Il Profumo del Pino d'Inverno

di Iaiasdream
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Capitolo 1

Vincenzo Gargano stava morendo.
La malattia gli aveva consumato il corpo, ma non l’anima. Quella era rimasta fedele alla ragione. Fino all’ultimo aveva lottato per i suoi valori, per reggere la sua terra, il suo lavoro, ma soprattutto per tenere alto il nome dei Gargano.
Nato da una povera famiglia di contadini, primo di sei figli, aveva vissuto la sua infanzia nei campi e in quelli era cresciuto e aveva fortificato il sogno di diventare un ricco proprietario terriero. Chi da sempre aveva vissuto nella povertà, agognava quel tipico sogno e viveva con la speranza che un giorno la ruota del destino si decidesse a girare.
A Murgella, piccolo paese sperduto della Puglia, in pochi erano riusciti a realizzarlo e Vincenzo Gargano era stato uno di quelli.
Durante la seconda guerra mondiale, aveva conosciuto, nei campi di battaglia un certo Francesco Guglielmi conte di Torremonte, uomo ricco. A lui, il soldato contadino, aveva salvato la vita e, per ricambiare il favore, l’aristocratico gli aveva promesso che se fossero riusciti vivi da quella maledetta guerra, lo avrebbe ricompensato.
Mai avrebbe potuto immaginare, Gargano, che quel giuramento lo avesse reso l’uomo più ricco della regione.
Tutto ciò che possedeva: masserie, terre, casali, ma soprattutto la rispettabilità, lo doveva al conte.
Era una grande famiglia quella dei Gargano; tutti dediti al lavoro e alle proprietà, ma all’oscuro di quello che sembrava limpido e luminoso, si celava il peccato. Uno, abominevole e logorante peccato, nascosto per lunghi anni nei meandri della coscienza di Vincenzo.
Come ogni uomo che giunge alla fine della propria vita e si ritrova costretto ad affrontare le conseguenze nella morte, anche al contadino arricchito si accese la fiammella del rimorso, la stessa che divampa nel disperato tentativo di rimediare ai propri errori.
Forse era troppo tardi per confessare il proprio peccato, o semplicemente Vincenzo aveva paura dell’odio che avrebbe acceso nei suoi cari, ma non per rimediare e Iddio gli aveva concesso un’ultima possibilità, dandogli la forza di firmare quel testamento che aveva deciso di cambiare agli sgoccioli.
Vincenzo aveva permesso solo al notaio di entrare in quella stanza che ormai da giorni custodiva le sue ultime ore, e aveva rifiutato l’estrema unzione del Prete.
“A che servono le parole di un pretonzolo quando non scamperò al giudizio di Dio?”, aveva detto a sua sorella Erminia, l’unica rimasta in vita degli altri quattro fratelli che invece erano morti tutti durante la guerra.
Nessuno aveva obbiettato. Tutti i componenti della famiglia erano rimasti nel grande salone a pregare e aspettare.
Erano presenti anche i Ferrara, figli e nipoti di Erminia, che da anni erano in società con i Gargano.
Quando il notaio Dedonno uscì dalla stanza, attirò l’attenzione dei presenti su di sé placando le litanie. L’uomo incrociò lo sguardo di Diomede Gargano, figlio del morente. Lo fissò per qualche istante con un’occhiata d’intesa per poi volgerlo verso Alberto Ferrara, cugino di Diomede e figlio di Erminia. Dedonno si avvicinò a questo e gli sussurrò: «Vuole vedere Arianna.»
Due occhi scuri, vispi, dalle ciglia lunghe si sollevarono puntando la bassa figura del notaio, accorgendosi che anche quelli rugosi di quest’ultimo li stavano fissando.
Arianna era seduta su una poltroncina dalla tappezzeria antica, accanto a una madia, tra le mani un rosario di legno scuro del quale scorreva nervosamente i grani.
Prima di alzarsi, volse lo sguardo afflitto verso Alberto, l’uomo che da dieci anni le faceva da padre, come ad aspettare un suo gesto o il permesso di assentire alla richiesta del notaio.
Suo padre le pose una mano sulla spalla regalandole un sorriso affettuoso. La giovane lo ricambiò e si alzò di scatto per avvicinarsi alla porta, ma a pochi passi di distanza, fu fermata da una donna di mezza età, alta, con capelli neri, corti che coronavano un viso affascinante dagli occhi scuri come la notte, la quale le artigliò il braccio, affiancandola e sussurrandole minacciosa ma con discrezione: «Non oserai varcare quella porta!»
Arianna serrò la mascella senza guardarla e con un leggero movimento del braccio riuscì a liberarsi da quella morsa. I grani del rosario scricchiolarono tra le sue dita, segno che stava raccogliendo tutta la buona volontà per non inveire contro quella donna che da sempre la odiava.
Arianna, o Aria, era stata cresciuta nella famiglia Ferrara, ma prediletta da Vincenzo Gargano. Non si sapeva chi fossero i suoi veri genitori, si sapeva soltanto che dieci anni addietro, Vincenzo Gargano si era presentato con lei quindicenne e senza dare alcuna spiegazione a nessuno l’aveva affidata alle cure di Alberto, unico componente della famiglia Ferrara che non aveva figli né tantomeno si era sposato. Quando i parenti, soprattutto Alberto, ne chiesero il motivo, Vincenzo li liquidò dicendo che fra tutti, solamente lui era in grado di accettare quella ragazzina come propria figlia, convinto che gli altri l’avrebbero esclusa. E così fu. Con il passare del tempo, la bellezza di Aria era fiorita insieme ai suoi anni, aveva coltivato un’intelligenza invidiabile e la maggior parte della famiglia la odiava, fra questa innalzava lo stendardo la donna che l’aveva trattenuta: Rita Ferrara, sorella di Alberto.
Fu Diomede a fermare le gesta della cugina, non appena la ragazza riprese a camminare verso la porta.
Rita lo fissò contrariata, ma l’uomo la calmò con sguardo autoritario.
La donna ritornò alla sua postazione, accanto a sua madre che piangeva in silenzio e, alzando il mento fiero, riprese le sue preghiere. Diomede, infilandosi le mani nelle tasche, si avvicinò a suo cugino Alberto e, poggiandogli una mano sulla spalla, sussurrò: «Tieni a bada tua sorella, non voglio scenate.»
Ferrara non fiatò, lanciò solo uno sguardo rammaricato verso la donna, mentre Diomede lasciava il salone ammiccando al notaio Dedonno di seguirlo.
Nessuno dei presenti fece caso a quell’assenza, e il figlio del morente ne approfittò per scoprire il motivo di tanta insistenza da parte del padre per vedere il notaio.
Entrò nel suo studio, lasciando la porta aperta per permettere all’uomo di raggiungerlo. Si avvicinò a una consolle e si servì dalla brocca di cristallo contenente un liquido dal color caramello. Non appena sentì il rumore della porta chiudersi, senza voltarsi, ordinò al presente di parlare.
«È come sospettava lei, signor Gargano.» esordì Dedonno accingendosi ad aprire la sua cartella foderata in pelle. «Suo padre ha cambiato il testamento» si fermò aspettando la reazione del suo cliente che si volse sgranando gli occhi e stringendo nervosamente il bicchiere ancora pieno. Poi, porgendogli la lettera, aggiunse «Completamente»
Diomede non ebbe alcuna esitazione nell’afferrare quel foglio che gli parve scottare più del fuoco, e lo lesse con la sua aria di superiorità sollevando un sopracciglio man mano che le parole scritte con quella calligrafia che conosceva da sempre scorrevano davanti ai suoi occhi.
Alla fine, dopo la firma di suo padre, si volse verso le vetrate che riflettevano la luce del sole di mezzogiorno e alzò lo sguardo dal colore del ghiaccio fissando il vuoto.
«Ci sono altre copie?» chiese con voce roca, ma che celava nervosismo e delusione.
«Fortunatamente no, signor Diomede.» rispose il notaio andandosi a sedere su una delle due sedie della scrivania. «Non ha avuto il tempo di potermelo permettere. L’ha scritto ieri.»
«Bene.» sussurrò Gargano rivelando un ghigno.
«Anche se il signor Vincenzo è convinto che in questo momento mi stia liberando del vecchio testamento.»
«Che creda ciò che vuole!» lo interruppe bruscamente Diomede estraendo un accendino dalla tasca dei pantaloni. «Gli alleggerirà il pensiero della morte.» aggiunse dando fuoco alla lettera.
I due uomini rimasero a guardare la fiamma divorare la carta bianca, poi fu il figlio del morente a spezzare il silenzio chiedendo che cosa volesse suo padre da Arianna.
«Non mi ha detto nient’altro, a parte che voleva parlarle.»
«Di sicuro vorrà informarla del contenuto della lettera.»
«Ma… non vuole fermarla?»
«Non ce n’è bisogno, amico mio. Non c’è alcuna testimonianza che sia esistito questo testamento, e per quanto riguarda quella puttana, nessuno le darà troppa importanza.»
Detto questo, Diomede si volse ancora una volta verso la finestra, e il suo ghigno scomparve al pensiero che suo padre l’aveva tradito.
Il poco interesse che aveva di perderlo si era trasformato in forte odio. Diomede sentì disprezzo per suo padre, perché quest’ultimo aveva dimenticato i sacrifici che lui aveva fatto per aiutarlo nel lavoro e da ingrato aveva lasciato, nel testamento bruciato, tutti i suoi averi a quella ragazza, senza un perché.
Non doveva finire in quella maniera. Il silenzio del notaio gli era costato molto, ma n’era valsa la pena.
Pregò Iddio che se lo chiamasse al più presto per mettere fine a quella storia e dare inizio a ciò che veramente doveva essere, per lui.
 
***
 
Anche se Alberto le aveva lanciato un’occhiata contraria, Rita non demorse e lasciò il salone per raggiungere suo cugino. Quell’assenza l’aveva messa all’erta e, conoscendo la natura di Diomede, era convinta che stava tramando qualcosa.
Quando arrivò davanti alla porta dello studio, percepì uno strano odore di bruciato, così, senza alcuna esitazione e senza avvisare la sua presenza, aprì la porta cogliendo il notaio mentre si apprestava a uscire con in mano una cartella nera e suo cugino a osservare l’esterno dalla finestra.
La donna aspettò di rimanere sola con Diomede prima di chiedergli se avesse bruciato qualcosa.
«Un Sigaro» rispose l’uomo senza voltarsi.
«Dall’odore non sembrerebbe.» insistette lei. A quel punto, suo cugino si girò ma non del tutto, il limite massimo per poterle volgere i suoi occhi glaciali. «È morto?» chiese con indifferenza.
Rita incrociò le braccia al petto e passò il peso da una gamba all’altra, sbuffando un sorriso beffardo, «Sei così impaziente?» chiese.
Diomede si allontanò dalla finestra condividendo lo stesso sorriso di sua cugina e andò a sedersi dietro la scrivania, accomodandosi contro la spalliera. «L’impazienza è dovuta a ciò che mi spetta.»
«Ci… spetta» lo corresse prontamente avvicinandosi a lui decisa. «Non dimenticare il nostro patto, Diomede.»
«Se ti riferisci al matrimonio tra Carmine e Marella, non l’ho dimenticato, in fin dei conti è stato il volere di mio padre, ma se intendi la parte di eredità, non è certo colpa mia se tua madre ha rinunciato.»
La donna lo interruppe alzando una mano, chiuse gli occhi e tirò un profondo respiro per reggere la calma e non far trapelare la sua stizza.
«Non farmelo ricordare, per favore.» mormorò con un filo di voce.
Le labbra di suo cugino si delinearono in un ghigno strafottente, si alzò dalla sua postazione, fece il giro della scrivania per ritrovarsi di fronte alla donna e, portandole una ciocca di frangia dietro alle orecchie, le accarezzò il viso, le sollevò il mento costringendola a guardarlo in faccia «Non preoccuparti, per questo. Io non dimentico mai chi mi è fedele, e tu lo sei, vero Rita?»
La donna si perse in quello sguardo glaciale, e la voce calda e profonda di lui l’avvolse come a volerla penetrare nell’intimo, tanto che le sfuggì un gemito di piacere. Saggiò quella lieve carezza come se fosse l’unica cosa che percepiva sul proprio corpo e senza rispondere gli afferrò il viso con tutte e due le mani, si sollevò sulle punte dei piedi e gli accarezzò le labbra sottili con le sue.
Diomede sorrise, «Brava» sibilò come un serpente incantatore e avvinghiandola dai fianchi la baciò con impeto.
Intanto nella stanza del morente, Arianna non seppe mai cosa volle dirle l’uomo a cui era affezionata, poiché dopo aver tentato di parlarle in preda a convulsioni, spirò.
La prima persona che la ragazza chiamò fu il suo padre adottivo, ma il suo pianto allertò tutti i presenti, che si fiondarono nella camera increduli dell’accaduto.
Vincenzo Gargano si spense alle dodici e mezza in punto, portando con sé quel segreto che celava un peccato troppo ingombrante per la sua anima. Si spense, forse, con la consapevolezza di non essersi potuto liberare del rimorso che si era portato appresso per tutto il resto della sua vita.
 

 




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