Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo

di Adeia Di Elferas
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Cesare Riario teneva le mani strette sul petto, in una posa che ormai gli era congeniale e ricordava quella di un penitente intento a chiedere perennemente perdono per i suoi peccati. I suoi passi erano veloci e con la punta dei piedi scalciava senza sosta il bordo un po' consunto del suo vestone nero.

Aveva lasciato l'ospite in una delle sale migliori del palazzo che ospitava lui e suo fratello e si era scusato per il ritardo di Ottaviano, inventandosi una serie di scuse riguardanti degli importanti messaggi cui il Riario maggiore aveva dovuto dedicarsi fin dal primo mattino.

Si sentiva male al pensiero di aver dichiarato il falso con tanta leggerezza e, soprattutto, di averlo fatto per coprire le mancanze del fratello, ma se c'era una cosa che aveva capito era che in quel frangente tutto o quasi era lecito, perfino per un fervente cristiano come lui, pur di fare ciò che la madre aveva chiesto. Nel profondo, per Cesare aiutare la Tigre per quanto era in suo potere rappresentava anche una sorta di piccolo risarcimento per il dolore che lui stesso, assieme a Ottaviano, le aveva causato.

Non aveva mai ammesso apertamente il proprio pentimento per la morte di Giacomo Feo e, in certi momenti, ancora non riusciva a capire se davvero la sua anima fosse giunta a mondarsi da quel fardello, tuttavia, dopo lunghi e difficili esercizi spirituali, era giunto alla conclusione che, per onorare la genitrice come prescrivevano i Comandamenti, doveva necessariamente servirla almeno in quel frangente. Per farlo, doveva mettere Ottaviano nelle condizioni di intessere e coltivare amicizie e aiutare la propria famiglia a ritrovare un posto di comando in quel piccolo mondo chiamato Italia.

Così quella mattina l'Amministratore Apostolico dell'Arcidiocesi di Pisa aveva accolto con gioia la risposta, finalmente affermativa, del Cardinale Sansoni Riario, che aveva infine accettato di vedere sia lui sia il fratello, raggiungendoli personalmente a Piacenza.

Malgrado, però, Cesare avesse mandato a chiamare da tempo Ottaviano, questi ancora non si vedeva e, dunque, per non irritare il loro ospite, spettava a lui andare a cercarlo e convincerlo a presentarsi al cospetto di Raffaele.

Arrivato alla stanza occupata dal fratello, il secondogenito della Leonessa di Romagna si fece in fretta il segno della croce, immaginando cosa avrebbe trovato, e aprì la porta.

Un odore indefinito, dolciastro e nauseante, che andava a mescolarsi a un sentore di sudore e vino, fece storcere il naso a Cesare che, le mani strette sul crocifisso, fissò un punto della parete e si rivolse al fratello: “Devi ripulirti e vestirti. Hai pochi minuti: abbiamo un ospite importante.”

Ottaviano, nudo e ancora intontito dalla lunga notte appena passata, si strofinò gli occhi, premendosi poi le tempie, costernato da una cefalea tremenda. Scostò di mala grazia una giovane cortigiana che gli dormiva accanto e trattenne un conato di vomito dovuto allo stomaco irritato dal troppo vino che ancora non era riuscito a digerire.

Oltre alla ragazza che stava nel letto con lui, Cesare ne intravide un'altra, rannicchiata in un angolo e decisamente meno rilassata della prima. Si capiva subito che quella, a differenza dell'altra, non era una meretrice, ma probabilmente solo una povera sfortunata che non aveva saputo sottrarsi a un'offerta generosa, o che aveva avuto troppa paura a ribellarsi davanti ad attenzioni non desiderate.

A una rapida scorsa, doveva essere stata anche picchiata, e adesso non osava nemmeno respirare, temendo che il suo aguzzino tornasse a infierire su di lei.

Cesare deglutì un paio di volte, mentre il fratello borbottava qualcosa sul fatto che avesse ancora sonno e non volesse vedere nessuno. Da quando avevano intrapreso quel viaggio, il maggiore aveva sceso sempre più la china, e, dopo il soggiorno a Venezia, non era riuscito a stare quasi mai senza la compagnia di qualche donna. Oltre alla spesa, che a volte si faceva ingente, l'Amministratore Apostolico cominciava a non sopportare più nemmeno l'evidente devianza del fratello.

Pur se contro la sua coscienza di cristiano, avrebbe chiuso un occhio davanti a una debolezza sensuale di Ottaviano nei confronti delle donne, ma non passava notte che il Riario non usasse la violenza, in un senso o nell'altro, con coloro che avevano la sfortuna di accompagnarsi a lui, e questo dava a Cesare un profondo senso di nausea che non se andava praticamente mai.

“Ho fatto in modo che nostro cugino Raffaele venisse qui e ora tu ti vestirai, ti profumerai e ti farai vedere felice di incontrarlo.” riassunse il religioso, tornando a fissare la parete per non dover vedere lo scempio dipinto sul volto della povera giovane seduta dall'altra parte della stanza, in lacrime: “Si tratta di una cosa importante.”

Siccome anche dopo quel tentativo Ottaviano si era solo rigirato tra le lenzuola, dicendo addirittura all'altro di non disturbarlo e mettendosi di nuovo sopra alla cortigiana che era con lui e che già rideva, sussurrando parole lusinghiere nei suoi confronti, Cesare decise di usare le armi migliori che aveva.

“Se non farai come dico, scriverò subito a nostra madre spiegandole nel dettaglio di cosa ti occupi ogni giorno e ogni notte invece di curare i suoi affari.” disse freddo il Riario più giovane: “E per quanto riguarda ciò che sta dicendo questa donna, sappi che ti elogia solo perché spera di avere da te più denaro.”

Punto sul vivo, Ottaviano si fermò, scansò con astio le coperte e si alzò dal letto, mostrandosi senza alcuna vergogna al fratello. Nel trovarsi in piedi, gli parve di essere in barca: era ancora più ubriaco di quanto credesse.

Cercando di non perdere l'equilibrio, e di parlare chiaramente, il ventitreenne sbottò: “Se non lo sai, anche nostro padre era desiderato da tutte le donne che conosceva! Lo volevano tutte, a Roma, e dico tutte!” il Riario si trovò a pensare che solo la loro madre, l'altera Caterina Sforza aveva sempre detestato il marito, ma non ebbe la forza di ripeterlo a voce alta, e quindi continuò: “E sai perché tutte lo volevano?!”

Cesare era in difficoltà. Cercava di non guardare il maggiore, ma a volte incrociava il suo sguardo, chiedendosi come avesse potuto ridursi in quelle condizioni. Da anni, ormai, non vivevano sotto lo stesso tetto e trovarsi un Ottaviano così peggiorato nel comportamento e nell'animo stava portando il religioso a farsi molte domande, sia sul presente, ma soprattutto sul passato. Si sentiva come se fosse stato anche lui a un passo dal baratro. Solo la fede gli aveva impedito di imboccare la strada di perdizione che invece stava percorrendo l'altro Riario...

“Tutte le donne di Roma, cortigiane di lusso, cantoniere, giovani vedove, perfino qualche monaca, tutte lo volevano per la sua notevole virilità!” esclamò Ottaviano trionfale, indicando in modo volgare se stesso, per far capire senza ombra di dubbio a cosa si riferisse: “Notevole virilità che come puoi vedere tu stesso io ho ereditato!”

“Per favore – ribatté a quel punto Cesare, guardando platealmente altrove – vestiti e non far aspettare oltre nostro cugino.”

“Fai così solo perché sei invidioso. Cosa nascondi sotto quella sottana da prete?” chiese il maggiore, tenendo le mani sui fianchi e sollevando il mento in tono di sfida.

Pur non volendo arrivare a quello, l'Amministratore Apostolico strinse i denti e concluse: “Va bene, fai quello che preferisci. Se non hai intenzione di incontrarlo, andrò a congedare il Cardinale e poi scriverò a nostra madre, riferendole quanto accaduto...”

Ottaviano rimase come pietrificato. Da che lui e il fratello era partiti da Firenze per raggiungere il nord Italia, aveva visto di nuovo in Cesare un compagno fidato, qualcuno su cui contare, qualcuno che non avrebbe mai fatto la spia, ma che, anzi, avrebbe sempre e solo preso le sue parti in caso di necessità. Invece, con l'andare dei giorni, si era reso conto sempre di più di quanto il minore si fosse irrigidito e di quanto fosse cambiato: non era più il Cesare che lo spalleggiava in tutto quando erano ragazzini, ma un uomo dall'animo vecchio e dall'indole censoria.

“Tu vattene.” ordinò il Riario maggiore, parlando con la cortigiana, mentre cercava qualche moneta per poi lanciargliele.

La donna, contando lo scarso compenso che le era stato corrisposto avrebbe voluto lamentarsene, ma appena prima che potesse schiudere le labbra, intuendo la sua insoddisfazione, Ottaviano sollevò una mano, minacciandola silenziosamente. Memore delle percosse viste infliggere sull'altra ragazza, la cortigiana non aggiunse altro, raccolse in fretta i suoi abiti e sgusciò fuori dalla stanza.

“E anche tu! Levati di torno!” ordinò il giovane, rivolgendosi alla donna che restava ancora rannicchiata contro al muro.

Senza farselo ripetere e senza neppure provare a recuperare i suoi poveri vestiti, che giacevano strappati in terra, la ragazza scappò via inciampando un paio di volte.

“Lei non la paghi nemmeno?” chiese Cesare, con disprezzo.

“No, non la pago.” rispose l'altro, scuotendo il capo e cominciando a cercare il necessario per prepararsi: “Anzi, dovrebbe essere lei a pagare me. Sì, dovrebbe pagarmi perché per una sguattera come lei è un onore poter dire che io sono stato il primo... Certo, adesso suo padre farà fatica a trovarle un marito, perché è difficile trovare un uomo che accetti merce di seconda mano... Non a caso nostra madre ha sempre dovuto accontentarsi, scegliendosi uomini che non andassero troppo per il sottile...”

Senza preavviso, sorprendendo entrambi, Cesare per primo, il Riario più giovane si avvicinò in fretta e, senza dire nulla, diede un forte schiaffo al fratello. Avrebbe voluto dirgli cosa pensava esattamente di lui e come si vergognasse di essere stato cieco e di non essersi accorto, quando erano più giovani e vivevano ancora sotto allo stesso tetto, di quanto la sua anima fosse marcia.

“Ti do dieci minuti. Fai in modo di essere presentabile.” concluse l'Amministratore Apostolico, e, camminando svelto, si sottrasse all'aria malsana e nauseante di quella stanza, andando ad aspettare il fratello fuori dalla porta.

Dopo poco tempo, Ottaviano fu pronto e il fratello dovette ammettere con se stesso che il risultato di quel riassetto rapido era molto meglio del previsto.

Quando i due giovani raggiunsero infine Raffaele, questi era intento a occhieggiare oltre una finestra, comodamente seduto davanti a un calice di vino fresco. Nel sentire i passi dei cugini, si voltò subito verso di loro e fece un cenno del capo, a mo' di saluto.

I suoi occhi vennero letteralmente catturati dal volto di Ottaviano. Non lo vedeva ormai da anni e trovarlo all'improvviso adulto lo stava spiazzando, ma la cosa che davvero lo stava lasciando senza parole era il fatto che il Riario era identico al defunto padre, Girolamo.

Anche se Raffaele conservava un ricordo ormai sbiadito del Conte, nel trovarsene davanti il figlio provò un brivido profondo. Erano simili in tutto, anche se Girolamo aveva avuto un corpo più atletico e, forse, un naso meno importante.

Ancora con la lingua un po' rallentata dall'emozione, il Cardinale, nell'alzarsi a salutare degnamente il cugino, riuscì appena a dire: “Siete identico a vostro padre.”

Ottaviano, nel sentire quelle parole, lo fissò con severità, strinse il morso un paio di volte e poi i pugni lungo i fianchi. Lanciò uno sguardo carico di significati a Cesare, che se ne stava un po' in disparte, e poi fece un sorriso amaro che ricordava più un ghigno.

“Lo so.” disse, gelido: “È da quando sono nato che non mi viene detto altro.” e, scuotendo il capo e sollevando una mano in direzione del fratello, come per fermare sul nascere ogni sua iniziativa, lasciò all'istante la sala.

Raffaele, rimasto basito da quella reazione, allargò le braccia e balbettò a Cesare: “Io... Io non... Io non credevo di dire una cosa brutta...”

Il Riario, con un sospiro, invitò il parente a sedersi di nuovo: “Mio fratello ha passato momenti difficili, lo sapete. Vi prego di parlare con me e fare come se steste parlando a entrambi.”

Il Cardinale Sansoni Riario, un po' contrariato, annuì comunque e ribatté: “Per il grande affetto che vi porto, mi sono arrischiato a venire fino a qui, attirandomi domande e chiacchiere, ma ho voluto farlo perché so che avete bisogno. Quindi, non mandiamo a vuoto questo incontro: discutiamo subito di quello che serve.”

Felice di trovare nel cugino un interlocutore comprensivo, Cesare si permise di distendere un po' i nervi e convenne: “Parliamo di quello che serve.”

L'incontro si rivelò più fruttuoso del previsto, e alla fine sia il Cardinale, sia l'Amministratore Apostolico si potevano dire soddisfatti degli accordi presi.

“Non è da tutti, impegnarsi così tanto per dei lontani cugini...” disse Cesare, nel congedare Raffaele.

“Ho un debito nei confronti di voi tutti – sussurrò Sansoni Riario, alludendo tanto alla parte avuta nella congiura contro Giacomo Feo, quanto al senso di colpa mai sopito per aver preso inconsapevolmente parte alla congiura dei Pazzi che, a distanza di dieci anni, aveva portato alla tomba Girolamo Riario – e poi ci tengo, davvero, al vostro futuro.”

“Grazie ancora.” ribadì il Riario: “E perdonate ancora mio fratello Ottaviano...”

“Io credo che sia solo un giovane uomo confuso.” disse, comprensivo, il Cardinale: “E mi farebbe piacere passare del tempo con lui, fateglielo sapere. Ci vuole molta pazienza, bisogna aiutarlo e capirlo...”

Cesare, che nelle ultime settimane si era trovato saturo dei comportamenti del fratello, avrebbe voluto poter affibbiare subito Ottaviano a quel cugino così disponibile, ma sapeva che non sarebbe stata una mossa saggia, ai fini dei loro piani, così si limitò a dire: “Tra non molto sarò richiamato a Pisa, per i miei doveri da Amministratore Apostolico... Se sarete ancora di questo avviso, per allora faremo in modo che mio fratello vi si avvicini. In questo modo eviteremo anche che sia troppo lasciato a se stesso.”

“Io sarò lì, pronto.” assicurò Raffaele, sinceramente contento di quel compito futuro: “Per il momento, che Dio sia con voi.”

“Anche con voi.” fece eco Cesare e, baciato l'anello cardinalizio del parente, concluse l'incontro con un accorato: “Pregate per noi tutti, cugino: ne abbiamo gran bisogno.”

 

“Mi spiace di non essere arrivato qui in tempo per il compleanno di Sforzino...” disse piano Fortunati, le mani intrecciate sul petto che si sollevava e abbassava lentamente.

“Non darti pensiero... Era contento lo stesso del regalo che gli hai portato.” lo tranquillizzò Caterina, chiudendo ancora un momento gli occhi e assaporando il fresco che entrava dalla finestra aperta.

Era molto presto, il sole era sorto da pochi minuti, ma il piovano e la Tigre erano già svegli, o, per meglio dire, lo erano ancora. La sera prima, sotto una pioggia battente che preannunciava già il vicino settembre, Francesco era arrivato da Firenze con un libro per Sforzino – che aveva compiuto da pochi giorni quindici anni – e con molte notizie da riferire alla Leonessa. Essendo già passata l'ora di cena, aveva cercato Caterina direttamente in stanza e questa, smossa in parte dalla profonda solitudine che provava e in parte da un sincero trasporto verso di lui, aveva vinto in fretta le ritrosie del piovano e l'aveva preteso senza troppi preamboli, convincendolo con poca fatica a rinviare i discorsi a più tardi.

La fame della Sforza si era dimostrata tutt'altro che semplice da placare e così Fortunati aveva avuto modo di iniziare a riferire le novità apprese in Firenze solo quando ormai albeggiava.

Una delle cose principali che l'uomo aveva da raccontare riguardava Arezzo: Firenze, ottenuto il nulla osta del re di Francia, aveva ripreso possesso della città e molti notabili aretini che avevano invano cercato di favorire il tentativo di ribellione erano scappati o a Siena o nelle campagne vicine.

I fiorentini, inoltre, avevano promesso mille franchi a Monsignor Melun affinché facesse restituire alla Repubblica l'artiglieria, le munizioni e anche le campane della cittadella, rubate da Vitellozzo Vitelli. Tutto ciò, insomma, che era stato portato via da Arezzo, Cortona e Borgo San Sepolcro dal Vitelli, dal Baglioni, dall'Orsini e da Piero Medici andava ritrovato e riconsegnato a Firenze. Non si trattava di un compito facile, ma in molti dubitavano che i condottieri sopracitati osassero opporsi alla restituzione del maltolto, viste le pressioni fatte dal re di Francia in tal senso.

“E della questione del Gonfaloniere cosa ne pensi?” chiese di punto in bianco Caterina, mentre ripercorreva nella mente tutto ciò di cui lei e il piovano avevano discusso poco prima.

Francesco le aveva spiegato che proprio quel giorno, alla Signoria, si sarebbe votato un provvedimento molto importante che voleva l'elezione di un Gonfaloniere a vita, una sorta, insomma, di Doge per Firenze. La scusa ufficiale riguardava le spese troppo ingenti per le frequenti elezioni e per il rinnovamento continuo dei funzionari collegati al magistrato, ma tanto il piovano quanto la Tigre sapevano che le motivazioni vere erano ben altre.

“Penso che se i nostri amici riusciranno a far vincere la loro fazione, sarà meglio per tutti.” fu la laconica risposta di Fortunati.

La Leonessa fece un sospiro pesante e cercò la mano dell'uomo con la sua. Anche se dalla finestra spirava un'aria sottile e fresca, retaggio della pioggia della sera prima, la donna cominciava ad avere già caldo. A differenza del fiorentino, che si era coperto fino ai fianchi probabilmente per una sorta di pudore che ancora non riusciva a vincere, lei restava supina e nuda, non sopportando il peso delle lenzuola nemmeno sulla punta dei piedi.

“Se il Gonfaloniere a vita dovesse essere quello che vogliono i Salviati – prese a dire la milanese, sforzandosi di essere ottimista – questo potrebbe voler dire più libertà per me? Potrebbe voler dire anche che potrò archiviare una volta per tutte le minacce di Lorenzo e riportare qui con me mio figlio? Che potrò finalmente mettere le mani sulle altre proprietà di Giovanni e liberarmi della maggior parte dei servi che...”

“Una cosa per volta.” la frenò Francesco, a cui non piaceva quell'accatastarsi di pensieri e speranze, sintomo, a suo dire, della lucidità non ancora perfetta della mente di Caterina che ancora sotto pressione faticava a tenere la barra dritta: “Adesso aspettiamo l'esito delle votazioni e poi pensiamo a Bianca... Quest'autunno avremo modo di capire il resto.”

La Sforza non disse nulla. Non aveva voglia di contraddire il piovano, ma restava dell'idea che fosse indispensabile pensare subito a tutti i possibili scenari futuri, in modo da poterli prevedere e poterne prevenire gli strascichi peggiori. Se non si stava impuntando apertamente, era solo per godersi ancora qualche minuto di pace, prima che cominciasse una nuova giornata.

Nell'ultima settimana aveva desiderato spesso la compagnia di Francesco e quella notte era stata accontentata. Si sentiva tutto sommato bene e la sua malattia – febbri ignote o malaria che fosse – la stava lasciando in pace. Poteva addirittura permettersi di sentirsi relativamente tranquilla per quanto riguardava i figli, malgrado non avesse notizie dirette di Ottaviano e Cesare da qualche tempo. E dunque, perché mai avrebbe dovuto rovinare quell'attimo di pace?

Era vero, alla villa di Castello le giornate le sembravano tutte uguali e, se proprio succedeva qualcosa, si trattava sempre di qualcosa di spiacevole o ansiogeno e, dunque, la Leonessa si trovava, contro ogni aspettativa, a sperare nella monotonia.

“Quando potrò andare a caccia senza doverlo fare di nascosto?” chiese Caterina, ma nello stesso momento anche Fortunati aveva rotto il silenzio, porgendole una domanda.

“Quando nascerà di preciso il figlio di Bianca?” aveva domandato lui.

Sicura che, tanto, al proprio quesito non avrebbe ottenuto una risposta soddisfacente, la Tigre si accigliò e poi disse: “Credo per fine settembre... Entro metà ottobre, almeno.”

“Allora manca poco.” valutò il piovano, calcolando che erano già agli sgoccioli di agosto.

“Sì.” ammise la donna: “Mi dà una strana sensazione, pensare di diventare nonna.”

“Hai già una nipote.” le fece notare il piovano, ma dal modo sbrigativo in cui la sua amante mosse una mano in aria, capì che non era il caso di insistere, anzi, per cercare di riparare all'irritazione che aveva causato alla sua amata con quell'allusione a Cornelia, l'uomo si mise sul fianco e, lentamente le accarezzò la coscia, stando attento a non osare troppo, in attesa di avere il permesso esplicito per andare oltre.

“Fa caldo.” fece, con eccessiva durezza la milanese e lo scostò.

Con un respiro profondo, Fortunati si mise a sedere e poi, con un velo di goffaggine, si alzò e cominciò a recuperare i propri abiti: “Hai ragione. E poi sta venendo tardi... Se non voglio che qualcuno mi trovi qui è meglio che mi prepari...”

Quella frase, detta per caso, riportò alla mente della Tigre tante immagini. Ricordava molto bene quando il Castellano Cesare Feo andava a cercarla in camera per qualche motivo e la trovava in compagnia di un amante. La faceva sorridere il modo in cui lo zio di Giacomo dissimulava il suo imbarazzo, comportandosi come se non ci fosse assolutamente nulla di strano...

Adesso davanti a lei c'era un uomo molto diverso da molti dei suoi passati amanti. Francesco era un uomo maturo, colto e molto lontano dal mondo dei soldati. Anche in quel momento, mentre cominciava a rivestirsi, dandole le spalle, manteneva perfino nei suoi confronti una sorta di reverenziale pudicizia che era mancata in quasi tutti quelli che Caterina aveva conosciuto. Il suo Giacomo, lui sì, all'inizio aveva fatto fatica a lasciarsi andare, nel quotidiano. Anche se l'amava in modo disperato, ci aveva messo un po' di tempo a non preoccuparsi del suo giudizio o, forse, a capire che questo era sempre positivo e a farne, quindi, una forza.

Scacciando il ricordo del Feo, che portava sempre con sé un retrogusto crudele, la Sforza si concentrò sul piovano, ormai quasi pronto. Si sentiva fortunata ad aver accanto un uomo del genere, dato il particolare momento che stava vivendo...

Avrebbe voluto dirglielo, ma quando schiuse le labbra le uniche parole che riuscì a far uscire furono: “Cominciavi davvero a mancarmi...”

Sollevando un sopracciglio, il fiorentino fece notare: “Se mi avessi voluto anche prima, non avremmo aspettato fino ad adesso...”

“Intendi dire che ogni volta che ti vorrò mi basterà schioccare le dita per averti nel mio letto?” fu la domanda, divertita, ma anche interessata, della Leonessa.

L'uomo arrossì, sentendosi quasi un giocattolo nelle mani della donna che amava, aveva parlato senza dare peso alle parole. Tuttavia, non poteva dire di volersi negare...

“In fondo – borbottò – abbiamo cominciato così, no? Tu hai detto di aver bisogno e io ho...”

“Io voglio che anche tu abbia bisogno di me.” lo zittì la Sforza, puntellandosi sui gomiti e fissandolo con insistenza: “Altrimenti tanto vale che mi cerchi qualcuno da tenere a busta paga e da chiamare qui tutte le volte che mi serve...”

Sospinto da un istinto primordiale, che si risvegliava solo quando era con la sua amata, il piovano aggirò in fretta il letto e si chinò verso di lei, per baciarla. Assecondato dai movimenti della Tigre, si trovò si nuovo steso, stretto tra le braccia di lei, le labbra che la cercavano senza posa.

“Io ho sempre bisogno di te.” le confessò, con la voce strozzata.

In quel momento, Caterina non aveva difficoltà a credere che Francesco sentisse l'impellente necessità di amarla, tuttavia non era certa che il suo bisogno fosse sempre così pungente, a costante sottofondo delle sue giornate. A Fortunati invidiava la fede e il modo in cui essa riempiva i suoi vuoti. Per lei, invece, non c'era molto con cui colmare bisogni e paure...

Trascinata dall'insistenza con cui il fiorentino stava ricominciando a pretenderla, ridendo leggera davanti al modo frenetico con cui lui lottava con le brachette che portava sotto al vestone, Caterina si dimenticò per qualche minuto di tutto il resto.

A riportare entrambi alla realtà, però, arrivò un bussare insistente e ruvido alla porta, un genere di annuncio che la Leonessa ormai sapeva ricondurre facilmente a Creobola.

Spostando quasi di peso il piovano, la donna lasciò in fretta il letto e afferrò la veste da notte che teneva sull'inginocchiatoio. Nella fretta, la mise al contrario, ma non se ne accorse.

Quando schiuse appena l'uscio, i capelli disordinati e il respiro irregolare, le scappò da ridere, ricordando ancora una volta tutte le occasioni in cui il povero Cesare Feo si era presentato davanti alla sua stanza sorprendendola involontariamente assieme a qualche amante.

“Mi avevate detto di consegnarvi subito qualsiasi messaggio in arrivo da Bologna.” mise in chiaro Creobola, quasi a voler sottolineare come lei, altrimenti, non si sarebbe mai permessa di disturbare la sua signora a quell'ora, e infatti aggiunse: “Mi auguro di non avervi svegliata...”

“No...” confermò la milanese, con un sorriso strano, che la serve non capì, ma che la istigò a guardare curiosa oltre le spalle della sua padrone, chiedendosi se non vi fosse qualcun altro in camera con lei. La Leonessa, però, fu rapida a sufficienza nel congedarla e nel richiudere la porta da impedirle di vedere alcunché.

“Una lettera da Bologna?” chiese, con tono caustico, Francesco, che, per paura di essere colto in flagrante da qualcuno, si era già rivestito di tutto punto.

“A Bologna c'è mia nipote Ippolita. La figlia del mio defunto fratello Carlo.” gli ricordò la donna, mettendo la missiva sulla scrivania, decisa ad aprirla una volta che fosse rimasta sola: “Direi che non c'è nulla di strano, a voler tenere rapporti distesi coi miei parenti, non credi?”

“Caterina...” cominciò a sospirare l'uomo, scuotendo il capo, sentendosi frustrato non solo nel corpo, ma anche nello spirito: “Ti ho già pregato di stare calma, di non ingarbugliare ancora di più le cose...”

“I miei figli si meritano da parte mia che io almeno riallacci buoni contatti coi nostri parenti.” si trovò a dire la Tigre, sorvolando magistralmente su tutti i progetti che invece continuava a seguire e anche sul parere che le aveva dato Bianca, sull'idea di presentarsi in Romagna come dispensatori di pace e farsi rimettere al governo con le buone: “Non devo più pensare a me, ma a loro. E dunque se posso rendere loro la vita più semplice parlando bene delle loro qualità ai nostri parenti e ai nostri amici...”

Fortunati, che aveva capito benissimo come quel panegirico servisse solo a confondere le acque, agitò le mani in aria e si impose di non indagare oltre: non aveva alcuna voglia di arrabbiarsi con Caterina proprio dopo la notte che avevano trascorso assieme.

“Ascolta...” fece, invece, ricollegandosi a un discorso che avevano affrontato in precedenza: “Ora c'è in forse la questione del Gonfaloniere, ma appena tutto si sarà risistemato, i Salviati vorrebbero un incontro.”

“Tutti e due?” chiese la donna, accorgendosi in quel momento di aver indosso la veste da notte al contrario e preferendo toglierla che non perdere tempo a raddrizzarla.

Un po' distratto nel rivedere nuda la sua amante, il piovano deglutì un paio di volte e quando già la Sforza stava indossando un abito da giorno, rispose: “No... No, in effetti no. Vogliono che tu incontri Jacopo, da sola.”

“Va bene. Dove?” chiese allora lei, curiosa di scoprire fin dove sarebbe arrivato il potere dei Salviati, dato che non tutti i posti andavano bene, per una donna nella sua condizione di osservata speciale.

“Credo alle Murate. Ti recherai lì per vedere Cornelia...” iniziò a dire lui.

“E invece vedrò Jacopo Salviati.” concluse la Leonessa.

“E anche Cornelia. È pur sempre tua nipote: è giusto che passi del tempo anche con lei.” la bacchettò Fortunati.

La sola idea di trovarsi di nuovo da sola con quella bambina, che somigliava ogni giorno di più a Ottaviano, che era nata dalla violenza proprio come il padre, diede una stretta allo stomaco della Tigre, che, tuttavia, annuì e ribatté: “Certo, la vedrò volentieri.”





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