Runica - Sorgi e Splendi

di Leo_Zanardi
(/viewuser.php?uid=1219472)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


2. I CANCELLI DI ZOA

 

Popolo dei draghi, signori di Zoa, figli di Arrok dea del mare, accogliete alle corti vostre il nostro figlio perduto…

augurio funebre della Marina del Mohtam

 

«Quand’è che arriviamo? Questo posto mi mette i brividi».

«Credevo che i nani amassero i cunicoli» obiettò Jen «o forse hai paura del buio? Dopotutto sembri molto più giovane di me…»

«Non sono molto più giovane, non ho paura del buio e certamente non ne ho degli spazi stretti, ci sono nata». si difese Ed «È di queste oscene scale a pioli che ho paura e della botola di legno marcio che ci sta sopra la testa e di questi mattoni tagliati male che abbiamo intorno. Voi umani costruite roba che sembra fatta apposta per cadere a pezzi. È imbarazzante. Io sarei imbarazzata, se fossi in te».

«Scusa, non ho sentito niente di quello che hai detto, credo sia colpa dell’incompetente umano che ha costruito un pozzo con una acustica tanto pessima. Che vuoi farci».

«Allora vuoi che ripeta tutto più lentamente e scandendo le parole?»

«Incredibile, continuo a non sentire niente di quello che dici. Sento solo una specie di ronzio».

Nel silenzio del pozzo si sparse una risata sommessa: «Sei proprio uno spasso. Davvero, dico. Ma mi sono stufata. Dove cavolo stiamo andando?»

Dalla semioscurità sotto Ed non provenne alcuna risposta, solo un tonfo.

«Ehi bionda… ci sei?»

«Siamo arrivati» la voce di Jen rimbombò come se lo spazio intorno a lei si fosse allargato.

Anche Ed si lasciò cadere. I suoi piedi furono accolti da una superficie di pietra aguzza, corrosa da acqua salmastra che non poteva vedere, ma di cui sentiva l’odore e l’umidità, oltre che qualche sporadico rumore di gocce.

«Si direbbe un lago sotterraneo» osservò Ed «ma qui non si vede un tubo».

Jen osservò alla sua destra due anelli di crescente luminosità. Le iridi della giovane nana si stringevano lasciando spazio alle pupille, e acquistavano un lucore dorato: come si diceva, gli occhi dei nani potevano adattarsi perfettamente al buio.

«Anzi… qui non si vede un tubo perché non c’è… un tubo».

«Non al momento, no» confermò Jen, prima di piombare di nuovo nel silenzio.

«Al momento no. E quando invece sì?»

Un fischio di Jen, estremamente acuto, segnò la fine tanto del silenzio quanto del buio. Un’entità luminescente e multicolore apparve sotto la superficie dell’acqua assolutamente liscia e la ruppe, emergendo con rapidità. La roccia su cui Ed e Jen si trovavano era separata da svariati metri di acqua ora illuminata ma tra essa e l’oggetto che era emerso sembrarono sbocciare delle enormi foglie di ninfea, come fossero pronte ad accompagnare le due ragazze. Ed spalancò gli occhi e rimase svariati secondi a bocca aperta, incapace di parlare. Jen sorrise, piena di sicurezza.

«Eccolo qua».

«Ma questo è… quello che penso che sia?»

«Probabilmente. Tu cosa pensi che sia?»

Un ventaglio di corallo e anemoni splendenti si apriva intorno ad un oggetto ovoidale, simile ad uno specchio di materiale lucido del colore del mare più scuro. I colori d’arancio, ametista, azzurro, danzavano sulle increspature dell’acqua in un arcobaleno screziato.

«Un Cancello di Zoa… come fa a stare sotto la tua baracca marcia una cosa così? Il suo valore è…»

«Il suo valore non ti riguarda affatto» la interruppe bruscamente Jen «è nascosta da tutti ed è esattamente così che deve rimanere».

Ed impiegò qualche minuto a riprendere il controllo, mentre i suoi occhi squadravano ogni millimetro di quella architettura che nessuna arte ingegneristica avrebbe potuto mai sperare di ricreare.

«Bè, voglio dire… è una specie di scherzo? Come pensi di farmi fuggire con questa cosa? Voglio dire… tu sei un essere umano, non…»

Jen interruppe Ed per la terza volta, scandendo a voce alta: «Tronni, Thesaigan ono Youma!»

La superficie lucida si aprì simmetricamente in due, come le palpebre di un occhio, rivelando una superficie più scura e trasparente, che dava l’impressione di essere gelatinosa.

«Non riconosce il mio sangue ma la mia voce».

«Sei davvero in grado di aprirlo…»

«Già. Di solito si aprono per volontà loro, giusto? Credo di poter anche decidere dove ti porterà».

«Puoi… dove… tu… hai davvero studiato più di quanto potessi immaginare, mia sorprendente zappaterra».

Jen abbassò gli occhi, rabbuiandosi per un momento in volto: «Stai continuando a occuparti dei fatti miei. Come vedi posso rispettare il nostro patto, quindi… rispetta la tua parte dell’accordo».

Ed si sedette sulla roccia appoggiando la faccia sulla mano, contemplando interessata la massa al centro della struttura.

«Scusa, a differenza di te non credo di poterlo fare».

«Co… come?»

«È inutile fare quel tono minaccioso. Se quella cosa funziona come dovrebbe, sparirò da qui e ricomparirò a… uhm… alle Isole Ranaluta, giusto? In tempi passati erano chiamate Arcipelago Youma… e Youma è una parola nella lingua dei draghi».

«Ehm… sì. Certamente» annuì Jen, poco convinta.

«Sinceramente il mio piano, chiamiamolo così, era di farmi seguire da quei golem fuori dalla tua fattoria così che ti lasciassero in pace. Ma se non mi vedono uscire da qui… non concluderai  niente. E se me ne andrò con il Cancello di Zoa non mi vedranno e non potranno seguirmi – anzi, entreranno nella tua casa a cercarmi, di sicuro».

Si buttò all’indietro, sdraiandosi e appoggiando la testa sulle mani congiunte: «Bella grana, eh?»

Jen non rispose, sembrava essere raggelata. Non era stato facile convincersi a mostrarglielo, l’aveva nascosto per anni, eppure ci aveva messo meno di un secondo a deciderlo, se poteva far sparire Ed e il pericolo che rappresentava dalla sua casa. Invece, per una specie di beffa crudele, neanche questo sacrificio era servito.

«Potrebbe essere tra le prime dieci o  venti reliquie del Regno Sottomarino di Zoa… in tutto il mondo… perché non ti associ a qualche studioso di Kalaston? Ti rifaresti a nuovo la fattoria, no, che dico, ti trasferiresti in una reggia!»

«Basta impicciarsi!» sbraitò con una punta d’isteria.

La struttura sembrò reagire al cambiamento del tono di voce, perché si richiuse per inabissarsi immediatamente, come fosse spaventata o offesa. Improvvisamente, nella grotta fu di nuovo buio.

«Tu devi dirmelo! Devi dirmi come fare!»

«E che ne so?»

***

«Dai ancora da bere al moccioso? Se capitano un paio di guardie passerai i guai, vecchio mio».

«Non gli do proprio niente. E comunque, già tu sei una guardia, Bedge».

«Un templare» precisò lui «ed il mio unico incarico oggi è riportare il tenente Wiggs a casa mostrando il meno possibile in giro per Kalaston la sua… temporanea incapacità di camminare».

«Temporanea, eh? Passa più tempo qui che al muro settentrionale».

Bedge prese un respiro prima di aggiungere: «O a casa sua».

«Ancora guai con la moglie?» chiese l’oste, cercando un’espressione comprensiva da esibire per l’occasione.

«Shhh! Se sapesse che ne parliamo…»

«E allora non parlarne ma mi sembra tardi, tutta Kalaston sa che…»

«Shhh! Non so se dorme o è solo accasciato».

Wiggs stravaccato sul divanetto con una gamba pigramente distesa sul tavolo era uno spettacolo quasi blasfemo, dopotutto il corpetto metallico che indossava sopra la camicia a righe color rosso cadmio scuro, parlava chiaro: gli intarsi d’argento sull’acciaio, che ricordavano nuvole in tempesta, testimoniavano inequivocabilmente il suo status di templare guerriero, uno status che esigeva un’apparenza di decoro. Bedge ringraziò la Dea, o chi per lei, che fosse una settimana di temporali e che la locanda fosse sostanzialmente vuota, salvo l’oste, loro due e il cosiddetto moccioso, un nano praticamente addormentato su uno scricchiolante tavolino di legno.

«Certo che la vita della Cinta Nord non lo aiuta… non succede mai nulla» sviò l’oste con una delle sue migliori banalità da repertorio.

«Già. Invece al muro meridionale hanno visto tutto l’incidente di una settimana fa. Si dice che non sia stato proprio un incidente. Si dice… che una apprendista della Forgia sia sparita. Forse è morta».

«Una apprendista?» intervenne il giovane nano, che alzò la testa dalla superficie del tavolo con un gesto tanto improvviso che l’oste fece quasi un salto: «E poi un’altra birra si può avere o no?»

«Credevo che i nani reggessero bene l’alcol. Non è che sei troppo giovane per bere?»

«Sono astemio, tergente Beggar».

«Sono il sergente Bedge e non ho mai sentito parlare di un nano astemio. E se sei astemio perché bevi?»

«Nella vita servono conferme. Non lo confermi forse anche tu? Ti confermo che confermerei se fossi in te».

«Sembri un po’ troppo lucido dopo cinque birre, per essere astemio».

«Sia ringraziato Ukor, sono guarito allora! Festeggiamo con una birra. Rossa, per favore. Lo confermo. Tu lo confermi? Dovresti».

Il giovane ed irritante nano si era alzato in piedi. Doveva essere povero in canna: il cappotto giallo che indossava doveva essere appartenuto ad un nobile kalastoniano, perché era un complesso intreccio di senape e ocra finemente ricamato e ornato di gemme occhio-di-tigre anche se era stato lacerato a mezza altezza per adattarlo all’attuale indossatore a cui comunque stava larghissimo. Di sicuro era uno di quegli abiti aristocratici appartenuti a qualche feudatario che, caduto in disgrazia, rivendeva i suoi averi al mercato, capitava spesso che nani o elfi desiderosi di mischiarsi tra gli umani e di recidere i legami con le loro culture originarie scegliessero quel tipo di abbigliamento. Certo, quello era un nano piuttosto anticonvenzionale: la pelle era praticamente uguale, per colore ed aspetto, alla pelle umana olivastra, com’era tipico dei nani di basso lignaggio, e non era tesa dalla solita muscolatura robusta della sua specie, al contrario ricordava un ragazzino umano un po’ smagrito; senza il rosso scuro rivelatore della capigliatura spettinata e sporca, non si sarebbe potuto affermare appartenesse al popolo del Mondo Sotterraneo. Il signor Brea, oste onorato da trentadue anni, non aveva mai visto un nano (anzi, un essere vivente) che più di quello gli desse l’impressione di esser nato come un pesce fuor d’acqua ed essere destinato a morirci.

«È sbronzo fradicio, guarda gli occhi. E barcolla. È davvero un nano astemio, che la Dea ci fulmini tutti! Senti, ragazzo, non berrai altro oggi».

«Ma io posso pagare!» si lamentò il giovane, prima di aggiungere frugandosi le tasche «cioè non posso. Però… paga lui!»

«Il tenente Wiggs non paga proprio un accidente».

«Il senziente ha detto che offriva lui a tutti».

«Era ubriaco quando l’ha detto e la locanda era vuota. E comunque la parola è tenente, non senziente».

«Così venite meno agli impegni, bergente Sedge».

«Ser-gen-te! Cosa c’è di difficile nel ricordare te-nen-te e ser-gen-te?»

Inutile insistere, su quell’argomento come su altri: il nano si allungava già verso la botticella più vicina per servirsi da solo. L’oste afferrò le braccia smilze e lo ricacciò ben lontano dal balcone.

«Vatti a fare una doccia fredda, piccola canaglia!»

Il nano si lasciò cadere su una sedia, scuotendo la mano per il dolore: «Insomma, come passate il tempo in questa città? Piove da quasi dieci giorni ormai».

«Almeno una volta o due l’anno succede così, poi torna il sole».

«Quando?»

«Che ti frega? Vorresti bere per dieci giorni di fila? Torna a casa».

«A casa…» spingendo con i piedi, si lasciò cadere indietro con tutta la sedia e arrivò violentemente a terra con la nuca; non si mosse più.

«Sentimi bene… ehi ma… ora dorme?»

***

«Si può sapere che accidenti fai?»

Il vento accarezzava il grano scompigliando i corti capelli rossi di Ed. Jen dovette scostare una lunga ciocca bionda che le era finita dritta negli occhi per guardarla meglio: sembrava serena, perfettamente a suo agio come una lucertola che si gode l’aria e il sole.

«Mi godo questo suggestivo scorcio di vita bucolica. Bella giornata oggi».

Jen rimase sovrappensiero per un po’, accanto alla giovane nana. Entrambe immobili come scogli nel mare verde delle ultime spighe ancora immature.

«Hai deciso di farti trovare da quelle cose, in modo da evitare che se la prendano con noi?»

«Non direi. Sono una pessima scelta come cavaliere ardente che si sacrifica per i deboli. Poi neanche potrei montarlo, un cavallo dico. E comunque, se anche fosse, perché ora mi staresti accanto?»

«E tu perché hai deciso di correre questo rischio? Sembravi molto spaventata quando ieri ha smesso di piovere».

Per la prima volta Jen vide il suo volto assolutamente serio. Ed le piantò gli occhi addosso e quasi la prese per il bavero.

«Chiariamo una cosa. Io non ho paura. Capito?»

«Ehm… va bene?»

«No, non va bene. Mettitelo in testa. Non ho paura!»

«Che bambinata, vuoi dirmi che non hai paura di nulla?»

«Non dire scemenze. Voglio dire che non ne ho qui e ora.»

«Come vuoi tu! Mi spieghi cosa facciamo qua fuori?»

Ed rimase ancora un po’ in silenzio, respirando profondamente. Il suo sguardo andò da una riva all’altra del lago e alla Forgia chiaramente deturpata dall’evento di due settimane prima. Wulf, mastro Airon, mastro Svea e mastro Quaquathor e i suoi compagni di studio: tutti loro stavano per sparire dalla sua vita per sempre, per sbiadire lentamente nei ricordi.

«Ho un ottimo affare da proporti. Credo che quelli non attaccheranno tanto presto. Di sicuro aspettano che io sia isolata da potenziali vittime casuali».

«Non mi sembravano tanto scrupolosi quei...».

«Golem. Non si tratta di scrupoli, certo che voi umani mettete sempre i problemi pratici in fondo alla lista. Pensaci su: hanno attirato molto l’attenzione ultimamente e c’è un limite all’attenzione che chiunque può attirare su di sé. Aspetteranno, prima della prossima mossa, o meglio aspetterà chi li muove. Anche se di sicuro mi stanno puntando… anche adesso, mentre parliamo».

Jen rabbrividì pensando che ogni altura o albero poteva nascondere quei golem intenti ad attendere e studiarle. Per un solo istante provò ammirazione per la nana e per il sangue freddo che mostrava.

«A… allora… quale sarebbe questo affare?»

«Hai aperto un Cancello di Zoa davanti ai miei occhi. Credo tu sia l’unica che potrebbe fare una cosa simile, no?»

«Non… non ne ho idea».

Ed si grattò la testa, come se stesse cercando di farsi uscire un concetto dal cervello: «Sì, dev’essere così. Come puoi esserne capace? Voglio dire, tu non sei…»

«Inutile insistere! Non te lo dirò!»

«Sì… ho afferrato il concetto, è un segreto segretissimo. Ma dimmi questo: pensi che potresti aprirne un altro, altrove?»

Jen aprì bocca per richiuderla subito, come se una seconda idea avesse fermato la prima. Guardò alla sua destra come se qualcuno avesse scritto la risposta lì.

«Potrei esserne capace. Direi di sì».

Ed mimò con le dita degli occhiali, poi assunse un tono di voce baritonale: «Lei sta andando magnificamente, signorina. Un’ultima domanda e concluderemo l’esame con successo».

«Falla finita, buffona».

«Non vanno così, gli esami nelle scuole per umani?»

«Che ne so? I figli dei nobili vanno a scuola!»

«Ma tu qualcosa hai studiato, no? Come fai a parlare in-»

«Quale era la dannata domanda?»

«A-ehm. Dicevamo. Pensi che… i tuoi fratelli potrebbero gestire la fattoria in tua assenza?»

«Ma questo cosa c’entra? E comunque…»

«Aspetta, non rispondere. Ho appena realizzato che di questo non mi frega un accidente, in effetti».

Distante da loro due, un elfo scrutava tra i cespugli. Vide la giovane nana tendere la mano alla ragazza umana, due figure piccole e deboli contro l’immensità del Lago Kalst che scintillava al sole come una distesa di luce screziata. Dopo una certa esitazione, la ragazza prese la mano della nana e se la strinsero con fermezza.

«Cosa succede tra quelle due?»

Una donnola che si era portata accanto a Valiel sussurrò in una lingua che solo i raminghi potevano comprendere.

«Dovremmo andare via, elfo».

«Che problema hai?»

«Il cielo è funesto».

«Il giorno è luminoso, il cielo sgombro e…»

Alzò gli occhi e rimase per un po’ a fissare l’azzurro sopra di loro.

«Cosa sono quelli?» si domandò, ma poi si rispose da solo: «Aviani… bestie piumate mangia-uomini. Ma così in alto… non sono qui per cacciare. Cosa fanno così in fondo nell’entroterra?»

«È un cattivo presagio» sussurrò la donnola, nascondendosi tra le radici.

 Dopo essersi guardate a lungo le due ragazze lasciarono la mano l’una dell’altra. La ragazza bionda si diresse verso la sua fattoria. Gli aviani volarono in cerchio per un po', poi sembrarono disperdersi.

«Devo riferire ogni cosa» si ripromise Valiel.

***

La foresta si aprì innanzi agli occhi di Valiel rivelando un’ampia laguna piatta, circondata da alti alberi secolari. Mancavano pochi minuti e il sole sarebbe tramontato del tutto. Si sedette su una grossa radice, incerto su come lasciar trascorrere il tempo. Come volessero rispondergli, le mani e le dita iniziarono a muoversi da sole, pizzicando le corde di un’arpa inesistente, seguendo con la memoria le note di una melodia che da troppo tempo non sentiva più, un’arte musicale che non esercitava da decine e decine di anni da quando aveva sacrificato, tra le prime cose, proprio la musica, con dispiacere ma senza rimpianto. Rimase così, a contemplare nostalgicamente quanto aveva perduto, a mimare nei gesti un altro Valiel, di un altro tempo, per una mezz’ora buona. Poi, finalmente, un primo raggio di luna colpì l’acqua e la coltre d’illusioni che copriva l’aria si diradò. Si disegnarono, tra i ciuffi d’erba acquatica, dei grandi alberi coperti di muschi bianchi che quasi splendevano per rispondere al bagliore lunare, alberi contorti e ramosi che sembravano crescere dentro e intorno ad imponenti palazzi, alte costruzioni a pagoda chiuse da molteplici tetti larghi e ricurvi – in effetti si sarebbe potuto dire, all’opposto, che erano stati gli edifici a sbocciare in mezzo ai rami. Sotto ciascun tetto ampie finestre argentee adorne riflettevano il paesaggio circostante, permettendo solo a chi era all’interno di guardare fuori e non viceversa. Evalunith era una città nota per essere poco aperta persino ai visitatori elfici e del resto anche per tale ragione che Valiel poteva vivere in quel territorio meglio che in altri.

«Mal trovato al chiaro di luna, Valadwen Yun Valiel».

Valiel non si preoccupò neppure di cercare l’origine della voce nel buio tra due grossi rami fosforescenti. Si alzò pigramente.

«Elzen, quanto tempo. Talmente tanto che si potrebbe quasi pensare che non apprezziamo le reciproche compagnie».

«Invero sì, qualcuno potrebbe crederlo. Quali affari ti portano, certo brevemente, a lasciare il tuo posto di ramingo?»

Elzen uscì dalle tenebre. I suoi curatissimi capelli argentei e corti, perfettamente separati in una linea centrale, i tatuaggi che gli disegnavano dei rami d’edera smeraldini sul volto, la pelle scura come terra bruciata e le vesti cerimoniali di seta cinerea: sembrava che per Evalunith Dia Elzen gli ultimi trent’anni non fossero trascorsi affatto, mentre sulle vesti di Valiel si erano accumulate foglie secche, gusci di lumaca, scalda gambe di pelliccia, toppe su innumerevoli strappi e una cintura di pugnali da lancio sbeccati dal troppo uso. Sembrava quel che era: che avesse vissuto per anni come un animale nella foresta.

«Come sai, mi sforzo al mio meglio per prolungare quanto più possibile le nostre dolorose separazioni. Ma in questo caso, avendo informazioni piuttosto complesse da comunicare e, posso immaginare, apprestandomi ad averne di altrettanto complesse da ricevere, sono venuto di persona».

«Bene, allora. Dimmi che affari hai qui così che tu possa tornare a fare il ramingo ed io a custodire… la mia città».

Per appena un secondo Elzen indicò il tatuaggio color corallo sullo zigomo di Valiel, che aveva la forma di un groviglio di rovi e che ricordava antiche tradizioni ormai perdute in quelle terre. Valiel ne colse immediatamente il senso: era la sua città e non quella di Valiel, così come non era certo la città ciò che l’elfo rimaneva a custodire e anche ciò che realmente custodiva (voleva fargli capire) apparteneva più a lui che a Valiel. Questi ne approfittò per ricambiare la sua scortesia.

«Noto anche con malcelato piacere che sei ancora un arcidruido. Quale fortuna per la nostra… la tua gente, gli elfi della Luna tutti. Peccato non ci si possa sposare».

«Questi» ribatté Elzen indicando col dito le foglie d’edera disegnate sul viso, luccicanti come gemme «non possono essere cancellati, come ben sai. Sono tanto monili distintivi quanto catene infrangibili per chi consacra la propria vita alla Signora della Terra Isor».

«Chissà chi ha più rimpianti? Io per i miei errori o tu per le tue rinunce?»

«Rinuncia è una parola che hai scelto tu, non io».

«Alla fine abbiamo perso entrambi la stessa identica cosa. E in un certo senso non l’abbiamo mai persa del tutto, entrambi. Non lo trovi ironico?»

«Ti sembrerà incredibile» glissò l’altro «ma questa conversazione è durata più di quanto desiderassi. Ti chiedo nuovamente che cosa sei venuto a fare ad Evalunith».

«Preferirei parlarne con la nostra signora. Potremmo porre fine alla reciproca compagnia se mi conducessi da lei ma in caso contrario provvederò ad andarci da solo».

Il volto dell’elfo si scurì notevolmente, si prese dei secondi di silenzio come volesse rendersi conto appieno della situazione: «Valiel… ma allora tu… non sai niente?»

Valiel sgranò gli occhi: c’era solo una cosa che poteva causare quel mutamento d’espressione e quello sguardo in Elzen.

«Lyes? Le è successo qualcosa?»

Tutta l’arroganza che l’arcidruido aveva mostrato prima si dissolse in sincera contrizione: «Avevo dato disposizioni che ti avvertissero quanto prima. Credo che non l’abbiano fatto per farti dispetto, avrei dovuto pensarci. Ti chiedo scusa, per questo».

«Come sta Lyes?» Valiel sembrava incapace di sentire qualsiasi altra cosa.

«Ti assicurò che punirò chi ti ha fatto questo scherzo e…»

«Lyes!» interruppe lui, perentorio.

Elzen sospirò come dovesse rassegnarsi a parlare: «E va bene. Mesi fa… la Bocca di Chimaer settentrionale si è allargato e ha… insomma, tu sai cosa succede. Ha preso la foresta, l’ha divorata per intero. I Quattro Re ne hanno sofferto tutti, senza eccezione, ma in particolare la nostra Lyes e forse Re Hion a Vonselas. Di fatto noi arcidruidi siamo reggenti qui, per ora. Non so bene la situazione a Vonselas».

I due vecchi rivali rimasero a lungo in silenzio. I primi elfi evaluniani intanto uscivano dai palazzi per dedicarsi alla loro vita notturna. Un paio notarono l’arcidruido discutere con un ramingo dall’aria trasandata. Qualcuno, a giudicare dagli sguardi sorpresi, sembrò riconoscerli ma non osò avvicinarli. Nessuno dei due badò a niente di tutto ciò.

«Credo» azzardò Elzen «che dovresti vedere Lyes. Per quanto poco possa farmi piacere, sono certo che lei vorrebbe vederti. Forse la farebbe star meglio. Puoi anche dire a lei quello che devi, anche se sarà il consesso dei Druidi a decidere sul da farsi».

«Ti sono profondamente grato» rispose con tutta la sincerità che poteva, e poi aggiunse supplicante «Portami da lei, ti prego»

«Certamente» confermò l’altro, con dolcezza.

 





Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4025857