre le sue iridi di ghiaccio si
muovevano sui lineamenti di lei. Sollevò appena un angolo
della bocca e ritirò la mano. La ragazza ebbe la sensazione
di aver appena superato una valutazione. «Di rado posso
godere di una compagnia così piacevole».
Il cuore
della Principessa tamburellò contro il suo sterno. Era solo
un pranzo.
«È
vicendevole», Amrothos si affiancò
alla sorella
con un sorriso di cortesia esposto sulla faccia.
«Comandante»,
chinò la testa.
«Terzogenito».
«La-la
tenuta», Lothíriel si
schiarì la gola
quando il silenzioso braccio di ferro tra i due uomini si era fatto
insostenibile, «È-…
È
veramente magnifica, mio signore. Ho avuto poche occasioni di visitarla
all’infuori del Ballo, ma-ma è esattamente come la
ricordavo». La sua voce la stava tradendo ancora
prima che il
pranzo fosse iniziato.
Gli occhi del
Comandante abbandonarono finalmente il fratello. «Porremo
rimedio anche a questo. Ora», indicò
in direzione
della villa, «Seguitemi,
accomodiamoci
all’interno».
Passando per
l'atrio e un corridoio riccamente arredato con armi e stemmi,
raggiunsero la sala da pranzo. Varcata la soglia, Amrothos
soffocò una risata. «Comandante,
così
mi fate sentire mancante. Nel vostro invito avevate omesso la
necessità di portare un binocolo». La
tavolata
eccezionalmente lunga che troneggiava al centro della sala era stata
apparecchiata in maniera peculiare: due posti a un capo del tavolo, un
posto all’estremità opposta. In mezzo, svariati
metri.
«Mi era
stato detto che sarebbe stato sufficiente che la dama di compagnia
rimanesse nel nostro stesso ambiente», il
Comandante
commentò inespressivo.
Lothíriel
e il fratello si scambiarono una rapida occhiata. Vide Amrothos
inspirare lentamente, il sorriso di cortesia ancora innaturalmente
tirato sulle labbra. Intanto che prendeva posto sulla seduta in fondo
al tavolo, le lanciò un ultimo, eloquente sguardo, muta
richiesta di non trattenersi troppo lungamente.
Sentì
una mano alla base della schiena, «Di
qua,
Principessa». La voce del Comandante
suonò sopra
al suo orecchio,
«Sedetevi».
D
opo quella che sospettava
essere la terza portata – l’incessante turbinio di
salse, intingoli e contorni aveva reso difficile tenere il conto delle
portate – Lothíriel iniziò a chiedersi
quando si sarebbe potuta sottrarre allo sguardo esaminatore del
Comandante. I suoi occhi vigili l’abbandonavano solo il tempo
di inforcare il suo prossimo boccone. E trovava la sua aura soffocante.
Sicuro, autoritario, dominante. Le tornava continuamente alla mente il
maggiore dei suoi fratelli, con cui il Comandante condivideva non solo
il portamento, ma anche una decennale amicizia. Non poteva
però negare che l’uomo fosse un naturale oratore,
a modo, cordiale, abile nel mantenere viva la conversazione
indipendentemente dalle inclinazione del proprio interlocutore. Che, in
questo caso, erano pressoché nulle.
«Concedetemi
di dirvelo, Principessa. Vi trovo molto gradevole»,
la
noncuranza con cui quelle parole avevano lasciato la bocca
dell’uomo la spiazzarono.
«Co-come?».
«Il
vostro aspetto», chiarì senza
smettere di tagliare
il suo filetto di pesce spada, «Siete
molto gradevole agli
occhi. E c’è un certo candore in voi che trovo
apprezzabile».
«Grazie»,
la voce di Lothíriel perse gradualmente di convinzione. Non
era più nemmeno sicura di come si rispondesse a un
complimento. Limitarsi a ringraziare sarebbe stato sufficiente? Si
stava aspettando altro da lei il Comandante? Sapeva che Elphir si
sarebbe già da tempo spazientito di fronte alle sue risposte
inadeguate.
Il Comandante
chinò la testa di lato, studiandole l’espressione.
«Vi ho forse
offeso lodando il vostro aspetto?».
«Oh no,
mio signore. No davvero». Gli occhi grigi del
Comandante non
l’abbandonavano. Si sforzò di approfondire la
risposta.
«No-non sapevo bene cosa dire».
«Principessa, frequento
il Palazzo da anni. Sono a conoscenza delle… difficoltà
che esibite», la gola di
Lothíriel si strinse, «Vorrei
assicurarvi che non
mi aspetto ora, né mai lo farò, che voi siate
versata nell’arte del conversare. È una aspetto
che non ha peso ai miei occhi. Tanto più in una
donna».
La ragazza
deglutì e si impose di far uscire le parole senza
tentennamenti. «Pertanto,
cosa direste che vi aspettate da
me?».
«Se mi
state chiedendo cosa mi aspetto da una moglie… Ubbidienza.
Lealtà». Si portò la
forchetta alla
bocca e masticò con indolenza il suo boccone. Aveva
assottigliato lo sguardo, come se stesse soppesando qualcosa.
«Se invece mi
state chiedendo cosa mi aspetto da
voi», proseguì lentamente, «il prestigio
derivato da uno sposalizio con la figlia del Principe lo
reputerò più che sufficiente».
Lothíriel
non fu certa di essere riuscita a controllare la propria espressione.
Strinse inavvertitamente la presa attorno alle posate. «Siete
stato alquanto… di-diretto, mio signore».
«Non
ditemi che il parlare onesto vi intimorisce».
«Non
è la vostra onestà che mi spaventa. Piuttosto, le
vostre intenzioni». Seguì
un istante di silenzio. Nonostante fosse riuscita a pronunciare quelle
parole senza vacillare, sentì di non avere potere sui propri
occhi. Erano incollati al bordo del piatto e non volevano sollevarsi.
Nemmeno quando il Comandante si lasciò andare a una risata
divertita.
«Elphir,
Elphir… Mi ha mentito quando mi ha assicurato che sareste
stata docile. Un’opinione, una voce, vedo che ce
l’avete. Decisamente
interessante…». Quelle parole
pronunciate con
tanta facilità le si conficcarono dritte tra le costole.
«Come
può farvi paura qualcosa che è
stato palesato, Principessa?»,
continuò,
«Credete forse
che io faccia dono della mia schiettezza a qualsiasi fanciulla della
Baia?».
«Questo
no-non mi è dato saperlo».
«Uhm…»,
un altro beffardo sbuffo dal naso, l’uomo non sembrava voler
nascondere quanto fosse intrattenuto dal loro scambio, «Se
potete prendermi in parola, vi assicuro che non è
così. Perché dunque pensate che abbia scelto di
essere franco con voi?».
«In
tutta verità, non saprei dirlo».
«Tuttavia
è semplice. Voi diverrete mia moglie,
Principessa». Lothíriel
trovò il
coraggio di sollevare gli occhi in quelli dell’uomo, che
sostenne con innata calma il suo sguardo. Le rivolse persino un
sorriso. «Per
questo ho voluto fare una gentilezza a me
stesso, e a voi, e risparmiarci frivole recite. Non ho alcuna
intenzione di versare miele nelle orecchie della mia promessa sposa.
Nelle vostre di orecchie. Che beneficio ne avremmo
ricavato?». Benefici, prestigio, guadagno.
Sentir parlare del
suo matrimonio in termini economici, politici le stava facendo
contorcere lo stomaco. «Ma
leggo sul vostro volto del
disdegno, Principessa».
«Vi
stupisce che io mi possa sentire insultata dalle vostre
parole?».
«In
realtà no. Suppongo sia la più prevedibile delle
reazioni. Ma vi ho conosciuto attraverso le parole di vostro fratello e
vostro padre, e so per certo che l’acume non vi manca.
L’insulto si trasformerà in lusinga, se
pondererete sufficientemente a lungo le mie parole. Quanti uomini
portano le loro intenzioni cucite sul petto?».
«Vi
ripeto, Comandante, non è la vostra onestà a
intimorirmi ma le vostre intenzioni».
«Quanti
corteggiatori avete avuto fino ad ora, vostro padre ve lo ha mai
riferito?». La brusca virata della discussione
la
lasciò interdetta. L’uomo la incalzò,
«Assecondatemi,
vi prego. Conoscete il numero degli uomini
che hanno chiesto fin’ora la vostra mano? Inclusi quelli che
sono stati preventivamente dissuasi da vostro fratello,
inteso».
«Io
non… Io non saprei indicarvi un numero».
«Diciassette.
E sto volutamente escludendo quelli che hanno avvicinato vostro padre
prima ancora che foste in età da marito»,
l’uomo accennò a una smorfia di disgusto prima di
prendere un sorso dal proprio calice. Per tutto il tempo aveva
placidamente continuato a pranzare, masticando al contempo il cibo e le
emozioni del suo interlocutore. «Ditemi
ora, quanti di questi
nobili rampolli provenienti da dentro e fuori il Dor-en-Ernil credete
non abbiano mai considerato il vostro titolo, la vostra
posizione?».
«Non ho
modo di saperlo».
«Ma
potete supporlo. Fate un’ipotesi, dite un numero. Dieci?
Otto, forse? Suona plausibile che metà dei vostri
corteggiatori possa non aver mai pensato al vostro titolo? Cinque?
Quattr-».
«Suppongo…»,
lo fermò nella speranza che le pulsazioni che sentiva nelle
orecchie si placassero, «Suppongo
che tutti loro abbiamo
tenuto conto in qualche misura dei privilegi che avrebbero
acquisito».
L’uomo
le sorrise nuovamente. Tronfio. «Ora,
Principessa, ditemi un
altro numero. Il numero di uomini che credete avrebbero palesato a voi
le loro intenzioni».
«Ho
inteso il vostro ragionamento, Comandante. Ciò non toglie
che… che…», una mano di
Lothíriel andò inconsapevolmente a premersi
contro lo stomaco. Respirare stava diventando difficile. «Il
fatto che i sentimenti non ricoprano alcun ruolo nel vostro piano
è… è per me… Mi-mi
disturba».
Il Comandante
sembrò per la prima volta preso in contropiede.
«Sentimenti…»,
saggiò
lentamente quella parola, facendola scivolare sulla lingua.
«Principessa, voi mi amate?».
L’ennesima
virata della conversazione le fece girare la testa. «Io-io
nemmeno vi conosco…».
«Non
sarebbe dunque insensato se vi stessi confessando il mio amore?
Eppure…», piegò il collo
di lato,
«È forse questo ciò che vi
manca?».
«No…»,
esalò la ragazza.
«Dichiarazioni,
sonetti? Può darsi che io abbia commesso questo errore?
Avrei realmente dovuto prediligere il miele?»
«Trovate
così irrisorio aspettarsi di essere considerata
più di… di prestigio
impacchettato in una forma
gradevole ai vostri occhi?».
«Io non
escludo i sentimenti, Principessa», la voce del
Comandante
era tornata asciutta e incolore.
«È auspicabile
che, negli anni, i sentimenti giungano. Ma non ho intenzione di
fabbricarli per compiacervi. Non sarebbe una scelta
efficiente». I suoi occhi caddero sul piatto
della
Principessa, abbandonato da tempo.
«Non mangiate
più? Vi faccio portare un piatto che non sia freddo, se lo
gradite».
«No.
Cre-credo… Non ho più appetito».
Prese
a stirarsi le pieghe dell’abito in grembo, eludendo al suo
sguardo.
«In tal
caso, siete libera di andarvene, Principessa».
«Co-come?»,
la voce la stava abbandonando del tutto.
«Credevate
forse di essere mia prigioniera? Vi garantisco che la mia tenuta non ha
sotterranei e, se li avesse, non vi trovereste le persone che invito a
pranzare con me. Sarebbe con ogni probabilità occupata da
metà del Consiglio di vostro padre»,
le rivolse un
mezzo sorriso.
Lothíriel
rimase per l’ennesima volta interdetta. I continui
cambiamenti di tono dell’uomo, le sue indigeribili parole, i
suoi freddi ragionamenti, i suoi sorrisi.
L’unico aspetto prevedibile del Comandante era la sua
imprevedibilità. «Non
voglio mancarvi di rispetto.
Non lascerò la tavola che avete imbastito per me».
«Davvero
non mangerete più?», il suo tono era
ora
premuroso. Premuroso? Le tempie della ragazza presero a pulsare,
preannunciando un terribile mal di testa. «Ho fatto preparare
la cotognata*¹ per voi. Ve la faccio volentieri portare, se
preferireste passare direttamente a quella».
Il suo dolce
preferito. Qualcos’altro che non era stata lei a confidargli.
«No…
Vi ringrazio, Comandante».
«Allora
avete il mio permesso, abbandonate liberamente la tavola. Spogliamoci
di inutili sensi di colpa o del dovere. Siamo
convenuti che sarà l’onestà a guidare i
nostri scambi». Il Comandante si era alzato e si
era portato
dietro la Principessa, pronto a spostarle la sedia.
«A
questo, siamo convenuti?», domandò
confusa mentre
si alzava in piedi. Accettò titubante il braccio che le
veniva offerto.
«È
la mia speranza. Io sono stato l’iniziatore, è
vero, tuttavia ho fiducia che vi convertirete alle mie vie. Vi chiedo
di esaminarvi, Principessa, ve ne darò il tempo»,
le parlò intanto che attraversavano la sala da pranzo.
«Esaminate
ciò che vi ha infastidito delle mie
parole. Ponetevi attenzione. Credo che, infine, riterrete la
verità essere una fondazione più solida del
miele. Ora andate, non mi cruccerò di essere stato lasciato
prima del tempo. La biblioteca, ve lo prometto, ve la farò
visitare al nostro prossimo incontro». Avevano
raggiunto
Amrothos, che era entusiasticamente saltato su dalla sua sedia al loro
primo segnale di movimento.
«Non vi
ho mai chiesto di visitare la biblioteca».
Lothíriel corrugò la fronte.
«È
così? Devo essermi sbagliato».
«Il tempo di
un’altra portata e avrei
ultimato la mia fionda», Amrothos
spezzò il
gravoso silenzio che li stava accompagnando da quando si erano lasciati
alle spalle la Tenuta del Giglio.
«Cosa
hai detto?», Lothíriel riemerse dai
turbinosi
pensieri.
«Una
fionda. La stavo costruendo con le posate, ma ammetto di essere stato
messo in difficoltà dal laccio. Mi stavo avvicinando,
però. Avrei trovato presto una soluzione».
Lothíriel
lo guardò confusa. «Una…
una fionda di
posate. A cosa ti sarebbe servita una fionda di posate?».
«Per
lanciarvi del cibo, naturalmente. O lanciarlo alle vetrate, non ne sono
certo. Non ero arrivato a quel punto del piano».
La Principessa
accennò un sorriso in direzione del fratello. Sapeva cosa
stava cercando di fare e avrebbe parlato con lui. Eventualmente. Non
appena fosse riuscita a dare ordine ai suoi stessi pensieri.
Uno scalpitio di
zoccoli li fece voltare. Due cavalieri li superarono al
galoppo, risalendo la via che conduceva al Palazzo. Montavano magnifici
destrieri dalle verdi bardature e sui loro alti stendardi sventolava il
Cavallo Bianco di Rohan. Poco dietro di loro, un cavallo dal lucente
manto morello li seguiva al trotto. Non era sellato e non portava
nemmeno le redini, ma rispondeva con straordinaria ubbidienza ai
segnali dei due uomini. Si arrestarono di fronte all’entrata,
dove smontarono di sella; due guardie stavano già andando
loro incontro.
Lothíriel
e il fratello spronarono i cavalli senza bisogno di accordarsi. Non
appena ebbero raggiunto gli ospiti, si rivolse ad Amrothos una delle
guardie di Palazzo. «Principe»,
s’inchinò, «Messaggeri
provenienti da
Rohan sono giunti in questo momento».
«Lo
vedo, Damegond, ti ringrazio. Vi do il benvenuto a Dol Amroth, signori.
Il Principe Imrahil è al momento impegnato con il Consiglio,
potrete riferirgli il vostro messaggio dopo esservi rifocillati. Se
l’urgenza del vostro messaggio lo richiede,
affretterò l’incontro».
I due rohirrim
s’inchinarono in segno di saluto e uno dei due fece un passo
avanti. «I
nostri nomi sono Eòghann e Cadeyrn,
viaggiamo sotto lo stendardo del Mark. Vi ringraziamo per il vostro
benvenuto e l’ospitalità. Cerchiamo tuttavia la
Principessa Lothíriel, il nostro messaggio è
destinato a lei».
Il volto di
Amrothos non nascose il suo stupore. «Presto
detto», prese per mano la sorella che stava
assistendo in
disparte di qualche passo, e la presentò. «Questa
è Dama Lothíriel, Principessa di Dol
Amroth».
I due cavalieri si
scambiarono una rapidissima occhiata d’intesa che la ragazza
non avrebbe saputo interpretare e s’inchinarono nuovamente in
segno di saluto. Lothíriel sbatté le palpebre un
paio di volte prima di ricordarsi delle buone maniere.
«Be-benvenuti, Eòghann e Cadeyrn di Rohan.
Entrate,
vi prego. Consumate un pasto caldo. Mando a chiamare qualcuno che si
faccia carico dei vostri cavalli».
«Mia
signora, siamo costretti a rifiutare l’invito. Siamo entrambi
impazienti di ricongiungerci al nostro Re e al suo esercito in marcia
verso il Lebennin». Con la coda
dell’occhio,
Lothíriel vide il fratello muoversi nervoso.
Comprensibilmente nervoso. Di eserciti e di guerra nessuno aveva mai
proferito parola davanti a lei.
«Non vorremmo intrattenerci
più del dovuto», gli occhi della
ragazza scesero
sulle spade che portavano appese alle cinture. Erano indubbiamente
soldati oltre che messaggeri.
«Del resto non vi ruberemo
troppo tempo. Per voi abbiamo un dono».
«Un-un
dono, mio signore?», Lothíriel si
chiese se fosse
stato il loro forte accento ad aver deformato quel termine.
«Ho inteso
bene?».
«Sì,
Principessa. Portiamo il dono del nostro Re, una gemma del
Mark», così dicendo si
scostò di lato,
facendo schioccare due volte la lingua. Il cavallo che non indossava i
finimenti rispose al richiamo e si avvicinò fino ad
arrestarsi con il muso all’altezza della spalla
dell’uomo. «Il
nome di questa giumenta è
Gléodis, è nel suo settimo anno di età
e ha terminato la formazione alla monta. Ed è
vostra».
Uno sbuffo
divertito sfuggì dalle labbra della ragazza, che si
portò le mani alla bocca non appena il suo cervello ebbe
registrato quello che aveva fatto. «Non-non
rido di voi,
signori. Perdonatemi», si affrettò a
chiarire,
mortificata, «Sono
solo… Confusa. Credo».
«Avvicinatevi,
toccatela», la invitò il messaggero.
«È
nata nelle Scuderie Reali di Edoras, discende
da una delle razze superiori, imparentate con i mearas. Il Re
solitamente onora i propri Marescialli o gli Ufficiali particolarmente
meritevoli con un regalo sì prezioso»,
le
spiegò mentre la ragazza avvicinava cautamente una mano al
muso dell’animale. Era innegabilmente il cavallo
più bello che avesse mai visto. Non era paragonabile ai
destrieri della Scuderia di suo padre. Il manto lucido, la muscolatura
possente e tesa, gli occhi vispi. Quel cavallo era semplicemente
magnifico.
Lothíriel
ritrasse riluttante la mano con un’ultima, lentissima carezza
alla testa montanina dell’animale. «Io…
Io non posso accettarlo. È un dono immeritato».
«Principessa,
con tutto il rispetto, chiunque si fosse sentito degno di ricevere un
dono simile sarebbe dovuto passare sopra la brace del capretto prima di
averlo».
La ragazza
fissò interdetta il messaggero che aveva parlato.
«Il-il…
capretto… dite?», non
aveva idea di cosa avesse appena sentito.
Gli uomini di
Rohan erano passati a sellare Gléodis con i finimenti che
fino ad allora avevano trasportato sulle loro cavalcature.
«Accettate a
cuor leggero questo dono, mia signora, di cui
peraltro avete intuito il valore. Saprete trattarlo di
conseguenza», uno dei due aveva finito di
imbrigliare il
cavallo. La bardatura era differente da quelle a cui
Lothíriel era abituata; meno appariscente, senza insegne
né stemmi. La mano degli artigiani del Mark visibile nella
linea perfettamente ponderata della sella e nel particolare intreccio
delle briglie doppie. I cavalieri continuarono ad assicurare le cinghie
del sottopancia senza curarsi più di tanto delle proteste
della giovane, che, non sapendo come comportarsi, cercò
disperatamente con lo sguardo l’appoggio di Amrothos.
Quest’ultimo si strinse semplicemente nelle spalle.
«Principessa,
in tutta coscienza non posso permettervi di rifiutare un purosangue di
Rohan senza prima avervene fatto saggiare
l’andatura», così dicendo,
Eòghann l’aveva afferrata per i fianchi e fatta
salire in groppa al cavallo.
La ragazza si
passò il dorso di una mano sulle guance che andavano
scaldandosi. A quell’improvviso contatto era a stento
riuscita a trattenere in gola un gridolino. Nessuno
all’infuori della sua famiglia l’aveva mai toccata
in quel modo, per di più con la naturalezza
dell’uomo che ora stava pronunciando incomprensibili parole
rivolte al cavallo su cui era stata posta. A quel comando,
Gléodis scrollò il collo e balzò in
avanti.
Ci volle qualche
secondo prima che riuscisse a prendere in mano le redini, ma le
andature non avevano bisogno di essere
riassestate. Percorse a ritroso il selciato che portava al Palazzo e, a
tratti, le sembrò che gli zoccoli non toccassero terra, tale
era la sensazione di leggerezza che il portamento
dell’animale trasmetteva. Non resistette
all’impulso di spronarla. Immediatamente i suoi muscoli
tonici si tesero e gonfiarono e la sua testa iniziò la sua
danza. Lasciò i giardini della Residenza e volò
giù per la via principale, scansando gli ignari cittadini
con impressionante grazia. La prima piazza, la seconda, poi
la terza. Si trovò alle mura inferiori nel tempo di un paio
di battiti. Il suo cuore non faceva però fede, stava
attivamente cercando di uscirle fuori dal petto.
«Principessa…
Siete voi?», una volta che si era
arrestata sotto le mura, sentì una voce
maschile chiamarla
dall’alto
«Ohtar!
Abbiamo una buona giornata oggi, nevvero?»,
rispose raggiante
all'anziano guardiano dei Cancelli che la stava guardando moderatamente
sconcertato.
«Sì,
è… È così,
sì».
«Oh
no». Lothíriel cercò con
lo sguardo la
fonte della seconda voce familiare. Eccola, Thïria,
all’uscita di una delle botteghe della cittadina bassa. Un
cesto rovesciato ai suoi piedi. Gli occhi sgranati, fissi sul suo
gigantesco animale morello. «No-no-no-no-no-NO!».
«Oh-oh»,
l’espressione della sua dama di compagnia non era delle
migliori. «Devo
andare, Ohtar! Buon lavoro!»,
diede con i polpacci la guida al cavallo, che schizzò in
avanti. Con l’adrenalina che ancora le scorreva in tutto il
corpo, risalì la via centrale dovendo a malapena condurre
l’animale. In un attimo stava nuovamente percorrendo i
sentieri bianchi che ritmavano i giardini del Palazzo. Sulla scalinata
d’ingresso si era unita al fratello una nuova figura. Le fu
facile riconoscere il padre.
«Credevo
di stare avendo una visione quando le vetrate della Residenza hanno
iniziato a tremare. Tua madre che galoppa davanti al
Palazzo», Imrahil si era accostato al figlio
minore,
«Ma vedo ora
che si tratta di… Iriel.
Dimmi, perché mia figlia è in sella al
più
grande destriero della Baia, Amrothos? Cosa sta succedendo?».
Amrothos si
grattò la nuca. «Messaggeri
da Rohan, padre. Hanno
portato un destriero in dono a Iriel. Da parte del loro Re,
pare».
«Éomer?
Re Éomer…?», i solchi
sulla nobile
fronte del Principe si fecero più profondi,
«Questo non ha
alcun senso».
Lothíriel
aveva fermato l’animale di fronte ai gradini della Residenza
e smontato di sella gettandosi praticamente tra le braccia del padre,
che l’aveva prontamente afferrata. «Questo cavallo,
padre, questo cavallo! Ha il completo controllo di ogni suo muscolo,
dico il vero. Io non ho mai, mai
visto un cavallo così nelle
tue Scuderie. Modifica la traiettoria con una precisione
tale… E anche ad alte andature non perde in morbidezza,
e… e-». Suo padre si
schiarì la gola,
interrompendo il fiume di entusiasmate parole con cui
Lothíriel lo aveva investito. La ragazza riprese fiato,
tornando ai propri sensi. Si voltò verso i messaggeri di
Rohan; esposti sui loro volti, due grandi sorrisi compiaciuti.
«Oh, io con
questo non volevo dire che accetterò
il regalo, sapete io non posso… Non…
Posso…?»,
guardò il padre da sotto le
lunghe ciglia,
«Non è così…
padre? Io non…».
«Non
puoi», Imrahil confermò.
«Non
posso accettarlo, mi dispiace»,
Lothíriel concluse
rivolgendo loro un veloce sorriso,
«Vi-vi prego comunque di
rifocillarvi, se la fretta ve lo permette. Avete affrontato una
settimana di viaggio per venire qui, non ripartite senza aver
riposato».
Eòghann
e Cadeyrn si scambiarono uno sguardo, e fu quest’ultimo ad
iniziare a parlare.
«Lungi da noi cercare di forzarvi
ulteriormente la mano, Principessa. Ma secondo le leggi del nostro
popolo, se ci allontanassimo ora con Gléodis, verremo
accusati di furto».
«Oh»,
Lothíriel lanciò un’occhiata al padre.
«Furto…»,
ripeté
sommessamente.
«Furto,
padre», Amrothos sottolineò in un
sussurro.
Imrahil inspirò lentamente.
«Altresì,
se deciderete di rigettare il dono del Re»,
proseguì Cadeyrn, «Quale messaggio
desiderate che io riferisca al mio signore?».
«Umh... Rigettare
il dono…», Amrothos esalò
sottovoce
mentre si stiracchiava la schiena.
Il padre
espirò rumorosamente, massaggiandosi ad occhi chiusi la ruga
in mezzo alle sopracciglia. Quando li riaprì e
guardò la figlia, il cuore di Lothíriel
esultò facendo capriole sul suo stomaco. L’uomo
aveva un’espressione tormentata, a metà tra il
rimprovero e la resa. «Iriel…»,
iniziò minaccioso.
«Padre».
Imrahil
sospirò.
«Accompagnata. Sarai sempre accompagnata
quando uscirai a cavallo. Sempre.
Dentro e fuori dalle mura. Mi hai
inteso?».
La figlia si
limitò ad annuire con forza ad ogni frase. Aveva paura
di parlare, timorosa di spezzare quel momento.
Lo sguardo di suo
padre tornò morbido, le sue spalle si rilassarono.
«Re
Éomer», si rivolse ai due uomini di
Rohan, «Vi ha
forse spiegato il motivo di questo dono
inaspettato? Non me ne aveva fatto parola quando sono stato suo ospite,
meno di un mese fa».
«Gléodis
è accompagnata da un messaggio per la Principessa. Ho il
vostro permesso di riferirlo pubblicamente?».
«Certamente»,
acconsentì la ragazza.
I due messaggeri
temporeggiarono, guadagnandosi qualche istante. Nessuno dei due dava
l’impressione di bruciare di desiderio di trasmettere il
messaggio. Cadeyrn perse la muta battaglia di occhiate e si
schiarì la gola. «Messaggio
di Re Éomer
a Dama Lothíriel: Un gioiello del Mark per il gioiello del
Sud. Un dono propiziatorio per il nostro primo, anticipato
incontro».
Nemmeno con due
settimane di allenamento, Lothíriel, Amrothos e Imrahil
sarebbero riusciti a piegare la testa di lato con
l’impeccabile sincronia che avevano appena esibito.
«Come?».
208 miglia a nord
É
omer torse il
collo e strinse gli occhi, premendosi insistentemente un palmo contro
l’orecchio. Un improvviso, fastidioso ronzio aveva preso a
tormentarlo da qualche minuto. Sotto di lui, Zoccofuoco
scrollò di riflesso il possente collo.
«Cosa
succede, Éomer?». Brandwine aveva
affiancato il
cavallo al suo.
«Un-un
ronzio», grugnì scuotendo la testa.
«È dannatamente persistente».
Tra lo scalpitio
degli zoccoli, sentì la risata malamente trattenuta
dell’amico. Aprì un occhio per fulminarlo,
«Ti
diverte?».
Brandwine sorrise,
del tutto impenitente, «Ti
fischiano le orecchie. Qualcuno
deve starti pensando, non credi?».
Note dell’autrice
• Ho optato per l’intramontabile classico dei fischi
nelle orecchie. Spero mi perdonerete il cliché. Alla
prossima!
*¹ Cotognata,
dessert a base di
mele cotogne diffuso in Europa a partire dal Seicento. Si tratta di una
marmellata lasciata essiccare e solidificare; servita solitamente a
cubetti.
• Stato di
famiglia – Visto il mio sconsiderato uso
di appellativi ufficiali e ufficiosi, ho pensato di lasciarvi un breve
riepilogo dei personaggi secondari che animano la famiglia di
Lothíriel
(20).
Oltre ad Imrahil
(64), attuale Principe di Dol Amroth, saranno
ricorrenti i suoi tre figli: Elphir
(32), Primogenito o Erede;
Erchion
(29), Secondogenito; Amrothos
(25), Terzogenito. Alphros (2), figlio
di Elphir, è già nato
nell’anno in cui è ambientata la storia anche se,
unitamente alla madre, comparirà marginalmente. Erchion e
Amrothos sono da considerarsi celibi. La
zia Ivriniel
(72) è viva e arzilla, e sono quasi certa
che si stia godendo la vita in qualche tenuta costiera, totalmente e
beatamente ignara delle vicissitudini dei suoi nipoti. La
presenza della madre
di Lothíriel avrebbe ulteriormente
appesantito le dinamiche relazionali. Per tanto, il sole
è caldo, l’acqua è bagnata e la madre
di Lothíriel è morta di parto. Non
avrà ricevuto un nome, ma in compenso offrirà un
ottimo retroscena emotivo ai restanti personaggi. Ah,
dimenticavo il cugino Faramir
(36). C’è, ma
è come se non ci fosse. Sapete, Éowyn,
l’Ithilien, l’amore.
Razaghena
Riassunto Capitolo 4 Lothíriel
si reca alla tenuta del
Comandante Sîrfalas per il pranzo. L’uomo palesa le
sue intenzioni e propone alla Principessa di considerare un matrimonio
di convenienza basato sulla brutale onestà, seppur svuotato
dell’amore. Rientrata a Palazzo l’attendono due
messaggeri provenienti da Rohan; le consegnano Gléodis come
dono da parte di Re Éomer, assicurando il disorientamento
generale di tutti i presenti.
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