La prigione di sonno - The prison of slumber

di LawrenceTwosomeTime
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Corsie dipinte di un lezioso rosa confetto. Una lunga moquette ornata con motivi geometrici dai colori sparati. Seggiole in plastica verde. C’era tutto.
Tutto quello che occorreva per provocare una crisi di vomito ad eventuali pazienti.
Marla rabbrividì. Il suo ospedale, in confronto, era un luogo pacifico e confortevole.
“Mi mancava questo carpet,” disse Tara “ti fa sentire come il piccolo Daniel Torrance mentre se ne va in giro sul suo triciclo all’Overlook Hotel.”
Il passaggio alle loro spalle si chiuse con un tonfo che le fece sobbalzare. Si voltarono. Era una porta tagliafuoco.
“Quindi ci troviamo nel tuo ospedale?” domandò Marla.
L’altra fece schioccare la lingua.
“Tu non sai quanti ricordi… flashback della mia seconda vita.”
Marla pensò che parlare di seconda vita fosse un tantino esagerato, dato che i visitatori di quell’area transitoria erano destinati a rimanervi per un tempo relativamente breve, ma lo tenne per sé.
Si accostò a uno dei quadretti che riempivano gli spazi vuoti tra un ufficio e l’altro.
Era orribile, come la totalità dei suoi cugini: campiture violette e arancioni si sovrapponevano a formare un insieme stonato e disarmonico che tracimava dalla tela, quasi a voler implicare che qualcuno, in condizioni normali, avrebbe potuto desiderare di esaminarlo dappresso.
Lesse la didascalia stampata sulla targhetta.
Stazione del Purgatorio, Amilcare Benvenuti… probabilmente opera di un ospite del reparto psichiatrico.”
“Solo perché quelli soffrono di depressione e disturbo ossessivo-compulsivo, non è una buona ragione per farli venire anche a noi” commentò Tara.
“Muoviamoci” aggiunse.
 
Con una sicurezza a dir poco sorprendente, l’amica prese a guidarla lungo i tortuosi dedali dell’ospedale, riservando poca o nessuna attenzione ai nomi dei reparti, che – una volta osservati a distanza ravvicinata – risultavano sempre sbiaditi. Lì dentro sembrava regnare la desolazione più totale, esattamente come nel posto in cui si era svegliata lei.
Quando ebbero oltrepassato una doppia porta dall’aria importante, la ragazza decise di dar voce ai propri dubbi.
“Tara, come puoi…”
“Sapere dove diavolo vado?” concluse l’altra, e si fermò.
Nel suo sguardo c’era un’esitazione che sconfinava nel pudore, il quieto conflitto di chi è indeciso se omettere alcuni dettagli o aprirsi completamente. Ma durò poco.
“Dopo il mio arrivo, sono rimasta qui a lungo. Molto a lungo.”
“…non riuscivi a trovare l’uscita?” azzardò Marla.
“Certo che ci sono riuscita! O meglio… all’inizio no, ma all’epoca non importava.”
Vi furono dieci secondi di imbarazzato silenzio.
“Ero fissata con la morte,” riprese Tara “e per quel che mi riguardava, ero morta. Non avevo idea di cosa mi sarebbe capitato, se mi sarebbe capitato ancora qualcosa, e neanche ci tenevo a scoprirlo. Così ho aspettato, immobile, per un tempo che mi è sembrato interminabile. Forse sono rimasta qui per mesi. Forse anni. In attesa di sparire. In attesa del nulla.”
Marla fece per metterle una mano sulla spalla.
“Ma” riattaccò l’amica, facendola sussultare “il niente tardava ad arrivare, per quanto il concetto di ritardo suoni abbastanza ridicolo, qui… e così mi sono decisa a esplorare per bene il resto dell’ospedale. L’ho percorso avanti e indietro, in lungo e in largo, in cerca di una risposta che stava proprio sotto al mio naso. Non so perché ho lasciato per ultimo il telefono in Accettazione. Un sesto senso o una forma di masochismo, forse. Giunta nella foresta, ho trovato quello che cercavo. O meglio: non l’ho trovato, ma almeno c’era il caffè. Il resto lo sai già.”
Marla sorrise.
“Ma sì che l’hai trovato. Io sono qui per te, ricordi? Ti salverò… ti salverò da te stessa!”
Tara la guardò storto.
“Non ti salverai da quello che sto per fare.”
E poi si mise a solleticarla sotto le ascelle, così, all’improvviso. In quel posto terrificante. Senza dire una parola.
Marla rideva a crepapelle, nemmeno lei sapeva perché. Non soffriva il solletico; perlomeno, la sua coscienza in stato di coma non lo soffriva. Eppure stava ridendo. Il motivo sarebbe rimasto un mistero.
Quando si furono entrambe riprese, Tara ghignò.
“Sazia di giocare alla crocerossina?”
“Cammina, prima che ti faccia un’iniezione” ansimò Marla.
 
La camera era piccola e buia, permeata dal sentore di abbandono che infesta tutti i luoghi destinati a deperire nella sciatteria. Un tempo doveva essere stata accogliente, come testimoniavano le azalee appassite sul comodino, il buffo biglietto a cuore subito accanto e la poltroncina tappezzata con uno sbiadito motivo a pois.
“Ѐ questa?” chiese Marla.
“Ѐ questa” si limitò a dire Tara.
Fece lentamente il giro intorno al letto dalle lenzuola disfatte, passando un dito sulla trapunta.
“Quando mi sono svegliata qui, non ricordavo nulla. E tutt’ora non ricordo. Ma la sensazione di sapere… di aver sempre saputo ciò che volevo, e di non averlo ancora ottenuto… ho provato quella sensazione frustrante fin dall’inizio.”
“Devi aver ispezionato la stanza palmo a palmo” considerò Marla nel tentativo di cambiare discorso.
“Oh, sì” sussurrò Tara con un ghigno. Meditabonda, scrutava dei segni sul freddo pavimento in PVC: correvano dalle gambe del letto sino al muro, che ospitava un piccolo schermo al plasma.
Tara iniziò a spostare il letto, producendo un gran fracasso.
Frattanto mormorava in tono nevrotico: “Provai ogni possibile combinazione… prima per gioco, poi solo per vedere cosa sarebbe successo.”
“Tara?” azzardò l’amica con aria incerta.
“Accendi il televisore” disse l’altra. Marla armeggiò un momento con un piccolo telecomando, poi eseguì. Una luce biancastra illuminò la penombra.
Lo spazio sotto il letto, che fino a un attimo prima non conteneva che polvere e ragnatele, s’accese di un bagliore azzurrino. Un quadrato delle dimensioni di un pugno composto da quattro scanalature luccicanti apparve dal nulla.
“Incredibile… è come essere in un film di Indiana Jones” disse Marla.
“Dubito che funzioni così per tutti,” replicò Tara, più seria del solito “o perlomeno, voglio sperare che il trapasso non sia solo un’altra fottuta catena di montaggio. Il capitalismo ci ha già danneggiati abbastanza.”
Marla cercò di assecondare il suo ragionamento. In fin dei conti, l’esperta era Tara.
“Riguardo al perché funzioni e che cosa faccia, poi, ne so meno di zero. Può darsi che ai proprietari di questa ecto-ferrovia serva una scappatoia di qualche tipo nel caso il treno arrivi con troppo anticipo e il passeggero di turno debba fare dietrofront e ritornare al suo corpo. E chi può dirlo… forse l’impresa Defunti & Contenti non vede quello che vediamo noi; forse il nostro cervello dipinge le cose in un certo modo per razionalizzare ciò che ha davanti, dargli una parvenza di senso.”
“E poi sarei io la nerd?” scherzò Marla.
“C’è una bella differenza!” s’inalberò Tara.
“Quando sono finita quaggiù mica mi facevo tutte queste seghe mentali… almeno credo.”
“E insomma, qual è il passo successivo?”
Tara sospirò.
“Premiamo il bottone azzurro. E no, non ho idea di che succederà dopo.”
Le due donne deglutirono. Si accovacciarono sul quadratino luminescente. Vi appoggiarono sopra l’indice.
“Tre…”
“Due…”
“Uno…”
Ci fu un rumore lacerante, come un sommesso, stridulo richiamo agli ultrasuoni, e senza preavviso il pavimento iniziò a ribaltarsi.
Era come se l’impiantito fosse assicurato ad un perno centrale, un perno girevole, e un meccanismo l’avesse messo in moto, spingendolo a rovesciarsi con estrema lentezza.
Dapprima Marla e Tara ebbero paura, perché sembrava che dovessero precipitare nel vuoto, ma poi si accorsero che anche la gravità si comportava in maniera imprevista: ogni elemento presente nella stanza – loro incluse –, ogni oggetto, sino al più piccolo granello di pulviscolo, rimaneva saldamente ancorato al pavimento, quasi che il processo d’inversione non lo interessasse minimamente.
“Stiamo guardando il nostro riflesso sotto la superficie dell’acqua” bisbigliò Marla in una sorta di trance. Le sue pupille rispecchiavano il sole calante, un sole che non si trovava lì.
Tara la scrutò.
“Marla, che succede?”
“No, no… non fatemi tornare…”
Tara le diede uno scossone. La ragazza parve riacquisire il controllo di sé; sudava copiosamente, malgrado non facesse così caldo.
“Che ti è preso?” la spronò l’amica.
“Ho intravisto… qualcosa di sgradevole. Un ricordo, credo. Non sono sicura” rispose Marla, con le lacrime agli occhi.
L’impressione di trovarsi a testa in giù era svanita del tutto, nulla suonava fuori posto. In apparenza, avevano fatto tappa per lo stesso identico luogo; solo che il televisore era spento.
“Ricordo o meno, credo che tu abbia ragione” affermò Tara. Stava fissando il letto.
“Siamo finite in una rifrazione: un Mondo Specchio, chiamiamolo così. Ogni cosa è a rovescio; ogni cosa è il contrario di ciò che sembra.”
“Il contrario…?” ripeté Marla, ancora turbata.
“Prendi il letto. L’abbiamo usato per arrivare nel limbo – anche se usare non è proprio la parola adatta –, ci ha fatto da tramite per questo mondo. E ora… ora è un tramite per il mondo dei vivi.”
“Cosa intendi?” domandò l’altra.
“Tu non lo vedi?” disse Tara, sorpresa.
Sì, perché ai suoi occhi le lenzuola del Mondo Specchio emanavano un tiepido riverbero, come il nitore di una mattinata primaverile che filtra attraverso persiane accostate. La qualità di quel chiarore, sebbene discreta, era diversa; più autentica, più… reale. Il cotone ondeggiava impercettibilmente, attraversato da una leggera brezza.
Marla abbozzò un sorriso.
“Quindi l’abbiamo trovata. Abbiamo trovato l’uscita.”
Tara stava per descriverle l’immagine che aveva davanti, ma si bloccò. L’amica era giunta alla sua stessa conclusione pur rimanendo estranea a ciò che lei scorgeva.
“Ѐ naturale che io non la veda” proseguì Marla in tono vagamente canzonatorio.
“Dopotutto, questo è il tuo letto. Non il mio.”
“Cosa vuoi dire?” chiese Tara, ma l’altra si limitava a sorridere.
“Che cosa vuoi dire, brutta stronza?” ripeté Tara con veemenza.
“Avanti, non c’è mica bisogno di offendere” disse l’amica.
“Vuol dire semplicemente che ti è stata data un’altra occasione.”
Tara scosse il capo.
“Te lo scordi. Io sono venuta fin qui per te. Non è giusto che… non è giusto, non è giusto e basta!”
Marla le prese le mani.
“Stenditi lì, addormentati e vedrai che andrà tutto bene. Concediti un’altra possibilità.”
“Addormentarmi?” ringhiò Tara.
“Non ho dormito nemmeno un minuto da quando sono finita quaggiù. Non c’è verso che mi addormenti in questo letto di merda!”
“Provaci, forse basta che tu tocchi la coperta…”
Marla non aveva neppure finito di parlare che un freddo innaturale invase la stanza. Le parole le si congelarono in bocca.
Colori rossastri sbocciarono ovunque, una carta da parati di un cupo borgogna ricoprì le facciate soffocando la luce. Una saletta da tè. Un divisorio in tessuto ricamato. Fotografie dell’ospedale appese alle pareti.
La Stalker emerse dagli arabeschi di un tappeto persiano, il corpo tratteggiato da un groviglio di fili che si contorcevano come vermi. Aveva un’espressione candida, colma di letizia.
Come in un incubo, Marla e Tara si sentirono trattenere da una forza invisibile che rallentava i loro movimenti. In particolare Tara. Ironicamente, erano davvero sotto la superficie dell’acqua.
Avrei potuto estinguervi nel sotterraneo, ma che trofei insipidi sareste state” sibilò la Stalker.
“Tara, ascolta,” proruppe Marla con foga “non può catturarci entrambe in una volta, può prendere solo una di noi!”
“E tu come lo sai?” disse l’amica, semiparalizzata.
“L’ho vista cacciare, ricordi?” rispose Marla in gran fretta.
Poi fece per uscire dalla saletta, agitando vistosamente le mani all’indirizzo della creatura che si stava approssimando a Tara.
“Ehi, Mimì! Dove diavolo stai guardando? Sono qui! Non è me che vuoi?”
La Stalker voltò impercettibilmente il capo. Marla avvertì l’attenzione calcolatrice di quegli occhi glaciali che la scavavano sin nel profondo.
Tara riusciva a malapena a respirare, immobile come un manichino.
“Lascia perdere quel maschiaccio depresso, non vedi che gli faresti un favore?” continuò Marla.
L’espressione sorridente della Stalker mutò in un rigido cipiglio. C’era fame in quello sguardo; c’era una smania vorace.
Sì, ora capisco,” cinguettò “tu… sei… interessante. Ami intensamente la vita, eppure godi al pensiero che ti venga strappata via.
Come? si disse Marla.
Ma non c’era tempo per pensare: la Stalker le stava venendo incontro con una flemma che rasentava il sadismo, lontanissima e contemporaneamente a un passo da lei. La sua figura sembrava evadere il tempo.
L’agguantò per la gola, sollevandola in alto. Si sentì annullare, piluccare un boccone alla volta.
Nello stesso momento, Tara riguadagnò il controllo del proprio corpo.
“Marla!” strillò.
“Vai” annaspò l’altra, col volto che le si deformava e perdeva poco a poco ogni connotato umano.
“CoR… rI…”
“No! Io non ti lascio!”
 “Mi… mI diSpiAce…”
 
E si disintegrò. Si disfece in tante particelle di oblio. Di Marla, in quella stanza, non rimase che il ricordo.




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