Runica - Sorgi e Splendi

di Leo_Zanardi
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1. ALL’OMBRA DELLA FORGIA

 

Il primo che ha intagliato dalla pietra la prima arma fu anche il primo a sedere su un trono.

 – Fridun Nix, filosofo di Dulinhall

 

Ed aprì gli occhi e in un unico, concentrato, istante fu immediatamente sveglia. Non era insolito, per lei, svegliarsi in una frazione di secondo: era come protestare contro il sonno che tante preziose ore di lavoro le sottraeva. Cercò con le mani il berretto accanto al letto, il suo caro, vecchio berretto “da strillone” come si diceva in città, perché era spesso usato dai ragazzi che urlavano le notizie. Lo carezzò con affetto, congratulandosi con sé stessa per il suo buono stato.

Se si rovinasse, che penserebbero i miei amici?

Indossandolo cercò di togliersi dal viso le ciocche rosse dei suoi ingovernabili capelli; ciononostante, svariati ciuffetti continuavano a finirle ostinatamente sugli occhi e per questo imprecò a profusione – sebbene anche questo rientrasse nella normalità – poi cercò gli occhiali da fabbro, pulendoli distrattamente dalla fuliggine, e li usò per stringere il berretto sui capelli. Si guardò intorno: lo stanzino esagonale di pietra chiara che ospitava il suo letto era debolmente illuminato dalla luce color crema di un cristallo, vi cercò lo specchio, una placca ottagonale che la rifletteva perfettamente: le occhiaie non erano sparite con quelle poche ore di sonno. Passò una mano sulle sue guance nere e lucide come l’onice, nere come il resto del suo corpo.

Magnifica presenza, un viso aristocratico degno delle nobili stirpi dei nani, testimone della purezza del sangue.

Chissà dove tutte le nobili stirpi erano andate a finire con la loro purezza? Pur infastidita da quel ricordo indesiderato, dovette ammettere con sé stessa che era stato comodo avere ancelle sempre dedicate alla sua bellezza, a mantenere lucida la sua pelle nera, luminoso ogni riflesso dei suoi capelli ramati, impeccabili le sue vesti di aristocratica purosangue; col tempo il lavoro aveva imposto i suoi segni sopra tutto questo e lei era troppo impegnata o stanca o distratta per  farci qualcosa.

In ogni caso, mi preferisco così. Sono più bella in questo modo… diciamo.

Si tirò in piedi, calpestando la coperta di pelle d’orso. Pose una mano sulla parete e chiuse gli occhi, concentrandosi come solo un nano poteva fare sulle vibrazioni che percorrevano il suolo: percepì che la temperatura della superficie era piuttosto bassa, quindi infilò sopra i pantaloni dell’uniforme  un gilet rosso scuro in tartan. Un pesante sospiro e, infilati gli stivali, non le rimase che girare la valvola e, con essa, la parete dell’abitacolo cominciò a roteare fino a schiudersi del tutto. La volta della galleria le si aprì davanti: tutti gli altri esagoni erano già aperti e vuoti, ciascuno degli apprendisti nani che vi riposava era sicuramente già alla Forgia, o quasi; sopra la galleria la città era già sveglia e attiva, poteva sentire il calpestio della gente che si spargeva sulle strade. La campana suonava la nona ora, poté sentirlo anche attraverso le mura sotterranee, e lei era di nuovo in ritardo.

***

Jen si sciacquò di nuovo il volto con l’acqua fredda del fiume, poi rimise mano al bucato. Da ormai due anni era diventata quel che si dice una donna di casa, ma il suo corpo di sedicenne, figlia maggiore che era stata coccolata e addirittura – nei limiti della sua famiglia, non certo abbiente –  quasi viziata, faticava ad accettare il cambiamento. Le sei del mattino andavano bene per dormire, non per fare il bucato nel fiume gelato. Ma come aveva fatto sua madre a lavorare così, da quando suo padre era mancato? Tuttavia, senza dubbio, Jen preferiva proprio le ore che precedevano l’alba, quando poteva lavorare in pace con il sole come unico compagno, sole che era ancora soltanto un sospetto rossastro oltre l’orizzonte. Le ore successive andavano peggiorando, via via che la costruzione svettante al centro del lago in fondo alla valle prendeva vita. Suonava quasi la nona ora, adesso, e le bocche incandescenti della Forgia sputavano senza sosta fumo nero che divideva il cielo in ampie fette di azzurro; e come ogni giorno, intorno le volavano in cerchio quelle cose, che si sarebbe potuto scambiare per uccelli ma che certamente non lo erano. Ogni tanto qualcuna doveva spostarsi verso altre città e passava sopra le loro teste, spaventando gli animali. Un paio erano atterrate davanti alla fattoria, probabilmente avendo scambiato le pecore per un manipolo di banditi o qualcosa del genere, ma fortunatamente limitandosi a squadrare Lor e Yul per un po’ per poi ritornare al luogo che erano preposti a custodire. Nel pomeriggio, la struttura perdeva sempre più i suoi contorni nel cielo che imbruniva, fino a lasciare visibili solo le ciminiere accese, come occhi incandescenti di un ragno che troneggiava perfido sul lago. Di certo anche da Kalaston, le cui bianche case erano pigramente adagiate sul versante opposto, potevano vedere la Forgia, ma per loro non avrebbe mai avuto lo stesso significato: per la città, la Forgia che sorgeva al centro della valle significava l’armonia tra umani e nani, l’espansione del benessere della città, la dimostrazione della forza di quella comunità un tempo insignificante; per la campagna, era un’invasione di campo, una contaminazione del proprio spazio vitale e in sostanza una convivenza forzata.

***

Valiel interruppe la meditazione quasi costringendosi; il sole filtrava tra i raggi illuminando da diverse angolazioni proprio ciò che lo aveva disturbato. Era un lupo enorme, dal manto striato di diverse tonalità brune, gli occhi profondi puntati dritti nelle sue iridi chiare di elfo, due gemme ambrate nel suo viso olivastro. Alzandosi da terra, il fogliame che s’intrecciava nel mantello di Valiel cambiò colore e forma, abbandonando le verdi foglie ovali del suolo che imitava e tornando alla loro reale forma bruna e frastagliata.

Camminò verso l’animale e gli pose una mano sulla fronte: «Minacce?» domandò al lupo in una lingua non umana.

L’animale fece un cenno e corse in una direzione ben precisa, tra gli alberi. L’elfo saltò agilmente tra i rami per arrivare in alto, così da individuare cosa fosse a spaventare la foresta, e guardò nella direzione in cui era corso il lupo. Finalmente riuscì a vederli: passarono in fretta, ad una velocità che l’occhio umano non avrebbe seguito facilmente, erano in quantità decisamente insolita ed anche diversi per forma e dimensione da quelli che volavano intorno alla Forgia poco distante; sebbene si spostassero fluidi tra un albero e l’altro era facile capirne la traiettoria, erano diretti proprio lì alla Forgia o forse alla città di Kalaston, poco oltre. Tuttavia volavano bassi e le loro forme, che gli ricordarono dei pesci manta, stavano in verticale tra gli alberi, così da tagliare l’aria come una spada e da spostarsi tra gli alti tronchi senza essere visti: se fossero stati diretti ad una grande città, quella precauzione non avrebbe avuto alcun senso. Sicuramente volevano percorrere la foresta fino a valle e poi raggiungere la Forgia nascosti sotto il pelo dell’acqua lacustre. Valiel rimase per un po’ indeciso sul da farsi; disegnò un ampio semicerchio con lo sguardo cercando qualcun altro sui rami, prima di constatare che era l’unico ramingo nelle immediate vicinanze. Non sapendo quanto fossero passati vicino a Evalunith, era impossibile determinare se altri elfi li avevano notati, se avessero riportato qualcosa ai rifugi e se avessero ricevuto ordini dalla regina. In effetti, come poter anche solo ipotizzare che fosse qualcosa degna di nota? Se non vedeva con i suoi occhi quelle cose tuffarsi nel lago, e quindi riportare alla Forgia qualcosa di estremamente importante, estremamente urgente ed estremamente segreto, non poteva concludere di aver visto alcunché di strano. L’unica via, dunque, era cercare di seguirli.

***

La piastra rovente faceva sfrigolare il pane al contatto col burro fuso. L’odore di maiale affumicato e formaggio stagionato iniziava, con il calore, ad abbandonare il pane tostato e a diffondersi nell’aria.

«È bello caldo ormai, perché non ci spacchi due uova sopra?»

«È ancora presto, Ed, non cuocerebbero».

«Io dico di sì e ho fretta».

«Ukor sia benedetto! Mi lasci lavorare?»

Ed decise di non parlare più finché Wulf non decise che era effettivamente il momento di rompere due uova sul toast. Si batté una mano sulla fronte nera come a commentare lo spettacolo di un individuo senza speranze. Dall’alto partì un secondo flusso di calore, che doveva cuocere le uova.

 «È inutile fare il muso. Non ho colpa se ritardi sempre. E poi è giusto il secondo stamattina, spero non ti mangi solo questi per colazione. »

Ed sbuffò guardando di lato, mentre le sue dita nere agguantavano il pane ancora rovente. Dovette aspettare ad addentarlo: la pelle dei nani resisteva bene al calore, ma la lingua non poteva dirsi troppo migliore di quella di un umano o un elfo.

«Prendi solo quello? Sono due giorni che mangi come un bimbo. Fattene almeno altri due!»

«Una colazione leggera andrà bene, per oggi… non rischio di morire di fame ed ho fretta. Se volevi che ne mangiassi quattro dovevi essere il doppio più svelto» ribatté lei alzandosi.

«Un po’ di yogurt col miele? Del formaggio fresco? Birra nera?» insistette l’altro.

«Non ho fame ti dico!» sbottò infine mentre già si accaniva senza remora su pane, prosciutto, formaggio e uova che soccombevano ai suoi morsi.

«Lasciami stare! Sto a posto così» assicurò parlando a bocca piena.

Wulf decise che era il suo turno di tenerle il broncio. Ed lo notò all’istante.

«Scusa» sussurrò lei «è che… sono davvero indietro con quel lavoro… i nervi mi chiudono lo stomaco…»

Wulf soffiò fuori dalle narici tutta la sua insoddisfazione per quel tentativo di scuse. Ma prima che il lungo, collaudato e ripetitivo rituale delle scuse tra amici potesse durare oltre, un tremito nella parete di roccia segnalò l’arrivo della funivia che l’avrebbe portata direttamente alla Forgia passando per il sottosuolo.

«Mi farò perdonare! Domani ne mangio almeno sei!» cercò di scandire Ed tenendo il toast nei denti, mentre si avviava.

Si annunciava una pessima giornata. Doveva arrivare alla Forgia senza passare dalla superficie per sbrigarsi e la cosa la indispettiva: aveva proprio voglia di vedere il sole. Inoltre, malgrado i Mastri avessero annunciato un giorno importante, la cosa non aveva avuto un impatto apprezzabile sulla sua puntualità. Questo non sarebbe passato inosservato.

***

Sette giovani nani muovevano il loro corpo in sincrono, la tensione dell’attesa che esplodeva in movimenti spigolosi e decisi secondo un ritmo silenzioso ma ben inciso nella loro memoria. Sette mani tracciarono in aria delle grandi rune dal medesimo significato: “Ukor”. Era l’ultima parola dell’esercizio e lo concludeva, il nome del dio patrono dei nani, il grande fabbro, e la parola finale del ringraziamento religioso per gioire insieme dell’opera appena creata. Il potere della runa richiamò quello di Ukor, il cui nome era appena stato inciso sette volte nell’aria, e i segni tracciati si colorarono di un bagliore incandescente. I sette apprendisti trascinarono rune fiammeggianti col dito indice, fino ad apporle nelle forme metalliche appena create, dove si incisero oscurando l’acciaio. Si erano incise in totale tre rune su ciascuna delle sette lame, e ciascuna lama aveva quindi ricevuto il medesimo nome: Spada Consacrata ad Ukor. Lo stesso nome di migliaia di opere identiche, prima di queste; Ed osservò la sua con sguardo annoiato: un’opera uguale a tutte le altre non poteva dirsi veramente sua ed era certa che ciascuno dei suoi compagni la pensava allo stesso modo. Perché solo lei non si preoccupava di nasconderlo? Odiavale ipocrisie anche e soprattutto quando un’intera società le praticava.

«Bene, bene…»

Mastro Airon si carezzò il pizzetto corto e appuntito e prese a camminare tra loro lasciando ondeggiare l’ispida, lunga coda che legava i suoi capelli bianchi. Gli altri mastri seguivano Airon con lo sguardo. I suoi lineamenti color cemento si contrassero varie volte in maniera appena percettibile e sempre differente, come se ciascuna di quelle creazioni metalliche apparentemente identiche meritasse un discorso a parte; tuttavia, a causa della lente semicircolare che gli circondava il viso, coprendo completamente gli occhi, era impossibile determinare chi di volta in volta stesse guardando attraverso la superficie riflettente. Dopo aver esaminato ciascuno di loro, parlò.

«Molto bene. Ora provate a sentire ciò che avete creato. Ad entrare in comunione con esso».

Erano oggetti simili a ruote metalliche; da un lato del cerchio si allungava una lama lunga, larga e piatta: erano spade che erano state pensate per non essere impugnate, per muoversi nell’aria seguendo la volontà del loro padrone, dato che di solito questa è più veloce della mano dello stesso. Ciascun apprendista mise il pugno chiuso sopra il cerchio, rivolto verso l’alto, e così sentì una corrente collegare il dorso della mano all’epicentro del potere che aveva appena imbrigliato nel metallo. Le armi scivolavano nell’aria fino a fissarsi all’altezza del gomito, così da essere come una prosecuzione del braccio stesso. In sincrono gli apprendisti sollevarono i pugni, che trascinarono con sé, sospese a mezz’aria, le lame, mentre come a passo di danza tutti e sette vibravano un colpo di taglio quasi a voler tranciare l’aria in due. Ed, proprio come ciascun altro apprendista, constatò con soddisfazione che la lama seguiva il braccio, come doveva.

«Imparate ad usare l’attrezzo più importante: la vostra mente. Essa è a sua volta uno strumento, uno strumento dell’anima. E così l’anima forgia la mente ed essa tramite il corpo forgia la realtà. E se la vostra carne, originata da voi, può sottomettersi all’impulso della mente, perché non può farlo il metallo? Convincetevi di questo!»

L’esortazione urlata dal Mastro Airon echeggiò nell’ampia volta della sala tempestata di incudini di diversa altezza poste ad ugual distanza, come capitelli ornamentali nella sterminata superficie di un tempio. Sembrava che avesse parlato la Forgia, nella sua interezza. Era piuttosto vicino ad Ed e quando urlò di nuovo la fece quasi sussultare.

«Convincetevi! La vostra convinzione scolpirà la realtà stessa! Ora… mostratemelo!»

Lentamente, le lame fluttuanti presero a roteare su se stesse, come i loro padroni chiedevano loro di fare. Ben presto iniziarono a scatenare una pioggia di scintille dai colori rosso fiamma e verde acqua, i colori del fuoco sacro di Ukor, la cui vista ipnotizzava i nani sin dalla nascita. L’energia magica era intrinsecamente legata a ciascuna lama, ciascuna runa aveva operato correttamente, ciascun apprendista era riuscito nell’intento.

«Il potere di forgiare» prese a dire Airon «è un potere creativo. È nato per costruire e non per distruggere. E tuttavia, ci è data la possibilità di forgiare armi. Nell’arma imbrigliamo la nostra voglia di distruggere, la nostra aggressività, e le permettiamo di resistere nel tempo, addirittura possiamo donarla ad altri perché combattano per noi o per sé stessi».

Il Mastro tacque per qualche secondo, come per dare il tempo a ciascuno di pesare bene quelle parole. Le lame continuavano a girare descrivendo cerchi perfetti. Nessuno perse la concentrazione.

«Invero, quello di creare armi è un potere enorme e terribile. E tuttavia alcuni di voi sceglieranno di usare questo potere creativo, come abbiamo fatto oggi, proprio per creare armi che distruggono. Per combattere per gli altri o per sé stessi. Ma chi di voi si sente in grado di piegare tale potere? Di controllarlo? Di dominarlo?»

Il Mastro passeggiò pazientemente tra gli allievi. Constatò con un dispiacere molto ben celato che nessuno di loro aveva perso il controllo della lama, che manteneva costanti velocità e traiettoria. Tutti loro, dunque, sarebbero probabilmente diventati fabbri di armi, un esito che negli anni era sempre più comune al concludersi degli apprendistati. Le altre arti, invece, si facevano sempre più rare. Quasi che i giovani stessero col tempo maturando una necessità ormai insopprimibile di violenza. Veniva da chiedersi che senso avevano avuto, per le generazioni che li avevano preceduti, i tanti sforzi per arrivare finalmente a lunghe parentesi di pace nella trama della storia, se poi anche nella pace permaneva una atavica nostalgia delle epoche insanguinate. Un ciclo infelice in cui gli avi soffrono per ottenere una pace che i loro discendenti non tengono in gran conto.

«Molto bene» concluse a malincuore «la vostra determinazione è forte. Ora imponete voi stessi a voi stessi: che si fermino le lame… ora!»

Le lame erano ormai indistinguibili, solo cerchi di metallo acuminato e roteante, eppure appena fu impartito l’ordine di Airon agli studenti, e dagli studenti ai loro strumenti, questi si immobilizzarono a mezz’aria nello spazio di un frammento di secondo. Imperlata di sudore, Ed guardò la punta della sua lama raffreddarsi e perdere il suo bagliore rossastro mentre le scintille saltellavano spegnendosi sul pavimento.

***

Non ci mise molto ad individuare Svea che passeggiava lungo la balconata, godendosi l’acqua profonda priva di increspature del Lago Kalst e le ciminiere che si specchiavano perfettamente in esso.  Da sempre Ed era affascinata dalla figura del Mastro Svea, la cui eleganza e femminilità non avevano nulla da invidiare ad una principessa elfica. Dai suoi capelli, bronzei come la pelle di lei, lisci e perfettamente sfrangiati, partivano libere, dalla sommità del capo, tre lunghissime trecce che scendevano lungo tutta la figura vestita di bianco candido; intorno al collo e ai polsi indossava gioielli, si diceva, di sua personale fattura, che sembravano come di fuoco liquido e cambiavano costantemente forma, creazioni raffinate come Ed non aveva visto da nessun’altra parte. Secondo l’antica saggezza dei primi Granmastri, l’artigiano deve in generale saper parlare con il suo elemento, comprenderlo, fondersi con esso – creta, roccia, legno che fosse. A tale regola fa eccezione il fabbro, che sul fuoco deve prima di tutto sapersi imporre con la propria volontà, persino con violenza; ma Svea costituiva una ulteriore eccezione: sembrava poter ragionare col fuoco e i metalli e domarli come fossero docili animali ammaestrati, spingendoli a prendere forma con una precisione e un perfezionismo che le mani, di umano o nano, non avrebbero mai ottenuto battendo direttamente sul metallo rovente. Era un ideale a cui aspirare non solo per Ed ma per moltissimi giovani apprendisti, maschi e femmine. Era, oltre che una forgiatrice eccezionale, incredibilmente elegante e nobile nel modo in cui solo una donna può essere, due tratti che in lei erano in armonia e non in contrapposizione: un traguardo tanto ambizioso che Ed aveva da tempo scelto di rinunciarvi del tutto.

«Mastro!» chiamò.

Svea si voltò e sorrise nel riconoscere la figura nerissima di Ed. L’apprendista corse entusiasticamente verso di lei, che si appoggiò delicatamente alla balaustra.

«Un’opera di ottima fattura, quella di oggi. Non ti manca molto per concludere l’apprendistato».

Ed ribatté con una smorfia annoiata: «Ottima fattura? Erano tutte uguali».

Svea ridacchiò sommessamente: «Sei davvero benedetta da Ukor, oltre alla sua arte possiedi la sua impulsività. Devi avere pazienza e affrontare il percorso per gradi. E poi non dimostri buonsenso a lamentarti: dopotutto proprio l’esecuzione perfetta della prova di oggi ti è valsa il perdono per il tuo ennesimo ritardo».

Ed sbuffò stravaccandosi sulla balconata. Non provò nemmeno a ribattere, si limitò a riflettere tra sé e sé su quanto Svea avesse, assieme al potere di affascinarla, quello di deluderla. Per quanto la sua mente potesse essere aperta e decisamente geniale, ogni volta che si aspettava più comprensione da lei, Svea era un muro di gomma e non rinunciava a difendere tutte le regole che governavano la vita nella Forgia. Stupide, inutili regole.

«Sai bene che vado molto oltre quella roba, Mastro» obiettò debolmente, senza sperare di convincerla.

Per un momento Svea sembrò accennare un assenso: sapeva bene che quella non era semplice vanteria ma la sfidò immediatamente: «Perché sei qui, se lo pensi veramente?»

«Anche qui ci sono cose che devo ancora apprendere».

«Non è la vera ragione» obiettò Svea ma non insistette oltre: «Sia come sia, devi comunque fare il tuo percorso come tutti gli altri. Non è bene iniziare un viaggio dalla sua meta».

Ed nascose il volto tra le mani: «Ancora con questi sermoni. Mi annoio talmente tanto che a volte penso potrei mummificarmi qui dove sono. Diventerei un caso interessante… unico… scriverebbero libri sulla mia mummia. Voglio dire, su di me».

«Col tempo capirai» con questa frase Svea intendeva ogni volta, piacesse o no, chiudere definitivamente il discorso.

Dopo qualche minuto, Svea riprese a parlare: «Sei determinata ad abbandonare la Forgia? Potresti diventare un vice-Mastro in pochi anni. Renderesti gloria a questo luogo».

«Non m’interessa la gloria. Anzi, la evito».

«Allora non ti resta che il Pellegrinaggio dell’Apprendista».

«Infatti».

«Hai pensato a che materia prima cercare? A cosa creare con essa?»

«Ho alcune idee» alluse Ed con un sorriso.

«Sì… Quaquathor mi ha detto che hai sfoggiato un sacco di nuove trovate alla Prova della scorsa settimana».

«Ha detto così…? Di sicuro in una luce più negativa».

«Hai pregiudizi su di lui».

«E lui su di me» si difese la giovane.

Quasi come se lo avesse richiamato, suo marito salì le scale da cui anche Ed proveniva. Mastro Quaquathor rappresentava tutto ciò che la sua compagna Svea non era: aveva la figura tarchiata, una folta barba e capelli color acciaio tappezzati di monili rudimentali che li dividevano in ciuffi spioventi. Gli enormi occhiali aderenti agli occhi, che si sarebbero quasi detti piccoli telescopi, testimoniavano la violenza con cui Quaquathor litigava con le fiamme, rischiando ogni volta di accecarsi con qualche lingua fiammeggiante che sottometteva con la forza bruta. E tuttavia questo incredibile impeto lo rendeva noto e temuto ben oltre i confini della Forgia stessa. Ma pur rispettando la sua abilità e la sua forza, cosa Quaquathor avesse che poteva attrarre Svea, Ed non lo avrebbe mai capito.

«Salve, signorina.  La sua opera oggi…»

« …era di ottima fattura» concluse Ed sconsolata, con un tono troppo monocorde per potervi individuare sarcasmo.

«Precisamente. Tuttavia non mi sfugge la vostra ironia. È fuori luogo, considerando il vostro comportamento e l’ennesimo ritardo. Signorina, portare il titolo di mastro forgiatore significa…»

Ed ascoltò le reprimende di Mastro Quaquathor appena lo stretto indispensabile per annuire poco convintamente, quando era praticamente obbligata a farlo dal discorso. Ed rispettava Quaquathor ma non riusciva a entrare in relazione con ciò che lui rappresentava: un’altra epoca, un tempo che non esisteva più. Un tempo passato in cui i nani passavano la loro vita vedendo il cielo appena una o due volte, per lo più sepolti vivi in officine grandi quanto intere città, dedicando l’intera vita alla qualità – sacrificando sé stessi e la loro intera, lunga esistenza alla perfezione di un unico manufatto – o altrimenti alla quantità, ammucchiando oceani di monete d’oro che illuminavano a giorno le volte di pietra geometriche e solide. Un passato di nani che correvano qui e lì lungo le gallerie, sempre col fiatone e sempre con un boccone quasi strozzato in gola, sempre di fretta tra un’opera e l’altra, maschi che si confrontavano orgogliosi trecce e ricci delle loro lunghe barbe e donne che si vantavano di poter cucinare un montone intero, canzoni sempre nuove – milioni di canzoni – che risuonavano martellanti nei saloni sotterranei, mercanti che negoziavano nevrotici con gli elfi per acquistare semi e frutti di piante che crescessero anche sotto terra e con gli umani per recuperare congegni e macchine su cui lavorare. Un tempo di tradizione, identità, consapevolezza. E anche un tempo grandioso, di sogni e di gloria, di imprese storiche e grandi conquiste.

«Sì, Mastro» ripeté ancora e ancora, persino quando Quaquathor la ammoniva di non dargli ragione in quel modo canzonatorio.

Il fatto era che Ed non pensava realmente che quel tempo fosse finito: piuttosto, che non fosse esistito mai realmente. Ogni epoca era condannata a sentire la nostalgia di un’altra, di un tempo migliore eppure perduto che – se la mancanza si avvertiva tanto marcatamente – doveva essere esistito, certamente. Ma era solo un’illusione. Per lei non c’era gloria o onore nel passato, né valori o insegnamenti da recuperare e da riscoprire, tutt’al più c’era qualche conoscenza tecnica smarrita che poteva essere ritrovata. Non c’era nobiltà nella storia della sua gente, né in quella delle altre genti. I nani avevano vissuto in un modo e ora vivevano in un altro: non c’era un senso dietro quel fatto. Ma per i nani come Quaquathor, che avevano assistito al tramonto di quei tempi, trasmetterne l’essenza alle generazioni successive era come una missione.

«Sì, Mastro» annuì ancora.

Ma Mastro Quaquathor si era interrotto bruscamente e Ed se ne rese conto. Come sua moglie Svea rimase immobile a fissare il lago. Ed impiegò qualche secondo di strano silenzio per mettere a fuoco la situazione e rendersi conto che entrambi osservavano tesi e concentrati la superficie lacustre. Compreso dove guardavano anche Ed si sporse, per vedere qualcosa di decisamente inusuale che ne increspava la superficie.

***

Jen fece in tempo a notarli con la coda dell’occhio, poi l’avevano già superata. Si erano tuffati nell’erba alta come pesci che nuotavano tra i fili verdi, come grandi mante volanti. Subito avevano cambiato forma diventando più simili a dei levrieri da caccia, solo troppo grandi per essere scambiati per cani. L’allarme era stato immediato: quelle tre cose si precipitavano, velocissime, verso la riva. Verso Lor e Yul. Non ne aveva mai viste di simili a quelle, neppure nel comportamento: sembravano incuranti di ogni essere vivente che avevano intorno e procedevano come dardi, puntando un obiettivo a lei ignoto e non considerando nient’altro sulla loro traiettoria. Se aveva sempre trovato quelle cose inquietanti, in queste in particolare c’era qualcosa di persino terrificante. La mente di Jen si fermò e cancellò ogni pensiero: realisticamente, il suo intervento non avrebbe potuto cambiare nulla ma il suo corpo si mosse comunque da solo, correndo verso la riva.

«LOR! YUL!»

Chiamò più volte con quel poco fiato che la corsa le lasciava. Più volte rischiò di cadere nella discesa, fin quando finalmente fu abbastanza vicina da vederli. Yul era come era sempre stato, dalla scomparsa della madre: immobile, silenzioso e totalmente celato dietro i suoi lunghi capelli fluenti; Lor si agitava disperato attorno ad una macchia rossastra e sconquassata che imbrattava la scogliera.

«Lor! Lor!»

La capigliatura a porcospino del ragazzo si sollevò, il suo sguardo dilatato si staccò dalla poltiglia sanguinolenta che aveva ai piedi e si portò sul volto della sorella maggiore. Il suo solito piglio spavaldo e insolente, da teppista, era sparito: era totalmente sconvolto, fuori di sé.

«…Jen… Jen… io… Tiny… Tiny!»

«…Tiny?» guardando ancora ai piedi del fratellino, Jen finalmente comprese dove era finito il loro cagnolino.

Ma perché quelle cose, quei golem avrebbero dovuto attaccare un cane, si chiese? Che minaccia avrebbe mai potuto rappresentare? E poi, perché quei golem erano così diversi dagli altri della Forgia?

«Yul!» al richiamo determinato della sorella maggiore, Yul si avvicinò quietamente «Cos’è successo?»

Venuta meno l’attenzione della sorella, Lor riprese a piangere sui resti. Sembrava quasi indeciso sull’eventualità di raccogliere quei pezzi smembrati con le nude mani.

«Dei golem sono arrivati. Erano strani, diversi. Molto veloci. Tiny è morto».

Jen piantò gli occhi ben fissi su quelli inespressivi del ragazzo: «Come è morto?»

«…Tiny…» continuava a ripetere Lor, con voce sempre più debole, quasi con un sussurro.

«Deve averli presi per dei lupi. Strani, molto aggressivi. Tiny ha abbaiato contro i golem».

«Forse lui… voleva proteggerci…» aggiunse Lor.

«…come faceva suo padre con le pecore» assentì Yul con tono indecifrabile.

«Ma era ancora così piccolo…» l’inciso di Lor era così sommesso e distante che avrebbe potuto venire da sottoterra.

«I golem hanno reagito» spiegò Yul per concludere il racconto, lasciando il resto all’immaginazione.

Jen si rivolse alla Forgia, ancora immobile sul Lago Kalst. Aveva sempre pensato che prima o poi tutte le stranezze di quel posto avrebbero portato guai alla fattoria, era solo questione di tempo. E il tempo era giunto.

«Corriamo a casa. Svelti» ordinò.

***

Valiel fece un po’ fatica a seguire i golem che schizzavano tra gli alberi ma alla fine riuscì a raggiungerli poiché proprio loro rallentarono. Si fermò sull’ultimo albero prima che iniziasse la vallata che andava verso il lago, abbastanza in alto da seguirne i movimenti. Mutarono rapidamente forma, in una struttura quadrupede più adatta a correre nascosta dall’erba alta; Valiel sapeva che molti golem potevano farlo ma non aveva mai visto metamorfosi tanto radicali e immediate. I golem arrivarono fino ai confini della valle, alla riva del lago, passando bruscamente in mezzo a due ragazzini umani e uccidendo un cucciolo di cane che calpestarono come per togliersi di torno un fastidio. Poi accadde qualcosa di ancor più strano: piuttosto che tuffarsi in acqua cambiarono di nuovo forma in qualcosa di simile a un serpente alato, quelli che a est chiamavano dragoni di Izun; e in questa nuova forma attraversarono il lago a pelo d’acqua, come volessero eludere gli sguardi. Ma di chi, degli estranei alla Forgia o dei Signori della Forgia stessi? E perché evitare l’acqua? I golem non provavano paura per l’acqua, né per nient’altro… non provavano nulla, se non le stesse impressioni e idee di chi li controllava. Sulle prime, Valiel aveva pensato ad una comunicazione da altre Forge; magari da L’Argeant o dalle Isole Ranaluta, riguardanti lo stato della Bocca del Chimaer che si era schiusa a nord-est o nuovi studi sul controllo del tempo atmosferico. I nani pensavano spesso di tenere per sé stessi queste cose e di comunicarle agli alleati solo una volta prese le proprie decisioni, come del resto facevano anche umani ed elfi quando si presentava l’occasione – sulle Bocche del Chimaer comunque c’era poco da scherzare e ciascuno pensava che fosse meglio fare a modo proprio. C’era un’altra possibilità, che non si trattasse di comunicazioni segrete ma di un attacco a sorpresa alla Forgia, evidentemente eseguito con l’aiuto di un mastro forgiatore nanico. Ma un nemico che pensasse di attaccare la Forgia doveva essere pazzo oppure abbastanza potente da impensierire persino Valiel e la sua gente. I golem continuavano a sfrecciare sul pelo dell’acqua zigzagando, forse tentando di distrarre eventuali osservatori, era difficile dirlo. Certo fu che i golem che sorvegliavano le ciminiere, volando in circolo, non notarono i nuovi intrusi e li lasciarono passare con facilità. L’elfo li osservò con ammirazione cambiare ancora una volta forma e, mutati in figure vagamente aracnidi, risalire metodici le pareti della Forgia senza attirare l’attenzione. Un potere davvero grande era quello all’opera, di sicuro c’era dietro un mastro forgiatore abile e creativo. L’attacco alla Forgia si consumò in tutta la sua forza distruttiva in appena una manciata di minuti.

***

Erano passate diverse ore ormai. Ed trascinava il suo corpo nell’erba con una stanchezza infinita. Sopra di lei, il cielo era una coltre nerissima e opprimente che celava potenziali pericoli. Tutte le stirpi più antiche dei nani avevano una certa paura degli spazi aperti e sconfinati, paura che qualche volta sfociava in una vera e propria agorafobia, ma mai come in quel momento Ed poteva comprendere il timore atavico che la sua gente provava sotto il firmamento notturno vertiginosamente ampio e l’impellente necessità di seguire il proprio istinto e nascondersi sottoterra.

«Nelle braccia di Isor si culla Ukor, dormono i nani protetti sotto la terra degli elfi» recitò con amara ironia, sputando il sangue che aveva succhiato dal suo labbro spaccato e rimpiangendo di non avere una bella tana profonda in cui rifugiarsi.

Si voltò ancora, d’istinto, pur consapevole dell’impossibilità di determinare dove fosse il pericolo. L’erba, chiazzata qua e là dal sangue che le sgorgava dal braccio, aveva lasciato un sentiero di fili spezzati a testimoniare quanto a lungo aveva camminato: aveva fatto pochi passi, fu costretta a constatare, molti meno di quanti le erano sembrati – la riva, nera di tenebre, la Forgia in preda alla confusione e alle fiamme, erano ancora vicini, eppure ogni passo le era pesato indicibilmente.

«Zahnrad!» chiamò, ma poi si rese conto che aveva paura di farsi sentire e si rannicchiò su sé stessa come se le sue parole potessero tornare indietro e colpirla.

«Zahnrad! Dove diavolo sei?» nessuna risposta.

Il corpo decise che non ce la faceva più. Si lasciò cadere a terra e strisciò fin dove le sembrò che l’erba coprisse la sua figura. E finalmente la sua giornata ebbe fine. La stanchezza era tale che persino in quel giaciglio le sembrò di riposare meravigliosamente, per delle ore che fluirono con naturalezza una dopo l’altra. Il risveglio fu caratterizzato dall’amara realizzazione che la giornata precedente, che tanto bruscamente era cambiata nell’arco di pochi istanti, apparteneva alla realtà e non al mondo dei sogni che aveva appena lasciato. La Forgia ora era avvolta dal fumo bianco, mutilata di una delle sue ciminiere ma comunque quasi tornata alla normalità di una giornata di lavoro – era difficile del resto che dei nani che non fossero gravemente invalidati interrompessero il loro abituale ritmo di lavoro, se non erano obbligati. Ed la scrutò tra le fronde, badando a non uscire troppo allo scoperto, e provò un senso di sollievo ma anche una istintiva tristezza: non poteva che fuggire lasciandosi dietro una vita interrotta e non era la prima volta che era costretta a farlo. Guardò il cielo e le colline circostanti: di certo, i golem non avevano lasciato la zona e la tenevano, per quanto possibile, sott’occhio. Avanzò verso gli alberi, dove sarebbe stato più difficile individuarla, piegata e intirizzita dal freddo: scegliendo di fuggire a nuoto nel lago, la sera prima, la sua posizione non era stata scovata né intuita ma aveva dovuto fare i conti con la pessima attitudine della sua specie al nuoto e passare in acqua diverse ore.

«Muoviti, Yul!»

Ed sobbalzò e subito dopo cercò di farsi tanto piccola da scomparire: non aveva la benché minima intenzione di scoprire a chi appartenesse la voce. Con il palmo della mano sinistra accarezzò la pelle nerissima del braccio destro, fino a individuare una delle numerose rune incise sull’avambraccio, e percorse la forma della runa col dito; il simbolo risplendette di giallo e divenne un varco tra lo spazio e il tempo, attraverso il quale poté richiamare a sé una daga d’acciaio.

 «Zahnrad! Vieni, Zahnrad!»

Niente da fare. Doveva accontentarsi dell’arma che aveva.

«Ma vai a quel…»

Si zittì. Gli occhi non abbandonavano i fili d’erba, cercando la possibile posizione del ragazzo che aveva sentito o dell’altro che aveva chiamato. I movimenti le dissero che erano vicini e le parve di stringere tanto forte il pugnale che quasi lo frantumò: detestava l’idea di assalire qualcuno di nascosto ma in quel momento era disposta a tutto pur di evitare anche la minima eventualità di essere ritrovata da quelle cose. Qualcuno le passò davanti, doveva essere quel tale Yul o la persona che lo aveva appena chiamato, ma date la corporatura e le calzature doveva comunque trattarsi di due giovani contadini. La sua mano intorno all’elsa si rilassò, come tutto il suo corpo, registrando che non aveva da temere. Dietro il ragazzo che calpestava energicamente l’erba a pochi passi da lei ne arrivò un altro, con passo più lento e tranquillo. Poi in una frazione di secondo entrambi si immobilizzarono e anche lei percepì con chiarezza quelle cose, quei golem, che passavano in volo sopra di loro. Uno dei due ragazzi fece un movimento brusco, come volesse saltare verso il cielo, e urlò una serie di ingiurie oggettivamente indistinguibili. Poi fu atterrato dall’altro ragazzo, evidentemente determinato a non attirare l’attenzione dei golem: non bastò, era tardi ormai. Ed ne sentì uno planare verso di loro. Si presentavano ben poche alternative: fuggire ancora, rischiando di essere scovata comunque e abbandonando i due ragazzi al loro destino oppure affrontare direttamente i suoi inseguitori e semplicemente vedere come andava a finire.

***

Finalmente Valiel poteva vederne uno a terra, intento a battersi. Certamente non poteva dire di aver mai visto golem così meravigliosamente elaborati e potenti: i corpi, realizzati non con minerali lavorati ma da una massa fluente di sabbia finissima, senza dubbio tenuta insieme da rune molto potenti e complesse, ora modellatisi come umanoidi alti e slanciati, erano mutevoli ed inafferrabili. Invece la maschera, un volto inumano dal lungo naso appuntito e occhi vuoti, sembrava di un materiale simile alla ceramica intarsiata di centinaia di caratteri runici microscopici.

«Scappate, rustici idioti! Levatevi dai piedi!»

La giovane nana dalla pelle nera che si avventava contro il golem doveva essere gravemente ferita, a giudicare dalla lentezza con cui muoveva un braccio. Dietro di lei c’erano due ragazzini umani, uno intento a dimenarsi in preda ad una furia incontrollabile, l’altro a trattenerlo con tutta la sua forza. La ragazza lanciò una spada corta verso il corpo del golem ma la sabbia lo inglobò senza subire alcun danno. Cercò con le dita una runa nell’avambraccio e da essa evocò un maglio imponente, quasi troppo grande per reggerlo con un braccio solo.

«Qui! Vieni da me, brutto schifoso!» provocò lei preparandosi a colpire con una postura che Valiel giudicò non eccezionale ma sopra la media.

Dal nulla aveva fatto apparire un’arma: la profondità delle conoscenze runiche era davvero eccessiva per una semplice allieva della Forgia, anche se l’elfo ebbe l’impressione che non fosse altrettanto esperta nel combattimento corpo a corpo. Ne conosceva i principi teorici, però: faceva roteare la mazza in una danza di eleganza e forza a cui il golem rispondeva minuziosamente, opponendo armoniose schivate ad attacchi altrettanto fluidi, ma nei pochi secondi che la creatura aveva impiegato ad abituarsi al ritmo degli attacchi la nana, che aveva aspettato appunto questo, accelerò bruscamente finendo per colpirlo in pieno. Il metallo attraversò il torso sabbioso come un coltello nel burro caldo, ma subito il corpo del golem si ricompose identico a prima. La nana sembrava intenzionata a colpire la maschera dall’alto verso il basso ma un braccio del golem cambiò forma in lungo sperone che cercò di trapassarle il ginocchio; nell’atto di salvarsi la gamba lei perse l’equilibrio e cadde di lato, lasciandosi sfuggire l’arma dalle mani per atto della forza che lei stessa le aveva impresso, complice la debolezza del braccio ferito.

«Lasciamelo ammazzare!» gli parve di distinguere nelle urla del ragazzo umano irrequieto ma l’altro lo tratteneva con forza, rimanendo impassibile.

Il ragazzo era pazzo o stupido: se una forgiatrice abile come quella non reggeva il confronto, figurarsi un giovane contadino. Il golem tentò una seconda volta, modellando il suo braccio come una palla chiodata, di rompere una gamba alla ragazza, che evitò il colpo rotolando pietosamente, tradendo così tutta la sua stanchezza. Il suo avversario di sabbia sembrò seguire i movimenti di lei con calma misurata, come se fosse ormai certo del risultato; in quel momento il ragazzo irruento riuscì a liberarsi dall’altro e a precipitarsi sul golem, che si voltò di scatto pronto a reagire. In quella frazione di secondo, Valiel seppe che il Trattato dei Popoli era violato: un golem, evidentemente frutto della scienza runica dei nani, aggrediva un umano, un membro di un’altra specie, e questo lo autorizzava ad intervenire; non impiego più di una frazione di secondo a decidere di piazzargli un pugnale nella fronte. Il lancio fu preciso, la lama interruppe il complesso circolo di rune che animava la creatura e un corposo mucchio di sabbia si sparse inanimato nell’erba. La ragazza crollò sfinita e i due umani si paralizzarono, indecisi sul da farsi. Valiel rimase quieto sul suo ramo.

***

Le costò un’enorme fatica riaprire gli occhi, le palpebre erano pesanti e le sembrò che l’aria stessa bruciasse. Nelle orecchie, che sembravano farle male dall’interno, le ronzava una odiosa canzoncina dal ritmo melodico e sdolcinato, del tutto estranea ai ritmi serrati e incalzanti delle canzoni naniche. Si guardò intorno, cercando una qualche presenza con lo sguardo, e subito individuò la fonte di quella canzone: era una ragazza umana alta e bionda, imbacuccata in vestiti troppo larghi per lei, curva su un calderone di qualcosa che ribolliva, rilasciando un odore di verdure (per quel poco che poteva sentire, col naso semichiuso) piuttosto sciapo e privo di carattere.

«Come sta Lor?»

Una voce piatta rispose alla ragazza da qualche parte che Ed non vedeva: «Non si alza dal letto».

Si guardò intorno: mura di legno umili, attrezzi rudimentali ricavati dal riciclaggio di altri, diversi barattoli di conserve impolverati e qualche marmittone. Ma c’era anche un tocco di femminilità nella stanza: fasci di spighe dorate e di piante dalle grandi foglie verdi, fiori lilla e grossi frutti lucidi color rosso vino. Era la casa di una contadina, senza dubbio, probabilmente di colei che stava cucinando.

«Bè, tanto sarebbe impossibile lavorare con questa tempesta, quindi che faccia come gli pare».

Ed drizzò le orecchie: sì, poteva sentire fuori il battere incessante di grosse gocce, il vento che soffiava senza riposo e pochi spazi di silenzio tra un tuono e l’altro. Pioveva: doveva trattenersi per non scoppiare a ridere fino a morirne.

«Al… sei stato fregato».

Lo bisbigliò appena ma la ragazza reagì subito alle sue parole e si voltò. Ed la studiò con quel poco di occhi che riusciva a tenere aperti: i capelli sembravano paglia giallastra e strapazzata, gli occhi azzurri erano ben incassati nelle occhiaie, scavate dalla stanchezza che rovinava i suoi lineamenti dolci, le forme un po’ troppo abbondanti tradivano la tipica alimentazione dei contadini che non giovava né alla salute né alla linea. Era complessivamente una ragazza che avrebbe potuto essere bella se fosse cresciuta in un ambiente aristocratico.

 «… Al? Chi è Al?»

Piuttosto che rispondere, Ed alzò di nuovo gli occhi al soffitto e si abbandonò nuovamente ai pendii scivolosi del dormiveglia. La ragazza non sembrò voler insistere e si rimise a trafficare attorno al pentolone. Lo stato letargico durò fino a quando un rumore di porta che sbatteva annunciò l’arrivo di una folata di vento gelido e umido nella stanza; Ed sgranò subito gli occhi, sorpresa dal freddo. Un ragazzino emaciato, dai lunghi capelli fluenti color paglia, si svelò togliendosi di dosso un manto inzuppato.

«E allora?»

«Dorme ancora».

«Digli che la pianti, Yul, non può passare tre giorni a lutto per un cane».

«Non credo che a Lor importi» constatò l’altro, neutro.

«Importa a me. Digli che scenda dal fienile domattina o nessuno gli porterà più da mangiare».

Yul reagì con quella che poteva essere la stretta di spalle di qualcuno che non voleva neppure sprecare troppe energie per stringersi le spalle.

«Invece dimmi, che fanno le nostre vecchie signore?» chiese la ragazza dopo un po’ che il ragazzino si stiracchiava sul pavimento davanti al fuoco come un gatto.

«Il temporale non le spaventa più ormai, solo i vitellini hanno paura. Ma sono sotto controllo».

«Speriamo bene… ci aspetta almeno una settimana di pioggia».

Al pensiero Ed riprese a ridere sommessamente ma di gusto, prima di rigirarsi nel letto decidendo di disinteressarsi a qualsiasi altra cosa quel tale Yul e la misteriosa padrona di casa si sarebbero detti.

***

Addentando una enorme fetta di soffice torta al miele, Ed guardò ancora una volta Jen di sottecchi. Dopo una abbondante sorsata di latte caldo si rifugiò un po’ di più sotto le coperte come volesse rifuggire lo sguardo della ragazza.

«Capisco che hai la febbre ma potresti almeno parlare. Sono tre giorni che dormi, mangi e non spiccichi una parola».

Per tutta risposta, Ed lasciò sul vassoio di legno la torta e il latte e spinse il vassoio verso Jen, con aria di sfida. La contadina ci mise qualche secondo a decifrare le azioni della giovane nana. Poi afferrò il latte e la torta smangiucchiata con aria di sufficienza.

«Ah, è così? Immagino che una giovane massaia non sia degna della considerazione di una Maestra Forgiatrice».

«L’hai detto».

Jen, già in piedi e di spalle, si paralizzò di colpo. Sentiva la voce di Ed per la prima volta, tagliente e leggermente annoiata. Si voltò, rossa in volto.

«Come, prego?»

«Hai sentito» tagliò corto Ed cercando di rimettersi a dormire.

«Siete tutti uguali!»

«…tutti?» ripeté Ed inarcando appena un sopracciglio «Tutti chi?»

«Voi! Voi nani! Vi credete chissà chi perché portate l’industria, il progresso, e tutti i vostri congegni spaventosi. Ebbene…»

«Usi un sacco di parolone difficili per una contadinotta sciupata» disse, riprendendo irrispettosamente la torta dalle mani di lei e sbocconcellandola «I tuoi genitori pidocchiosi ti hanno pagato la scuola di città? Bè, vero è che a Kalaston anche la scuola è piena di caproni».

Ed dovette appena inarcare la testa all’indietro per evitare il vigoroso schiaffo che Jen cercò di darle.

«Bella mira, brava. Voi umani siete tanto lenti da sembrare fermi».

«Perché ti comporti così? Ti ho salvato la vita, lo sai questo?»

«E io quella dei tuoi stupidi fratellini» ribatté a bocca piena, sorridendo e sputacchiando briciole «Quindi direi che siamo pari, no?»

Jen restò in silenzio, non sapendo cosa obiettare, ma respirando rumorosamente come un toro infuriato.

«Giusto… siamo pari».

«Ecco, così mi piaci. Il vero problema… è che non so davvero come».

L’espressione di Jen si colorò di curiosità: «Come scusa?»

«Non so come ho fatto. Quel golem avrebbe dovuto fare a pezzi i tuoi fratelli e poi… prendermi. Invece s’è sfasciato. Strano davvero. Ma sia come sia…» un dito di Ed indicò il cielo rabbuiato dalle nuvole, che si vedeva appena dalla finestra «…appena finirà la pioggia, sarete tutti morti».

Jen balzò in piedi, col volto dilatato dall’orrore: «Cosa?»

«Rilassati, stavo scherzando. Forse».

«Forse?»

«Già. Forse. Però sarà davvero un bel casino quando finisce la pioggia. E non so davvero cosa farci».

Jen l’afferrò per il bavero, stavolta fu troppo brusca perché Ed trovasse la presenza di spirito per reagire: «Non sai cosa farci?» non era in lacrime o fuori controllo, anzi sembrava fredda e determinata «Certo che sai cosa farci. Sono golem. Siete voi che li costruite. Mi stai dicendo che torneranno?»

«Finita la pioggia… sì. Probabilmente».

«E poi cosa faranno? Dimmi tutto quello che sai!»

«…altrimenti?» provocò lei.

«Altrimenti non ti dirò come scappare».

La giovane nana si bloccò, sorpresa: «Scappare? Perché pensi che vorrei scappare da qualche parte?»

«Non sono idiota. Hai detto che quel coso doveva ammazzare i miei fratelli e prendersi te. Quindi cercava te, per portarti da qualche parte dove non vuoi andare».

«Mi sembra sensato».

Jen alluse ad uno dei vestiti di Ed, l’unico che non era steso in un filo che passava in mezzo alla stanza, poco oltre il suo giaciglio: una uniforme di maglie esagonali che scintillavano, lucenti.

«E vieni dalla Forgia ma nessuno della Forgia è venuto a chiedere di te. Danno per scontato che tu sia stata… presa… come dici tu. E se d’altro canto potessero proteggerti, l’avrebbero già fatto prima. Quindi… certamente non vuoi tornare lì e non hai miglior occasione per scappare».

«Molto acuta». si congratulò acidamente l’altra «Quindi?»

Jen prese un respiro, come esitasse un momento, prima di decidere di proseguire il discorso.

«Io so come farti andare ovunque tu voglia immediatamente e senza essere vista. È un mio segreto. Ma in cambio mi dirai come evitare che ne vengano altri e infastidiscano me o la mia famiglia. E lo farai adesso. Tutto chiaro?»

Ed scostò delicatamente le mani della ragazza dal vestito che stringevano: sentendo la delicatezza del tocco, Jen accettò di mollare la presa.

«Tu… mi sei proprio simpatica».





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