Lettera a B.

di Midnight the mad
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È il 9 di febbraio. Anno domini 2022. Fa freddo, tira vento.
Al vecchio pianoforte un po’ scordato nella stazione di Firenze SMN suonano Hallelujah. Una ragazza canta e quando stona il pubblico fa finta di non accorgersene. Alla fine, applausi tiepidi, applausi da melanconia della domenica pomeriggio.
Il treno è in ritardo, sta già facendo buio. Al binario tronco ovest una piccola folla si accalca sperando di riuscire a trovare un posto a sedere su questo vecchio regionale cigolante che puzza di chiuso e sudore. Le porte si aprono, le famiglie cariche di valigie invadono il corridoio troppo stretto. Faccio l’ultimo tiro dalla mia mezza sigaretta e poi la spengo sopra un cestino della spazzatura.
Salgo, mi piazzo in un posto a quattro con una signora borghese sulla sessantina dallo sguardo acido e un ragazzo con uno zaino Eastpack il cui colore originale è in indovinabile, intarsiato di spille. Mi appoggio allo schienale, respiro.
Sono ancora viva.
Alla fine di ogni giornata me lo ripeto, un po’ come per convincermi.
 
Ho Scopami di Virginie Despentes che mi pesa nello zaino, totalmente inutile visto che sono incapace di leggere in treno. Non so neanche perché l’ho portato. Forse, inconsciamente, ho pensato che ti sarebbe potuto piacere, e ho deciso di farmi accompagnare da te in questa giornata, almeno un po’.
Ho le cuffie scariche, perciò mi limito a guardare fuori, un po’ di traverso – ovviamente, posto corridoio. So già che non dormirò, in treno non dormo mai. Immagini della giornata mi scorrono davanti agli occhi mescolandosi al paesaggio. Il giardino delle rose era ancora spoglio, eppure non sono riuscita a impedirmi di passare a fargli un saluto. Era più o meno questo periodo dell’anno, penso, due anni fa, una delle ultime volte che mi sono sentita davvero felice. Capitava in un periodo di pura disperazione, e forse anche per quello mi ci aggrappo ancora, in un certo senso. Comunque, la vista da Piazzale Michelangelo è sempre bella. Firenze, però, non sta ancora riuscendo a levarsi di dosso quel sapore amarognolo di ultime volte: dopo tanti anni, ho iniziato a pensare che mi porti sfortuna.
Una sfortuna piacevole, comunque. Come potrebbe non esserlo, Firenze?
Ogni volta che giro per le strade, cerco con lo sguardo un groviglio di capelli rosso Ariel. Mi chiedo se sei ancora qui, a volte addirittura se sei ancora viva. Sono due anni che non sento la tua voce. Quell’ultima volta ti scoprivi il polso sinistro e mi mostravi quel tatuaggio che avevo già intravisto così tante volte, la medusa. Mi dicevi che erano sempre state la tua fobia più grande, che quando eri piccola, in Sardegna, convincerti a fare il bagno in mare era praticamente impossibile. Io, quella volta, pensai che il gesto di tatuarsene una fosse un po’ troppo scenografico, infantile addirittura; adesso non lo so più. Mi chiedo se davvero esistono giudizi validi su certe cose o se, in realtà, sotto un qualche punto di vista siamo tutti infantili da morire.
 
Il tuo odore era sempre un mix di sudore e vernice, o acrilico, o fumo delle troppe sigarette che fumavi a nastro mentre chiacchieravamo davanti a un caffè – sempre offerto da me, non c’avevi mai una lira.
Quell’ultimo inverno, sui monti nevicava e io riuscivo solo a immaginarmi il nostro rapporto che si sgretolava sempre di più finché un giorno non avresti tirato su uno sguardo troppo stanco, e quello avrebbe voluto dire che era finita per davvero, e mi avresti spezzato il cuore. E quella consapevolezza non faceva altro che rendermi sempre più impossibile anche solo guardarti in faccia, essere me: avevo iniziato a giocare in difesa e tu te n’eri accorta. Una condanna, il mio perenne sbaglio che aveva mangiato dall’interno tutto ciò che la vita mi aveva messo in mezzo alla strada; forse è proprio vero che ci sono persone troppo rotte per salvarsi.
 
Ci penso ancora, certe volte, a quell’ultima, miracolosamente bella giornata, in cui per una volta m’ero scordata tutto, in cui era andato tutto così impassibilmente bene. Ci penso adesso, mentre questo treno mi porta via come mi portò via quello di due anni fa, da te, dopo che t’avevo silenziosamente detto addio senza fartelo sapere: volevo che almeno quella cosa lì rimanesse intera, seppure in un ricordo, seppure fuori, ormai, dalla mia vita. Volevo che non si sgretolasse un po’ alla volta tra le mie mani maldestre, in un effetto domino che, come sempre, non sarei mai riuscita a fermare.
Volevo che quella giornata di febbraio in un periodo disperato restasse lì, in mezzo alla mia linea del tempo, a ricordarmi che, in qualche modo, qualcosa di bello era sempre possibile.
 
Mi chiedo, adesso – adesso che in teoria lo dovrei sapere, che le cose possono anche non andare così – che farei. Se succederebbe qualcosa di diverso.
Mi chiedo pure se alla fine l’hai sposata, quella ragazza che scherzosamente chiamavi Gloria come quella dell’album dei Green Day perché, dicevi, te la ricordava tanto. Mi chiedo se le hai mai detto di noi.
Mi chiedo se t’ho fatto male. Penso di sì, forse, in realtà non ne ho idea. Ai tempi non riuscivo a immaginarmi che un qualsiasi mio comportamento potesse ferirti o, a dire il vero, neanche interessarti sul serio. Dieci anni in più di me e il viso segnato dalla vita, che cazzo potevo insegnarti io. Eppure una volta che facevamo l’amore mi hai mormorato che mi amavi mentre mi baciavi sulla pancia, oppure no, forse me lo sono solo immaginato. Mi ricordo che quando l’ansia mi iniziò a soffocare, subito dopo, mi chiesi se anche questo poteva piacerti, della mia “stranezza”, come la chiamavi tu. Se anche queste ondate improvvise di malessere saresti stata disposta ad accettare. E mi ricordo che mi risposi di no, e che fu proprio da lì che iniziò a precipitare tutto.
Ma forse il punto è che non lo sapevo accettare io, il fatto che per com’ero avrei potuto perderti. Fatto sta che t’ho persa lo stesso, e forse se c’avessi provato un po’ di meno a piacerti non sarebbe cambiato granché, però mi sarei sentita più leggera.
 
Il treno si ferma e io devo scendere, mi precipito a rotta di collo sulla banchina un attimo prima che le porte mi si chiudano in faccia. La mia stazione, casa mia. Fa ancora più freddo, adesso, e buio. Il posto è deserto, un lampione sfarfalla pieno d’inquietudine. Il mio respiro forma nuvolette bianche quasi cartonesche, mi stringo nella giacca.
Il treno dietro di me riparte, se ne va sonnolento nelle campagne. Io per un secondo mi chiedo che succederebbe se non mi muovessi più, se restassi qui tutta la notte, in piedi, accanto al binario, immobile. Se anche questa volta esaudissi quel mio perenne desiderio di non fare, di limitarmi a malapena a esistere, cercando di non toccare niente.
Poi, però, questo è il mondo vero, e quindi inizio a camminare.




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