2. I CANCELLI DI ZOA
Popolo
dei draghi, signori di Zoa, figli di Arrok dea
del mare, accogliete alle corti vostre il nostro figlio
perduto…
– augurio
funebre della Marina del Mohtam
«Quand’è
che arriviamo? Questo
posto mi mette i brividi».
«Credevo che i nani
amassero i
cunicoli» obiettò Jen «o forse hai paura
del buio? Dopotutto sembri molto più
giovane di me…»
«Non sono molto
più giovane, non ho paura del buio e certamente
non ne ho
degli spazi stretti, ci sono nata». si difese Ed
«È di queste oscene scale
a pioli che ho paura e
della botola di legno marcio che ci sta sopra la testa e di questi
mattoni
tagliati male che abbiamo intorno. Voi umani costruite roba che sembra
fatta
apposta per cadere a pezzi. È imbarazzante. Io sarei
imbarazzata, se fossi in
te».
«Scusa, non ho sentito
niente di
quello che hai detto, credo sia colpa dell’incompetente umano
che ha costruito
un pozzo con una acustica tanto pessima. Che vuoi farci».
«Allora vuoi che ripeta
tutto più
lentamente e scandendo le parole?»
«Incredibile, continuo a
non
sentire niente di quello che dici. Sento solo una specie di
ronzio».
Nel silenzio del pozzo si sparse
una risata sommessa: «Sei proprio uno spasso. Davvero, dico.
Ma mi sono
stufata. Dove cavolo stiamo andando?»
Dalla semioscurità sotto
Ed non
provenne alcuna risposta, solo un tonfo.
«Ehi bionda…
ci sei?»
«Siamo
arrivati» la voce di Jen
rimbombò come se lo spazio intorno a lei si fosse allargato.
Anche Ed si lasciò
cadere. I suoi
piedi furono accolti da una superficie di pietra aguzza, corrosa da
acqua
salmastra che non poteva vedere, ma di cui sentiva l’odore e
l’umidità, oltre
che qualche sporadico rumore di gocce.
«Si direbbe un lago
sotterraneo»
osservò Ed «ma qui non si vede un tubo».
Jen osservò alla sua
destra due
anelli di crescente luminosità. Le iridi della giovane nana
si stringevano
lasciando spazio alle pupille, e acquistavano un lucore dorato: come si
diceva,
gli occhi dei nani potevano adattarsi perfettamente al buio.
«Anzi… qui non
si vede un tubo
perché non c’è… un
tubo».
«Non al momento,
no» confermò
Jen, prima di piombare di nuovo nel silenzio.
«Al
momento no. E quando invece sì?»
Un fischio di Jen, estremamente
acuto, segnò la fine tanto del silenzio quanto del buio.
Un’entità luminescente
e multicolore apparve sotto la superficie dell’acqua
assolutamente liscia e la
ruppe, emergendo con rapidità. La roccia su cui Ed e Jen si
trovavano era
separata da svariati metri di acqua ora illuminata ma tra essa e
l’oggetto che
era emerso sembrarono sbocciare delle enormi foglie di ninfea, come
fossero
pronte ad accompagnare le due ragazze. Ed spalancò gli occhi
e rimase svariati
secondi a bocca aperta, incapace di parlare. Jen sorrise, piena di
sicurezza.
«Eccolo qua».
«Ma questo
è… quello che penso che
sia?»
«Probabilmente. Tu cosa
pensi che
sia?»
Un ventaglio di corallo e anemoni
splendenti si apriva intorno ad un oggetto ovoidale, simile ad uno
specchio di
materiale lucido del colore del mare più scuro. I colori
d’arancio, ametista,
azzurro, danzavano sulle increspature dell’acqua in un
arcobaleno screziato.
«Un Cancello di
Zoa… come fa a
stare sotto la tua baracca marcia una cosa così? Il suo
valore è…»
«Il suo valore non ti
riguarda
affatto» la interruppe bruscamente Jen
«è nascosta da tutti ed è esattamente
così che deve rimanere».
Ed impiegò qualche
minuto a
riprendere il controllo, mentre i suoi occhi squadravano ogni
millimetro di
quella architettura che nessuna arte ingegneristica avrebbe potuto mai
sperare
di ricreare.
«Bè, voglio
dire… è una specie di
scherzo? Come pensi di farmi fuggire con questa cosa? Voglio
dire… tu sei un
essere umano, non…»
Jen interruppe Ed per la terza
volta, scandendo a voce alta: «Tronni,
Thesaigan ono Youma!»
La superficie lucida si
aprì
simmetricamente in due, come le palpebre di un occhio, rivelando una
superficie
più scura e trasparente, che dava l’impressione di
essere gelatinosa.
«Non riconosce il mio
sangue ma
la mia voce».
«Sei davvero in grado di
aprirlo…»
«Già. Di
solito si aprono per
volontà loro, giusto? Credo di poter anche decidere dove ti
porterà».
«Puoi…
dove… tu… hai davvero
studiato più di quanto potessi immaginare, mia sorprendente
zappaterra».
Jen abbassò gli occhi,
rabbuiandosi per un momento in volto: «Stai continuando a
occuparti dei fatti
miei. Come vedi posso rispettare il nostro patto, quindi…
rispetta la tua parte
dell’accordo».
Ed si sedette sulla roccia
appoggiando la faccia sulla mano, contemplando interessata la massa al
centro
della struttura.
«Scusa, a differenza di
te non
credo di poterlo fare».
«Co…
come?»
«È inutile
fare quel tono
minaccioso. Se quella cosa funziona come dovrebbe, sparirò
da qui e ricomparirò
a… uhm… alle Isole Ranaluta, giusto? In tempi
passati erano chiamate Arcipelago
Youma… e Youma è una parola nella lingua dei
draghi».
«Ehm…
sì. Certamente» annuì Jen,
poco convinta.
«Sinceramente il mio
piano,
chiamiamolo così, era di farmi seguire da quei golem fuori
dalla tua fattoria
così che ti lasciassero in pace. Ma se non mi vedono uscire
da qui… non
concluderai niente. E se me ne andrò con il
Cancello di Zoa non mi
vedranno e non potranno seguirmi – anzi, entreranno nella tua
casa a cercarmi,
di sicuro».
Si buttò
all’indietro,
sdraiandosi e appoggiando la testa sulle mani congiunte:
«Bella grana, eh?»
Jen non rispose, sembrava essere
raggelata. Non era stato facile convincersi a mostrarglielo,
l’aveva nascosto
per anni, eppure ci aveva messo meno di un secondo a deciderlo, se
poteva far
sparire Ed e il pericolo che rappresentava dalla sua casa. Invece, per
una specie
di beffa crudele, neanche questo sacrificio era servito.
«Potrebbe essere tra le
prime
dieci o venti
reliquie del Regno
Sottomarino di Zoa… in tutto il mondo…
perché non ti associ a qualche studioso
di Kalaston? Ti rifaresti a nuovo la fattoria, no, che dico, ti
trasferiresti
in una reggia!»
«Basta
impicciarsi!» sbraitò con
una punta d’isteria.
La struttura sembrò
reagire al
cambiamento del tono di voce, perché si richiuse per
inabissarsi
immediatamente, come fosse spaventata o offesa. Improvvisamente, nella
grotta
fu di nuovo buio.
«Tu devi dirmelo! Devi
dirmi come
fare!»
«E che ne so?»
***
«Dai ancora da bere al
moccioso?
Se capitano un paio di guardie passerai i guai, vecchio mio».
«Non gli do proprio
niente. E
comunque, già tu sei una guardia, Bedge».
«Un templare»
precisò lui «ed il
mio unico incarico oggi è riportare il tenente Wiggs a casa
mostrando il meno
possibile in giro per Kalaston la sua… temporanea
incapacità di camminare».
«Temporanea, eh? Passa
più tempo
qui che al muro settentrionale».
Bedge prese un respiro prima di
aggiungere: «O a casa sua».
«Ancora guai con la
moglie?»
chiese l’oste, cercando un’espressione comprensiva
da esibire per l’occasione.
«Shhh! Se sapesse che ne
parliamo…»
«E allora non parlarne ma
mi
sembra tardi, tutta Kalaston sa che…»
«Shhh! Non so se dorme o
è solo
accasciato».
Wiggs stravaccato sul divanetto
con una gamba pigramente distesa sul tavolo era uno spettacolo quasi
blasfemo,
dopotutto il corpetto metallico che indossava sopra la camicia a righe
color
rosso cadmio scuro, parlava chiaro: gli intarsi d’argento
sull’acciaio, che
ricordavano nuvole in tempesta, testimoniavano inequivocabilmente il
suo status
di templare guerriero, uno status che esigeva un’apparenza di
decoro. Bedge
ringraziò la Dea, o chi per lei, che fosse una settimana di
temporali e che la
locanda fosse sostanzialmente vuota, salvo l’oste, loro due e
il cosiddetto
moccioso, un nano praticamente addormentato su uno scricchiolante
tavolino di
legno.
«Certo che la vita della
Cinta
Nord non lo aiuta… non succede mai nulla»
sviò l’oste con una delle sue
migliori banalità da repertorio.
«Già. Invece
al muro meridionale
hanno visto tutto l’incidente di una settimana fa. Si dice
che non sia stato
proprio un incidente. Si dice… che una apprendista della
Forgia sia sparita.
Forse è morta».
«Una
apprendista?» intervenne il
giovane nano, che alzò la testa dalla superficie del tavolo
con un gesto tanto
improvviso che l’oste fece quasi un salto: «E poi
un’altra birra si può avere o
no?»
«Credevo che i nani
reggessero
bene l’alcol. Non è che sei troppo giovane per
bere?»
«Sono astemio, tergente
Beggar».
«Sono il sergente Bedge e
non ho
mai sentito parlare di un nano astemio. E se sei astemio
perché bevi?»
«Nella vita servono
conferme. Non
lo confermi forse anche tu? Ti confermo che confermerei se fossi in
te».
«Sembri un po’
troppo lucido dopo
cinque birre, per essere astemio».
«Sia ringraziato Ukor,
sono
guarito allora! Festeggiamo con una birra. Rossa, per favore. Lo
confermo. Tu
lo confermi? Dovresti».
Il giovane ed irritante nano si
era alzato in piedi. Doveva essere povero in canna: il cappotto giallo
che
indossava doveva essere appartenuto ad un nobile kalastoniano,
perché era un
complesso intreccio di senape e ocra finemente ricamato e ornato di
gemme occhio-di-tigre
anche se era stato lacerato a mezza altezza per adattarlo
all’attuale
indossatore a cui comunque stava larghissimo. Di sicuro era uno di
quegli abiti
aristocratici appartenuti a qualche feudatario che, caduto in
disgrazia,
rivendeva i suoi averi al mercato, capitava spesso che nani o elfi
desiderosi
di mischiarsi tra gli umani e di recidere i legami con le loro culture
originarie scegliessero quel tipo di abbigliamento. Certo, quello era
un nano
piuttosto anticonvenzionale: la pelle era praticamente uguale, per
colore ed
aspetto, alla pelle umana olivastra, com’era tipico dei nani
di basso
lignaggio, e non era tesa dalla solita muscolatura robusta della sua
specie, al
contrario ricordava un ragazzino umano un po’ smagrito; senza
il rosso scuro rivelatore
della capigliatura spettinata e sporca, non si sarebbe potuto affermare
appartenesse al popolo del Mondo Sotterraneo. Il signor Brea, oste
onorato da
trentadue anni, non aveva mai visto un nano (anzi, un essere vivente)
che più
di quello gli desse l’impressione di esser nato come un pesce
fuor d’acqua ed
essere destinato a morirci.
«È sbronzo
fradicio, guarda gli
occhi. E barcolla. È davvero un nano astemio, che la Dea ci
fulmini tutti!
Senti, ragazzo, non berrai altro oggi».
«Ma io posso
pagare!» si lamentò
il giovane, prima di aggiungere frugandosi le tasche
«cioè non posso. Però…
paga lui!»
«Il tenente Wiggs non
paga
proprio un accidente».
«Il senziente ha detto
che
offriva lui a tutti».
«Era ubriaco quando
l’ha detto e
la locanda era vuota. E comunque la parola è tenente,
non senziente».
«Così venite
meno agli impegni,
bergente Sedge».
«Ser-gen-te! Cosa
c’è di
difficile nel ricordare te-nen-te e ser-gen-te?»
Inutile insistere, su
quell’argomento come su altri: il nano si allungava
già verso la botticella più
vicina per servirsi da solo. L’oste afferrò le
braccia smilze e lo ricacciò ben
lontano dal balcone.
«Vatti a fare una doccia
fredda,
piccola canaglia!»
Il nano si lasciò cadere
su una
sedia, scuotendo la mano per il dolore: «Insomma, come
passate il tempo in
questa città? Piove da quasi dieci giorni ormai».
«Almeno una volta o due
l’anno
succede così, poi torna il sole».
«Quando?»
«Che ti frega? Vorresti
bere per
dieci giorni di fila? Torna a casa».
«A
casa…» spingendo con i piedi,
si lasciò cadere indietro con tutta la sedia e
arrivò violentemente a terra con
la nuca; non si mosse più.
«Sentimi bene…
ehi ma… ora
dorme?»
***
«Si può sapere
che accidenti
fai?»
Il vento accarezzava il grano
scompigliando i corti capelli rossi di Ed. Jen dovette scostare una
lunga
ciocca bionda che le era finita dritta negli occhi per guardarla
meglio:
sembrava serena, perfettamente a suo agio come una lucertola che si
gode l’aria
e il sole.
«Mi godo questo
suggestivo
scorcio di vita bucolica. Bella giornata oggi».
Jen rimase sovrappensiero per un
po’, accanto alla giovane nana. Entrambe immobili come scogli
nel mare verde
delle ultime spighe ancora immature.
«Hai deciso di farti
trovare da
quelle cose, in modo da evitare che se la prendano con noi?»
«Non direi. Sono una
pessima
scelta come cavaliere ardente che si sacrifica per i deboli. Poi
neanche potrei
montarlo, un cavallo dico. E comunque, se anche fosse,
perché ora mi staresti
accanto?»
«E tu perché
hai deciso di
correre questo rischio? Sembravi molto spaventata quando ieri ha smesso
di
piovere».
Per la prima volta Jen vide il
suo volto assolutamente serio. Ed le piantò gli occhi
addosso e quasi la prese
per il bavero.
«Chiariamo una cosa. Io
non ho
paura. Capito?»
«Ehm… va
bene?»
«No, non va bene.
Mettitelo in
testa. Non ho paura!»
«Che bambinata, vuoi
dirmi che
non hai paura di nulla?»
«Non dire scemenze.
Voglio dire
che non ne ho qui e ora.»
«Come vuoi tu! Mi spieghi
cosa facciamo
qua fuori?»
Ed rimase ancora un po’
in
silenzio, respirando profondamente. Il suo sguardo andò da
una riva all’altra
del lago e alla Forgia chiaramente deturpata dall’evento di
due settimane
prima. Wulf, mastro Airon, mastro Svea e mastro Quaquathor e i suoi
compagni di
studio: tutti loro stavano per sparire dalla sua vita per sempre, per
sbiadire
lentamente nei ricordi.
«Ho un ottimo affare da
proporti.
Credo che quelli non attaccheranno tanto presto. Di sicuro aspettano
che io sia
isolata da potenziali vittime casuali».
«Non mi sembravano tanto
scrupolosi quei...».
«Golem. Non si tratta di
scrupoli, certo che voi umani mettete sempre i problemi pratici in
fondo alla
lista. Pensaci su: hanno attirato molto l’attenzione
ultimamente e c’è un
limite all’attenzione che chiunque può attirare su
di sé. Aspetteranno, prima
della prossima mossa, o meglio aspetterà chi li muove. Anche
se di sicuro mi
stanno puntando… anche adesso, mentre parliamo».
Jen rabbrividì pensando
che ogni
altura o albero poteva nascondere quei golem intenti ad attendere e
studiarle.
Per un solo istante provò ammirazione per la nana e per il
sangue freddo che
mostrava.
«A…
allora… quale sarebbe questo
affare?»
«Hai aperto un Cancello
di Zoa
davanti ai miei occhi. Credo tu sia l’unica che potrebbe fare
una cosa simile,
no?»
«Non… non ne
ho idea».
Ed si grattò la testa,
come se
stesse cercando di farsi uscire un concetto dal cervello:
«Sì, dev’essere così.
Come puoi esserne capace? Voglio dire, tu non sei…»
«Inutile insistere! Non
te lo dirò!»
«Sì…
ho afferrato il concetto, è
un segreto segretissimo. Ma dimmi questo: pensi che potresti aprirne un
altro,
altrove?»
Jen aprì bocca per
richiuderla
subito, come se una seconda idea avesse fermato la prima.
Guardò alla sua
destra come se qualcuno avesse scritto la risposta lì.
«Potrei esserne capace.
Direi di
sì».
Ed mimò con le dita
degli
occhiali, poi assunse un tono di voce baritonale: «Lei sta
andando
magnificamente, signorina. Un’ultima domanda e concluderemo
l’esame con
successo».
«Falla finita,
buffona».
«Non vanno
così, gli esami nelle
scuole per umani?»
«Che ne so? I figli dei
nobili
vanno a scuola!»
«Ma tu qualcosa hai
studiato, no?
Come fai a parlare in-»
«Quale era la dannata
domanda?»
«A-ehm. Dicevamo. Pensi
che… i
tuoi fratelli potrebbero gestire la fattoria in tua assenza?»
«Ma questo cosa
c’entra? E
comunque…»
«Aspetta, non rispondere.
Ho
appena realizzato che di questo non mi frega un accidente, in
effetti».
Distante da loro due, un elfo
scrutava tra i cespugli. Vide la giovane nana tendere la mano alla
ragazza
umana, due figure piccole e deboli contro
l’immensità del Lago Kalst che
scintillava al sole come una distesa di luce screziata. Dopo una certa
esitazione,
la ragazza prese la mano della nana e se la strinsero con fermezza.
«Cosa succede tra quelle
due?»
Una donnola che si era portata
accanto a Valiel sussurrò in una lingua che solo i raminghi
potevano
comprendere.
«Dovremmo andare via,
elfo».
«Che problema
hai?»
«Il cielo è
funesto».
«Il giorno è
luminoso, il cielo
sgombro e…»
Alzò gli occhi e rimase
per un
po’ a fissare l’azzurro sopra di loro.
«Cosa sono
quelli?» si domandò,
ma poi si rispose da solo: «Aviani… bestie piumate
mangia-uomini. Ma così in alto…
non sono qui per cacciare. Cosa fanno così in fondo
nell’entroterra?»
«È un cattivo
presagio» sussurrò
la donnola, nascondendosi tra le radici.
Dopo
essersi guardate a lungo le due ragazze
lasciarono la mano l’una dell’altra. La ragazza
bionda si diresse verso la sua
fattoria. Gli aviani volarono in cerchio per un po', poi sembrarono
disperdersi.
«Devo riferire ogni
cosa» si
ripromise Valiel.
***
La foresta si aprì
innanzi agli
occhi di Valiel rivelando un’ampia laguna piatta, circondata
da alti alberi
secolari. Mancavano pochi minuti e il sole sarebbe tramontato del
tutto. Si
sedette su una grossa radice, incerto su come lasciar trascorrere il
tempo.
Come volessero rispondergli, le mani e le dita iniziarono a muoversi da
sole,
pizzicando le corde di un’arpa inesistente, seguendo con la
memoria le note di
una melodia che da troppo tempo non sentiva più,
un’arte musicale che non
esercitava da decine e decine di anni da quando aveva sacrificato, tra
le prime
cose, proprio la musica, con dispiacere ma senza rimpianto. Rimase
così, a
contemplare nostalgicamente quanto aveva perduto, a mimare nei gesti un
altro
Valiel, di un altro tempo, per una mezz’ora buona. Poi,
finalmente, un primo
raggio di luna colpì l’acqua e la coltre
d’illusioni che copriva l’aria si
diradò. Si disegnarono, tra i ciuffi d’erba
acquatica, dei grandi alberi
coperti di muschi bianchi che quasi splendevano per rispondere al
bagliore
lunare, alberi contorti e ramosi che sembravano crescere dentro e
intorno ad
imponenti palazzi, alte costruzioni a pagoda chiuse da molteplici tetti
larghi
e ricurvi – in effetti si sarebbe potuto dire,
all’opposto, che erano stati gli
edifici a sbocciare in mezzo ai rami. Sotto ciascun tetto ampie
finestre
argentee adorne riflettevano il paesaggio circostante, permettendo solo
a chi
era all’interno di guardare fuori e non viceversa. Evalunith
era una città nota
per essere poco aperta persino ai visitatori elfici e del resto anche
per tale
ragione che Valiel poteva vivere in quel territorio meglio che in altri.
«Mal trovato al chiaro di
luna,
Valadwen Yun Valiel».
Valiel non si preoccupò
neppure
di cercare l’origine della voce nel buio tra due grossi rami
fosforescenti. Si
alzò pigramente.
«Elzen, quanto tempo.
Talmente
tanto che si potrebbe quasi pensare che non apprezziamo le reciproche
compagnie».
«Invero sì,
qualcuno potrebbe crederlo.
Quali affari ti portano, certo brevemente, a lasciare il tuo posto di
ramingo?»
Elzen uscì dalle
tenebre. I suoi
curatissimi capelli argentei e corti, perfettamente separati in una
linea
centrale, i tatuaggi che gli disegnavano dei rami d’edera
smeraldini sul volto,
la pelle scura come terra bruciata e le vesti cerimoniali di seta
cinerea:
sembrava che per Evalunith Dia Elzen gli ultimi trent’anni
non fossero
trascorsi affatto, mentre sulle vesti di Valiel si erano accumulate
foglie
secche, gusci di lumaca, scalda gambe di pelliccia, toppe su
innumerevoli
strappi e una cintura di pugnali da lancio sbeccati dal troppo uso.
Sembrava
quel che era: che avesse vissuto per anni come un animale nella foresta.
«Come sai, mi sforzo al
mio
meglio per prolungare quanto più possibile le nostre
dolorose separazioni. Ma
in questo caso, avendo informazioni piuttosto complesse da comunicare
e, posso
immaginare, apprestandomi ad averne di altrettanto complesse da
ricevere, sono
venuto di persona».
«Bene, allora. Dimmi che
affari
hai qui così che tu possa tornare a fare il ramingo ed io a
custodire… la mia
città».
Per appena un secondo Elzen
indicò il tatuaggio color corallo sullo zigomo di Valiel,
che aveva la forma di
un groviglio di rovi e che ricordava antiche tradizioni ormai perdute
in quelle
terre. Valiel ne colse immediatamente il senso: era la sua
città e non quella
di Valiel, così come non era certo la città
ciò che l’elfo rimaneva a custodire
e anche ciò che realmente custodiva (voleva fargli capire)
apparteneva più a
lui che a Valiel. Questi ne approfittò per ricambiare la sua
scortesia.
«Noto anche con malcelato
piacere
che sei ancora un arcidruido. Quale fortuna per la nostra…
la tua gente, gli
elfi della Luna tutti. Peccato non ci si possa sposare».
«Questi»
ribatté Elzen indicando
col dito le foglie d’edera disegnate sul viso, luccicanti
come gemme «non
possono essere cancellati, come ben sai. Sono tanto monili distintivi
quanto
catene infrangibili per chi consacra la propria vita alla Signora della
Terra
Isor».
«Chissà chi ha
più rimpianti? Io
per i miei errori o tu per le tue rinunce?»
«Rinuncia è
una parola che hai
scelto tu, non io».
«Alla fine abbiamo perso
entrambi
la stessa identica cosa. E in un certo senso non l’abbiamo
mai persa del tutto,
entrambi. Non lo trovi ironico?»
«Ti sembrerà
incredibile» glissò
l’altro «ma questa conversazione è
durata più di quanto desiderassi. Ti chiedo
nuovamente che cosa sei venuto a fare ad Evalunith».
«Preferirei parlarne con
la
nostra signora. Potremmo porre fine alla reciproca compagnia se mi
conducessi
da lei ma in caso contrario provvederò ad andarci da
solo».
Il volto dell’elfo si
scurì
notevolmente, si prese dei secondi di silenzio come volesse rendersi
conto
appieno della situazione: «Valiel… ma allora
tu… non sai niente?»
Valiel sgranò gli occhi:
c’era
solo una cosa che poteva causare quel mutamento d’espressione
e quello sguardo
in Elzen.
«Lyes? Le è
successo qualcosa?»
Tutta l’arroganza che
l’arcidruido aveva mostrato prima si dissolse in sincera
contrizione: «Avevo
dato disposizioni che ti avvertissero quanto prima. Credo che non
l’abbiano
fatto per farti dispetto, avrei dovuto pensarci. Ti chiedo scusa, per
questo».
«Come sta
Lyes?» Valiel sembrava
incapace di sentire qualsiasi altra cosa.
«Ti assicurò
che punirò chi ti ha
fatto questo scherzo e…»
«Lyes!»
interruppe lui,
perentorio.
Elzen sospirò come
dovesse
rassegnarsi a parlare: «E va bene. Mesi fa… la
Bocca di Chimaer settentrionale
si è allargato e ha… insomma, tu sai cosa
succede. Ha preso la foresta,
l’ha divorata per intero. I Quattro Re ne hanno
sofferto tutti, senza eccezione, ma in particolare la nostra Lyes e
forse Re
Hion a Vonselas. Di fatto noi arcidruidi siamo reggenti qui, per ora.
Non so bene
la situazione a Vonselas».
I due vecchi rivali rimasero a
lungo in silenzio. I primi elfi evaluniani intanto uscivano dai palazzi
per
dedicarsi alla loro vita notturna. Un paio notarono
l’arcidruido discutere con
un ramingo dall’aria trasandata. Qualcuno, a giudicare dagli
sguardi sorpresi,
sembrò riconoscerli ma non osò avvicinarli.
Nessuno dei due badò a niente di
tutto ciò.
«Credo»
azzardò Elzen «che
dovresti vedere Lyes. Per quanto poco possa farmi piacere, sono certo
che lei
vorrebbe vederti. Forse la farebbe star meglio. Puoi anche dire a lei
quello
che devi, anche se sarà il consesso dei Druidi a decidere
sul da farsi».
«Ti sono profondamente
grato»
rispose con tutta la sincerità che poteva, e poi aggiunse
supplicante «Portami
da lei, ti prego»
«Certamente»
confermò l’altro,
con dolcezza.
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