La ragazza dei gelsomini

di MercuryGirl93
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XVIII Bucaneve
 
Quando Adamo non sapeva più come rincuorare apparve un angelo che per darle speranza in nuove stagioni. Per infondere coraggio e speranza prese dei fiocchi di neve e ci soffiò sopra ordinandogli di diventare boccioli. Come questi toccarono il suolo bucarono la coltra di neve e da lì sbocciarono i primi bucaneve. *
 
 
 
Il primo ricordo di vita che Emma possedeva risaliva ai suoi sei anni.
Era una bambina piuttosto introversa, silenziosa, ma non per questo meno intelligente: faceva da silente ascoltatrice ai discorsi degli adulti che la circondavano, di modo che potesse acquisire informazioni e nuove nozioni. La curiosità le era sempre appartenuta, supportata dal suo innato spirito d’osservazione.
Quella piovosa giornata di Marzo, mentre lisciava le gonne della sua bambola preferita, Emma udì il telefono di nonno Enzo squillare con insistenza, mentre l’uomo era intento a preparare le lasagne che tanto le piacevano.
-Arrivo arrivo – borbottò l’uomo facendo l’occhiolino alla piccola.
Si asciugò le mani frettolosamente, per poi rispondere alla cornetta.
Emma non aveva un udito così sviluppato da percepire le parole dell’interlocutore, ma notò il modo in cui il nonno si era rabbuiato nell’ascoltarne le parole. In un attimo la sua solita allegria si era spenta, sostituita da un sorriso tirato che l’uomo si sforzava palesemente di rivolgerle.
-Chi è? – fece lei, incuriosita.
Ma lui non le rispose, incredulo e confuso si limitò a fissare il vuoto, mentre l’interlocutore alla cornetta continuava a borbottare parole indistinguibili a cui Enzo rispondeva mugugnando confusamente.
Emma, in quel momento, decise che la sua investigazione sarebbe stata più discreta: si sarebbe limitata ad osservare l’evoluzione naturale degli eventi nei giorni successivi per poi tirare le somme dell’accaduto.
Quello che constatò, tuttavia, nei giorni successivi fu che i suoi genitori erano misteriosamente spariti, inghiottiti dalla pioggia, e che lei avrebbe trascorso con il nonno molto più di una domenica pomeriggio a settimana; forse, la vita intera.
 
Nel sentirsi dire che il padre e la madre erano morti, Emma non era riuscita a processare correttamente la tristezza, il dolore. Probabilmente, era troppo piccola per disperare come avevano fatto tutti gli altri attorno a lei.
Del resto, nonno Enzo non le aveva dato modo di sentirsi effettivamente triste: l’aveva trattata come sempre, cucinandole i suoi piatti squisiti e facendola giocare fino a perdere del tutto le energie, facendola ridere.
Emma sentiva che lui era triste, la sua empatia non le consentiva di ignorarlo, ma si lasciò andare alla spensieratezza che lui le stava regalando.
L’aveva sentito diverse volte piangere nella sua camera, nel silenzio della notte, quando il vento fuori non le faceva chiudere occhio, ma aveva deciso di restare integra.
Non voleva sentirsi triste anche lei così tanto, anche se le dispiaceva non vedere più i suoi genitori e non farsi più coccolare da loro. Nonno Enzo si sarebbe preso cura di lei.
Negli anni della crescita, lui si comportò in maniera egregia, rivestendo alla perfezione il ruolo di padre e di madre, insieme. La accompagnava a scuola, le rimboccava le coperte la sera, la calmava quando qualcuno la faceva arrabbiare e la consolava quando qualcun altro la faceva piangere.
Enzo fu perfetto, in tutto e per tutto, e con il tempo anche lui riacquisì la felicità che aveva perduto dopo la morte dei genitori di Emma.
Il tempo guariva a poco a poco tutte le ferite e l’adolescenza di Emma fu felice.
 
-Credo che la dovresti ereditare tu l’attività di famiglia – disse Enzo quel pomeriggio, mentre entrambi erano intenti a sistemare il giardino.
Emma, nella freschezza dei suoi sedici anni, aveva le mani guantate ed era intenta a mettere bulbi nel terriccio che circoscriveva il giardino di villa Vitale.
L’attività di famiglia di cui il nonno le parlava era un negozio di fiori, in piedi da tre generazioni e di cui il suo povero padre si era occupato per poco, prima di morire.
Emma aveva ereditato la passione di famiglia per i fiori e spesso con il nonno si dedicava alla cura del giardino: era il loro momento di relax quotidiano.
-Davvero? – fece lei, allegra per la notizia. Voleva approfondire i suoi studi, andare all’università, conseguire una laurea in botanica, ma sapere che il nonno aveva così tanta fiducia in lei da affidarle l’attività di famiglia la rendeva contenta. Dopotutto, aveva solo sedici anni.
-Ma certo, tesoro – sorrise Enzo, potando qualche ramo dell’ulivo che troneggiava in giardino. -Non credo che tua zia Patrizia sia interessata.
Aveva utilizzato un tono neutro per sentenziare quella verità, ma Emma sapeva che il nonno era davvero dispiaciuto che la sua sola altra figlia non avesse mai avuto il ben che minimo amore per l’eredità di famiglia.
Giorni prima, li aveva sentiti discutere in salotto sulla faccenda e Patrizia era stata piuttosto sgarbata a riguardo. -Ma cosa vuoi che me ne freghi di quelle quattro piantine che vendi? – aveva sbraitato contro Enzo.
L’uomo era rimasto ferito da una simile accusa – Emma ne era certa -, ma era stato abbastanza coraggioso da non darlo a vedere. Era stato una roccia, come al suo solito.
A Patrizia, dopotutto, erano sempre interessati solo i soldi di famiglia; o meglio, i soldi in generale. Per anni si era guardata intorno alla ricerca di un partito adeguato da poter spennare per bene, senza successo: quando la gente scopriva quanto potesse essere sgradevole, si dileguava, lasciandola con un pugno di mosche tra le mani.
Se la meritava, dopotutto, la solitudine, considerato come si comportava. Emma lo aveva sempre pensato: sua zia era una vipera fuori controllo.
Vedendo la malinconia del nonno al pensiero di Patrizia, Emma cercò di consolarlo: -A me interessa molto!
Enzo rise per quell’entusiasmo quasi infantile che lei gli aveva dimostrato nel dirlo. -Non ho dubbi vedendo la tua faccia sporca di terriccio.
-Succede sempre – sbuffò lei, toccandosi il viso con le mani sporche. -Mannaggia – brontolò, dopo essersi resa conto di aver appena aggravato la situazione.
-Allora – richiamò la sua attenzione il nonno. -Lo sai come si cura un Bucaneve?
 
Emma era in procinto di compiere diciotto anni quando scoprì della malattia del nonno.
All’inizio aveva solo delle piccole dimenticanze, normali per un uomo che stava invecchiando, ma con il passare del tempo le smemoratezze si aggravarono diventando delle vere e proprie amnesie. Enzo non ricordava parti delle sue giornate, o cose accadute nell’arco del giorno prima.
La situazione per Emma divenne preoccupante quando si ritrovò a dover insistere per ricordargli che lei abitava con lui dall’età di sei anni e che suo padre era morto da molto tempo.
Il nonno, con lo sguardo nel vuoto, era parso confuso e triste, e lei sentì il suo cuore incrinarsi un po’ vedendolo in quello stato.
Il medico, giorni dopo, aveva rivelato che si trattava di Alzheimer e che la situazione non sarebbe certo migliorata, al contrario.
Emma aveva cercato di essere forte a quella rivelazione, come lui lo era sempre stato per lei nelle diverse fasi della sua vita, ma qualcosa in lei aveva iniziato a vacillare pericolosamente.
Enzo accettò la situazione con rassegnazione, con uno strano misto di filosofia e pace.
-Tesoro, magari è meglio che vada in un centro – le disse davanti al medico, mettendole una mano sulla spalla con fare rassicurante.
-Non se ne parla, mi prendo cura io di te – sentenziò lei, invece.
Emma sapeva che mandare il nonno in un centro significava lasciarlo abbandonato a sé stesso, in un posto che non lo faceva felice. Si motivò all’idea di poter pensare a tutto lei, dopotutto era quasi maggiorenne, era perfettamente in grado di assumersi quella responsabilità.
Non aveva pianto in quei giorni, neanche una lacrima, non poteva essere debole davanti una cosa così grande. Al contrario, doveva essere anche lei una roccia.
 
Mesi dopo, il nonno aveva smesso di identificarla persino come sua nipote.
Emma aveva provato a spiegargli le cose almeno cento volte in cento giorni differenti: inizialmente, Enzo se ne convinceva con facilità, grazie ai suoi piccoli bagliori di lucidità, ma con il tempo non fu più possibile convincerlo con la razionalità.
-Mia nipote Emma vive con mio figlio Emanuele e sua moglie, mica con me – ridacchiava lui, come se la verità che lei gli propinava fosse una barzelletta.
Era sempre più difficile raccontargli il dolore delle morti che aveva dimenticato, la tristezza di Patrizia che, pur sapendo della malattia, non voleva saperne di aiutarlo. Così, con il tempo, Emma smise di dedicarsi alle spiegazioni dettagliate sulla vita che lui puntualmente non ricordava, lasciando lo spazio all’invenzione di una vita tutta nuova.
-Sei mica la giardiniera che ho chiamato l’altro giorno? – le disse una mattina, durante la colazione, studiandola con la diffidenza che si dedica agli estranei. -Ho il giardino un disastro!
Emma, arresa, aveva annuito, con un’altra crepa sul cuore. -Sì, sono io, mi ha chiamato giusto ieri!
-Perfetto! – batté le mani l’anziano, vittorioso. -Mettiti a lavoro, ti prego, a mia nipote Emma piace tanto trovare i fiori curati quando viene a trovarmi.
Si era messa al lavoro come lui voleva, ogni giorno, da quel momento, preservando la farsa della giardiniera. Enzo aveva persino creato un’identità fittizia nella sua testa, per lei, il cui nome era Jasmin – gelsomino – e le cui referenze erano eccellenti in tutta la zona: aveva anni di esperienza sulle spalle, pur apparendo molto giovane.
C’erano giornate in cui doveva assumere l’identità di qualcun altro, ma il ruolo di Jasmin le si presentava davanti molto più spesso.
Emma ormai era a pezzi. Aveva lasciato stare il diploma, i pochi amici che aveva non la cercavano neanche più e l’unica persona che l’aveva sempre amata non si ricordava neanche chi fosse con precisione. Aveva smesso di esistere sulla terra così come nelle mente dell’anziano nonno.
Non potendo più dichiarare apertamente di abitare con lui, nel tardo pomeriggio fingeva di andare via.
-Ciao Jasmin, ci vediamo domani! – la salutava Enzo dalla poltrona, reggendo un libro spesso al contrario, o guardando in tv dei programmi in bianco e nero.
-Arrivederci signor Vitale! – lo salutava lei allegramente, una perfetta attrice.
Chiuso il portoncino del cancello, Emma faceva il giro dell’isolato, per poi scavalcare l’inferriata alle spalle della proprietà. Si arrampicava sugli alberi per raggiungere la finestra della sua camera, all’interno della quale con il tempo aveva imparato a stare in religioso silenzio: non voleva che l’anziano si spaventasse all’idea che ci fosse un ladro in casa, ma voleva vegliare comunque su di lui. Arrampicarsi sugli alberi all’inizio fu difficoltoso, ma con il tempo si impratichì a sufficienza da non sbucciarsi neanche le ginocchia, e divenne abbastanza silenziosa da apparire quasi un fantasma.
Si nascondeva nella casa dove lei stessa era cresciuta, camminando in punta di piedi, cenando nella notte, da sola.
 
Quando Enzo morì non fu una sorpresa per Emma.
Giorni prima, era parso stanco, senza energia, depresso. Aveva spiccicato due parole in croce durante tutta la giornata, al punto che il sesto senso di Emma l’aveva portata a pensare che fosse stanco di vivere in quel modo.
La mattina di quel giovedì lo aveva trovato a letto, senza battito. Con una lucidità che non si aspettava di avere, Emma aveva fatto tutte le telefonate di rito e organizzato in poco la sepoltura che lei riteneva lui meritasse. Al funerale, tuttavia, non era andata, lasciando che Patrizia potesse recitare la parte della figlia triste senza doverla vedere; Emma non avrebbe potuto sopportarlo.
Aveva roboticamente posto un mazzo di fiori in prossimità della lapide di lui tutti i giorni, per tre settimane, senza versare neanche una lacrima. Si sentiva vuota, un guscio senza contenuto. Non aveva più neanche uno scopo, nella vita, dal momento che gli ultimi anni li aveva dedicati a prendersi cura di lui, pur sapendo che qualsiasi cosa faceva fosse inconcludente.
 
Emma seppe che il nonno aveva lasciato un testamento da Patrizia, circa un mese dopo la sua dipartita.
La sgradevole zia si presentò alla porta di casa con il suo solito fare sprezzante e reggendo in mano un pezzo di carta la cui natura per Emma era del tutto misteriosa.
-Mi spieghi perché ha lasciato tutto a te? – blaterò la donna, inviperita.
-Come? – aveva borbottato lei confusamente, lasciandola entrare in casa.
Tutto era in disordine all’interno, abbandonato e impolverato, così come lo stesso giardino era in condizioni fatiscenti. Non aveva più voglia di prendersi cura delle cose.
-Ha lasciato scritto che quando compi ventuno anni, sia il negozio che la casa saranno tuoi, così come una cospicua somma di denaro… A me ha lasciato briciole! Sono la sua unica figlia! – blaterò la donna sguaiatamente.
-Non te n’è mai importato niente di lui, lo sapeva bene – aveva sussurrato Emma in tono monocorde, ma non successivamente piano da non farsi sentire.
La riposta di Patrizia fu uno schiaffo dritto nel viso della ragazza. -Sta zitta, ragazzina.
Emma rimase spiazzata da quel gesto. Prese a massaggiarsi la guancia, là dove la pelle pizzicava.
Non era mai stata colpita da nessuno, prima di quel momento, e certamente non si aspettava che un simile gesto potesse provenire da Patrizia: per quanto la odiasse, non pensava potesse diventare violenta.
Leggermente intontita dalla situazione, si lasciò sfuggire in un borbottio l’ultima cosa che sua zia avrebbe dovuto sapere. -Li faccio tra due mesi, ventun anni.
Patrizia soppesò con un mugugno quella verità, studiando il testamento tra le sue mani. -Allora, fino a quel momento, diciamo che la casa e il negozio… Sicuramente ci si può lavorare su… - disse più a sé stessa.
Emma, che di certo non era stupida, intervenne energicamente: -Ha lasciato le cose a me!
La donna scacciò quelle parole con un gesto sprezzante della mano. -Io posso fare quello che voglio.
 
Una settimana dopo, Emma scoprì che Patrizia aveva trovato una scappatoia legale che la legittimava ad amministrare le proprietà di famiglia in attesa che passassero a Emma. Vendette il negozio della famiglia Vitale per una buona somma di denaro e nei giorni successivi si presentò con un paio di uomini in casa, svegliando Emma di soprassalto.
-Credi che possa valere qualcosa? – blaterava Patrizia, indicando un grande quadro raffigurante un paesaggio in salotto.
L’uomo dai capelli sale e pepe in elegante completo parve pensarci su. -Forse il quadro no, ma la cornice sono certo di sì.
Con un cenno della mano, Patrizia ordinò all’altro uomo, più atletico e vestito in maniera sportiva, di prendere il quadro.
Emma, ancora in pigiama, a quel punto era intervenuta con disperazione: -Sono le cose del nonno, non puoi vendere niente!
La zia si era voltata a guardarla con aria di sufficienza. -Ragazzina, te l’ho già detto l’altra volta, posso fare quello che voglio!
-Sono cose che ha lasciato a me! – aveva insistito Emma, il viso di un rosso paonazzo.
-Bene, allora chiamati un avvocato per rivendicare la tua roba – aveva detto la donna, inviperita. -Peccato che i soldi con cui potresti pagarlo sono ancora sotto la mia custodia…
Emma non voleva piangere, voleva continuare a rimanere di roccia anche davanti a quella situazione, ma non riuscì a trattenersi a sufficienza e un paio di lacrime le rigarono il viso.
Davanti alla giovane nipote in lacrime, Patrizia non si scompose per nulla. -Sui soldi non metterò mani ragazzina, ma fino a quando potrò cercherò di vendere qualsiasi cosa possa fruttarmi. Se fai la brava avrai abbastanza risparmi per un appartamento tuo e per andare all’università.
Anche davanti a quella proposta, si sentì comunque sconfitta: quella casa era piena di ricordi di Enzo, ci era cresciuta insieme a lui, non voleva rinunciare a nulla.
-Se però la prossima volta che vengo ti trovo qui a ficcanasare, giuro che quei soldi in banca li spendo tutti prima che tu possa metterci le tue luride mani.
Poco dopo, Patrizia se n’era andata insieme ai due uomini, con la promessa di ripassare nei giorni successivi.
Emma, sola ed impotente, aveva fatto l’unica cosa che si era ripromessa di non fare: si lasciò andare ad un pianto disperato. Singhiozzò così forte che le presero a bruciare i polmoni, versando tutte le lacrime che aveva trattenuto negli anni, da quelle per i suoi genitori, a quelle per il nonno.
 
Nel linguaggio dei fiori, oltre al significato di vita e speranza, i Bucaneve assumono anche quello di virtù e ottimismo. Per questo motivo i Bucaneve vengono usati anche durante le celebrazioni nuziali. In tempi passati il Bucaneve è stato considerato un fiore portatore di sventure. La sua forma a campana che si inarca verso il basso, l'insolito periodo di fioritura e la vicinanza al suolo hanno fatto sì che in tempi non lontani questo fiore venisse considerato, secondo la tradizione popolare, foriero di sfortuna e disastri.
 
*Fonte: www.verdiecontenti.it

Ciao a tutt*! Come al solito, ecco il capitolo! 
Spero che avere un primo assaggio della prospettiva di Emma possa essere di chiarimento... 
Ringrazio come sempre chi investe il proprio tempo a recensire per darmi un feedback sul lavoro: siete la mia energia!
La prossima settimana posterò il penultimo capitolo della storia. 
Un abbraccio a tutti! 

 




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