Orizzonte

di Glenda
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Noam conosceva ogni stanza di quel rifugio, avrebbe potuto chiamare per nome una ad una persino le pietre a vista: vent’anni di vacanze con la sua famiglia, vent’anni di gite fuori porta, vent’anni di suo padre che annunciava “E oggi, per premio, tutti a cena da Vòrkne!”. Vent’anni, appunto, di cene da Vòrkne. Cene in cui suo padre, per qualche ora, smetteva di parlare di politica per godersi la compagnia e i liquori. Cene in cui, una volta diventato adulto, era stato lui a parlare di politica, coi suoi fratelli e con chiunque altro fosse presente, strappando definitivamente al padre quella sana pausa della mente. Cominciando a sbagliare.

Vòrkne lo aveva abbracciato con un calore che aveva stemperato le sue ansie; non poteva essere certo di quell’accoglienza, quando aveva scelto di fermarsi lì, anche se un po’ lo aveva sperato. Vòrkne lo aveva fatto sentire come una persona che torna a casa, non come una spia del governo infame che viene a fare l’imbonitore.

Però non riusciva a dormire.

Innanzi tutto per i brividi, che gli percorrevano la schiena nonostante la doccia calda e il riscaldamento acceso per l’occasione: prendersi tutta quella pioggia era stata una mossa veramente cretina, e si sentiva in colpa nei confronti di Adrian che aveva fatto le spese, ancora una volta, di uno dei suoi colpi di testa.

Ma in quell’auto stava soffocando. Le montagne lo stavano soffocando.

La lieve fluorescenza dell’orologio appoggiato sul comodino indicava le tre di notte, e lui si stava ancora girando nel letto. Decise di alzarsi e andare in cucina a prepararsi qualcosa di caldo, era abituato a muoversi in quel luogo come a casa propria, Vòrkne non si sarebbe offeso.

Invece Vòrkne era sveglio, seduto sul divano con una luce da lettura e un bicchiere di vino in mano, gli occhiali a mezza luna calati sul naso e uno dei grossi gatti di casa acciambellato a fianco.

“Il piccolo Noam non dormiva perché non aveva mai sonno… Il Noam adulto perché?”

Lo disse nella loro lingua, che si era trattenuto, per rispetto verso Adrian, dall’usare durante la cena. Vòrkne detestava dover parlare in lingua Vàrnava, ma ci era tenuto per lavoro: avendo aperto un’attività sul versante ovest dei Mor-Darèuk, metà del suo turismo veniva dall’alta valle del Norav o dal basso Tàlvrand. Quando i suoi ospiti, invece, salivano da Mòrask, o comunque dall’altopiano, si poteva permettere – diceva – di parlare come mangiava, e (questo quando voleva essere poetico) di parlare in una lingua che dava corpo alle cose, non come quella cantilena troppo morbida e piena di vocali che sapeva di palude.

Era con pensieri così che avrebbe dovuto confrontarsi, e quello di Vòrkne era solo uno sbeffeggio poco ostile: il meglio, non il peggio, di ciò che avrebbe incontrato.

Perché Noam amava la lingua dar-breuk, ma amava anche le vocali larghe e dolci del mare.

Noam amava Mòrask, ma amava anche, per scelta e profondamente, Noravàl.

“Anche il Noam adulto spesso non ha sonno perché vuole fare troppe cose, Vòrkne. Ma non è questo il caso.”

“E allora siediti qua e raccontami che caso è questo.

Si alzò, indicandogli di sedere al suo posto, e scomparve per un attimo in corridoio: tornò con una bottiglia che Noam conosceva bene, e ne versò subito due generosi bicchieri.

“Quest’annata è stata ottima per l’artemisia.”

Noam annusò il liquore e si sentì pizzicare il naso. Chissà quanti gradi aveva quella roba! Ovviamente, né lui né lo stesso Vòrkne lo avrebbero mai saputo, dato che raccogliere (e distillare, principalmente) l’artemisia dei Mor-dareuk era diventato illegale da quando era stata dichiarata specie protetta. I darbrandesi di alta montagna imputavano anche questi provvedimenti alla tirannia del governo e nessuno si era mai davvero informato sulla problematica ambientale: si è sempre fatto così, con che diritto ci viene vietato? Erano questioni piccole, ma raccontavano una storia.

“Non so se sono pronto a finire steso sotto il tavolo.”

“Steso sotto il tavolo? Per un bicchierino? Ecco perché non dormi e hai una faccia che sembra quella di uno fantasma triste!”

Noam rise e buttò giù la sua Artemisia tutto d’un fiato.

Meraviglioso.

Adorava quella sensazione di calore lungo lo sterno e nella testa, adorava ritrovare sapori che lo facevano sentire ancora parte di una comunità.

Vòrkne non parve soddisfatto e versò di nuovo.

“Devo accertarmi che tu non mi sia diventato un gambemolli” disse “Il nostro unico rappresentante decente deve pur essere in grado di vincere una sfida all’ultima goccia!”

Noam svuotò anche il secondo bicchiere e diede in un sospiro enorme.

“Il vostro solo rappresentante decente, eh?” sorrise “Vostro di chi?”

Vòrkne lo guardò affabilmente, anche se quell’espressione da brav’uomo posato non gli impedì di bere per la terza volta.

“Mio di sicuro.” disse “E di tanta gente per bene che non si è mai sentita rappresentata. Ma non avresti dovuto sparire in quel modo, Noam. Sparire nel nulla, non una lettera, non una notizia. Persino il numero di telefono hai cambiato! Perché?”

“Davvero mi stai chiedendo perché? Tu lo sai come sono andate le cose… Sparire è stata la scelta più generosa che io potessi fare. Vigliacca, sì. Ma non nei loro confronti. Mi hanno detto che se non ero dei loro ero contro di loro, che avrei dovuto dimenticarmi che esistevano. Ho rispettato quel desiderio.”

Afferrò la bottiglia, si versò altro liquore senza troppa attenzione alla quantità e bevve ancora.

“Ehi, ehi” scherzò Vòrkne “Non prenderla troppo sul serio la battuta sulla sfida, eh!”

“Ma così poi magari dormo, no? E, comunque, Vòrkne, l’artemisia di quest’anno sarà pure ottima, ma la trovo meno forte del solito!”

L’altro rise di cuore, ma intanto trovò opportuno rimettere il tappo al suo tesoro.

“Però, ragazzo mio,” proseguì, blando “anche tu sei un pochino rigido. In momenti drammatici, certe cose si dicono, ma non si pensano fino in fondo. Nessuno qui ti odia.”

Tu non mi odi. Il resto è… solo confusione. Ed io non sono pronto a far chiarezza nella confusione. So cosa il nocciolo duro del Dàrbrand pensa di me: uno che è diventato un damerino di città, un opportunista, un venduto… Nella migliore delle ipotesi un ingenuo strumentalizzato dal governo centrale. Ma sosterrò il candidato sindaco di Liberi insieme, Vòrkne. Lo farò con tutto l’impegno e la buona fede che posso, e riuscirò a convivere con il disprezzo della mia gente, se in questo modo posso ottenere per loro un vantaggio più grande. Ci devo credere almeno io, perché per costruire un ponte tra due luoghi ci vuole una persona che ami nello stesso modo entrambi quei luoghi. Non un guerriero, non un giudice, ma un mediatore. Io voglio essere quel mediatore, anche a rischio di dormire di meno!”

In barba a quell’accorata serietà, Vòrkne scoppiò in una risata clamorosa.

“Dio, ma ti senti quando parli? Sei di una dolcezza imbarazzante. Come si fa a voler del male a te?”

Noam desiderò confidargli delle minacce ricevute, del ruolo di Adrian a suo fianco e del timore che il trovarsi lì potesse essere poco più di un buco nell’acqua, perché i darbrandesi diffidavano delle promesse (e come dargli torto) e non c’erano molti darbrandesi tra le fila di Orizzonte. Ma desiderava anche credergli, perché quello che gli aveva appena fatto era un signor complimento, e lui aveva tanto bisogno di parole come quelle, soprattutto pronunciate da qualcuno che le pronunciava nella sua lingua.

“Ascolta me, Noam: ci sono tante persone che sarebbero felici di rivederti. Persone che sarebbero pronte ad aiutarti, persino.”

“Non è una buona idea. Starò a Mòrask solo qualche giorno, il minor tempo che mi è possibile. Rincontrare te è stato già concedermi un bel regalo.”

Vòrkne sbattè la sua grossa mano sul tavolo, ma non con rabbia, solo con confusa insofferenza.

“Nah, andiamo, testa di pietra che non sei altro! Non puoi tornare a Mòrask e non vedere tua madre!”

“Mia madre mi ha detto che per lei sono morto, Vòrkne.”

“Sono scemenze, figliolo, per la miseria! Posso parlarle io…”

“No.”

Scosse la testa, le lunghe ciocche rosse ondeggiarono sulla sua fronte come a amplificare quel movimento.

“E Thièl? Non vuoi sapere nemmeno che sta facendo Thièl?”

“No.”

Noam cercò i suoi occhi e gli rivolse un sorriso di arresa tristezza.

“No.”

 

***

 

Quando Noam si svegliò era già mattino inoltrato.

Si rese conto che la sveglia doveva aver suonato diverse volte, ignorata. Forse era diventato davvero un gambemolli, forse l’artemisia non faceva più per lui, ma quei tre bicchieri avevano messo a tacere tutti i pensieri, e adesso si sentiva riposato, nonostante una sorta di ovattamento alla testa. La camera era invasa da strisce di luce che gli scuretti non riuscivano a chiudere fuori: la finestra era esposta ad est, nessuna barriera al sole che si alza; Noam spalancò i vetri per fare entrare aria nella stanza e nei polmoni: come aveva previsto, nessuna traccia di nubi, cielo sgombro di un azzurro invadente, quel tipo di luminosità che fa strizzare gli occhi.

Pensò che Adrian dovesse essere sveglio da un po’ ed infatti un attimo dopo distinse la sua voce e quella di Vòrkne, anche se erano troppo distanti perché potesse capire cosa stessero dicendo.

Li trovò all’esterno: Adrian stava togliendo dal parabrezza dell’auto fiori e foglie che la pioggia e il vento avevano depositato lì, mentre Vòrkne, con una bottiglia in mano, stava insistendo perché “accettasse un souvenir dei Mor-dareuk che non avrebbe trovato in nessuna distilleria nemmeno a pettinare tutto il Dàrbrand.”

“Alla buon ora, ragazzo mio!” lo accolse con tono gioviale.

“Buongiorno…” salutò Noam stropicciandosi il naso “E scusami, Adrian. Ho fatto tardi…”

“Si fa tardi quando si ha un appuntamento.” puntualizzò lui, senza interrompere il suo lavoro.

E di appuntamenti non ne avevano.

Non con persone.

Con luoghi, semmai. O con ricordi.

“Ci offri la colazione, Vòrkne?” cambiò discorso, sfoggiando un sorriso sfacciato “Ormai siamo qua ad approfittare dell’ospitalità!”

“L’ho già fatto, che ti credi? Manchi solo tu. Peccato che il signor Vesna sia così ligio che non ha voluto assaggiare il mio caffè corretto perché deve guidare. Diglielo che da qua a valle son giusto due curve rispetto a quelle che avete fatto a salire!”

“Giusto due, già…” fece eco Noam, dondolando il capo.

Adrian intanto aveva alzato il naso verso il cielo, appoggiando la schiena al fianco dell’auto.

“È proprio come aveva detto.” constatò “Un cielo lavato.” Poi si voltò verso di lui e abbozzò un sorriso cordiale “Lei come sta?”

In quella richiesta c’era una premura inaspettata e benefica. Non era uno di quegli intercalare a cui ci si aspettava di sentir rispondere “bene, grazie”, e il fatto che gli ponesse una domanda simile davanti a Vòrkne metteva in evidenza quanto Adrian fosse capace di capire, quanto gli fosse chiaro che quel viaggio, Vòrkne, le curve per Mòrask, il cielo di quel mattino e la doccia sotto la pioggia della notte prima fossero parte di un unico, grande problema. Di nuovo desiderò raccontargli ogni cosa, ogni singola cosa. Il Fronte, ciò che lui aveva rappresentato per la politica extraparlamentare di Mòrask, suo padre, l’attentato del Nòdoask, le parole di sua madre. Thièl. Maledizione, Thièl.

“La tua domanda non si merita una risposta di circostanza.” disse “Quindi. Quindi non so. Stamattina sono sereno, ieri sera non lo ero. Ci sono cose in questi luoghi che… che credo di avere rotto. Me le sono lasciate alle spalle senza aggiustarle. E non so se sono aggiustabili. Sono infelice, è vero. E sono anche felice, è paradossalmente e contemporaneamente vero anche questo. Come sia possibile non lo so… ” con lo sguardo coinvolse anche Vòrkne “ma qualcuno qui mi ha detto sono il solo rappresentante decente che questa gente ha, quindi adesso metto da parte il Noam felice e il Noam infelice e mando avanti il Noam che sa fare bene il suo lavoro. Ce la fai a sopportarmi?”

Adrian annuì lentamente.

“Anche io so fare bene il mio lavoro.”

 





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