A
passo lento, Ryoma si avvicinò alla casa di Hyuuga.
Per
alcuni istanti, l’Hachibushu rimase immobile, indeciso, la mano
destra sollevata verso l’alto. Erano trascorsi sei mesi dalla
morte dei genitori di Hyuga e lui, dilaniato dal dolore, si era
rinchiuso in un silenzio doloroso.
Non
permetteva a nessuno di avvicinarsi a lui.
Nemmeno
a Laksu consentiva di donargli conforto.
Perché?
Cosa ti spinge a un simile comportamento?,
si chiedeva, perplesso. Certo, perdere i propri genitori era
terribile, ma Hyuga non si abbandonava alla disperazione con tanta
facilità.
Il
suo carattere volitivo e risoluto lo spingeva a reagire a qualsiasi
sventura.
In
quel momento, sembrava una foglia trascinata dal vento.
Quale
amarezza stringeva il suo cuore e gli impediva di accettare l’aiuto
dei suoi amici?
Scosse
la testa, strinse la mano e bussò. Non avrebbe ottenuto nulla
con le sue esitazioni.
Anzi,
non conosceva la ragione del comportamento del suo compagno.
E
così non lo avrebbe aiutato.
Per
alcuni istanti, il picchiettio delle dita di Ryoma echeggiò
nel silenzio.
Il
giovane corrugò la fronte, preoccupato. Quel tempo di attesa
gli pareva eterno e aumentava la sua angoscia.
Cosa
era successo a Hyuga?
A
tanto era arrivato il suo stato di prostrazione e sofferenza?
Il
dolore lo rendeva estraneo al mondo che lo circondava?
Il
rumore di una porta che si apriva ruppe il corso dei suoi pensieri e,
di scatto, il giovane fece un balzo all’indietro.
– Ti
spaventi per così poco, Ryoma? – domandò la voce
di Hyuga, velata d’amara ironia.
L’Hachibushu
del Drago fissò lo sguardo sul compagno, che era fermo sulla
soglia della porta.
Sbarrò
gli occhi, sorpreso. Quasi non riconosceva più il suo fraterno
amico.
Il
suo corpo magro era avvolto in una veste da camera azzurra, ormai
troppo grande, e i suoi occhi cerulei erano gonfi e rossi di pianto,
mentre il suo viso era velato di un debole accenno di barba.
Cosa
ti è successo, Hyuga?, si
chiese Ryoma, il cuore stretto in una morsa d’acciaio. Renge e
Reiga gli avevano parlato del suo stato di prostrazione, ma lui aveva
creduto che stessero esagerando a
causa della preoccupazione.
Sciocco.
Pur nutrendo per Hyuga un
affetto fraterno, non aveva compreso la realtà della
situazione.
L’Hachibushu
della Tigre era ferito e tentava di curare se stesso da solo, pur di
non angustiare gli altri.
La
sua indole gentile e limpida non era mutata.
Ma
le ferite della sua anima, prive di adeguato medicamento, non
guarivano e si ulceravano sempre più.
– Posso
entrare? – chiese l’Hachibushu del Drago, cauto.
Con
un breve cenno della testa, Hyuga annuì e lo guidò
all’interno dell’abitazione.
Percorsero
alcuni metri, poi entrarono in un’ampia stanza di forma
quadrata, immersa nell’oscurità, rischiarata dal debole
chiarore di alcune candele.
– Desideri
qualcosa? – chiese Hyuga, gentile.
– No,
non preoccuparti. Voglio solo stare con te. Come un tempo. –
replicò Ryoma.
La
luce di una candela, per alcuni istanti, si proiettò sul viso
magro dell’altro guerriero, su cui era apparso il lampo di un
sorriso amaro.
– Come
un tempo… Ormai, nulla potrà essere più come un
tempo, per me. – mormorò, lugubre.
Un
brivido di gelo dilaniò la schiena del guerriero più
anziano. La conferma delle tristi parole di Reiga e Renge era per lui
dolorosa.
E
innestava nel suo cuore un forte senso di colpa.
L’amore
per Matsuri lo aveva travolto d’ebbrezza e gli aveva impedito
di vedere oltre.
Con
passo deciso, si avvicinò a Hyuga e lo strinse in un forte
abbraccio. Non era più il tempo delle parole.
Hyuga
aveva bisogno di un forte segno di vicinanza.
Doveva
rimediare a quel suo errore così grossolano.
– Allontanati,
ti prego… Non puoi volermi bene, dopo quello che è
successo ai miei genitori… Io li ho lasciati morire… –
mormorò
il guerriero del Ghiaccio, turbato da quel tocco. Quando era tornato
alla sua famiglia, aveva trovato i corpi dei suoi genitori morti,
dilaniati dagli attacchi dei demoni Ashura.
Un
contadino sopravvissuto, gli occhi lucidi di lacrime, gli aveva
raccontato gli ultimi istanti delle loro vite.
Prima
di morire, essi avevano evocato il nome del loro figlio, che non era
intervenuto.
E
tale racconto aveva distrutto il suo cuore.
Un
lampo attraversò la mente di Ryoma. Finalmente, aveva compreso
la ragione della disperazione di Hyuga.
Le
sue parole, colme di un pianto a stento frenato, gli avevano rivelato
la realtà della situazione.
Durante
la battaglia contro Shiva, Hyuga aveva perduto i genitori e si
riteneva colpevole della sua morte.
Sapeva
di non avere avuto altra scelta, ma tale coscienza non leniva la sua
pena e il suo cuore si condannava ad un rimorso crudele.
Le
sue dita, leggere, si posarono sui capelli castani dell’altro
in una tenue carezza.
Lunghi
tremiti scossero Hyuga e le sue mani, d’istinto, si strinsero
attorno alla maglia di Ryoma. Quel tocco, così affettuoso e
premuroso, incrinava le sue difese e il suo autocontrollo.
Doveva
scacciare quel desiderio, ne era cosciente, ma avvertiva un forte
desiderio di lasciarsi andare a quel calore.
Il
suo cuore egoista bramava un appoggio solido e concreto a quella pena
dilaniante.
– Non
avere paura. – gli disse, gentile, il guerriero del Drago.
Per
alcuni istanti, il giovane tacque e rimase inerte tra le braccia
dell’amico.
– Mi
mancano… Mi mancano così tanto… Avrei dovuto
essere con loro … Un figlio non può abbandonare i suoi
genitori… Il
senso di colpa mi uccide… Forse, non dovrei tornare più
al Tenkuukai...
– balbettò, il
tono riverberante di pena.
Poi,
con un debole gemito, si abbandonò al pianto.
Qualche
minuto dopo, Hyuga si afflosciò tra le braccia del compagno,
quasi privo di sensi.
D’istinto,
Ryoma lo sostenne, cingendogli la vita col braccio e gli impedì
di cadere.
Sentendo
quel tocco, il giovane guerriero della Tigre sollevò la testa
e fissò i suoi occhi d’acquamarina in quelli zaffiro
dell’altro.
– Ti
prego… Almeno per oggi, resta con me. Ho bisogno di qualcuno
che mi stia accanto. Sono stanco della solitudine
e
mi sembra di impazzire.
– confessò,
il tono pieno di pudore.
Un
breve sorriso sollevò le labbra di Ryoma e la sua mano
accarezzò la guancia di Hyuga.
– Stai
tranquillo. Rimarrò con te. –
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