Mancanza

di Persej Combe
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Elisio non c’è.
   Ci sono giorni in cui sparisce senza dare notizie, si assenta per periodi che paiono interminabili, non risponde alle chiamate. Altre volte, invece, magari torna dopo neppure una settimana.
   I primi tempi Augustine ha reagito come fosse tornato indietro negli anni, con quell’ossessione di perderlo e di rimanere da solo con le proprie colpe – Non sono guarito dalle mie ferite, si è sorpreso a dirsi una volta di fronte allo specchio, mentre si guardava dentro e tastava nelle viscere un vuoto che non se n’era mai andato davvero, sospeso nella luce smorta del bagno, in piena notte.
   Ma questa sera pare più lucido; Diantha lo trova sereno quando accogliendola sull’uscio comunica, di nuovo: «Elisio non c’è».
   Anche Diantha, in realtà, spesso va via. I suoi oneri di celebrità non l’hanno abbandonata, neppure qui a Pasio, quest’isola felice separata dal mondo. Quando proprio non resta nessuno, Augustine fa i bagagli e si chiude in laboratorio, perché la solitudine soffoca troppo, si tiene occupato, non pensa.
   «Ho ricevuto le tue cartoline», le dice, segnalibri preziosi in mezzo a pezzi di carta.
   Diantha sorride, gli schiocca un bacio sulla fronte.
   «Ma almeno lui si è fatto sentire?» s’informa.
   Rammenta le volte in cui Augustine gli ha perdonato tutto, e sebbene l’abbia ammonito lei stessa neppure qualche mese prima di essere più comprensivo, ci sono momenti in cui non riesce a sopportarlo. C’è qualcosa di curioso, su quest’isola separata dal mondo, perché sin da quando vi hanno messo piede tutti e tre è come se un vento insidioso si fosse levato a far emergere aspetti sopiti del loro legame attorcigliato – la verità di un rapporto come un altro, non privo dei suoi vizi, di certi nodi malsani.
   «Tu hai sempre avuto più tatto per queste cose, con lui», gli dice ancora, mentre parlano ormai di altro «Io non ne avrei avuto la pazienza. Ci comprendevamo su altri aspetti».
   Si concede un attimo per rifletterci e constatare a sé stessa, di nascosto, che è proprio così.
   «Tra tutti noi, sei sempre stato quello più paziente», ripete «Malva – ti ricordi?, lei lo assecondava in qualunque circostanza. D’altra parte si somigliavano molto».
   Malva. Un nome proibito, un che di rimosso riacciuffato per errore dalla memoria. Diantha si pente, ha scoperchiato qualcosa che non avrebbe dovuto – si affretta inutilmente ad armarsi, ad arginare le voci che sibilano nelle orecchie, grida di guerra, ammissione di colpevolezza.
   «Che fine ha fatto?» incalza Augustine; si è acceso qualcosa in lui mentre ricorda, ricostruisce tra i pensieri l’enigma che è Malva. Non può recuperarlo del tutto, allora Diantha scorge la sua richiesta d’aiuto negli occhi, una curiosità timorosa.
   «Non lo so. Dopo quello che è successo ha resistito qualche mese, poi ha dato le dimissioni dalla Lega. Non ho idea di dove si trovi ora».
   Lo fissa, Augustine attende, Diantha è a disagio. Non ha aggiunto tutto. Nelle parole taciute c’è anche, di riflesso, la nostalgia per Elisio che ora non può ascoltare.
   «Tu non la conoscevi molto, vero?» riprova, «Vi sarete visti a malapena», abbozza.
   «No, in effetti, non ho avuto il piacere», Augustine scrolla le spalle. «Solo... quella volta, sai», e esita.
   Diantha non avrebbe motivo di sincerarsi di un’ulteriore conferma per ciò che ha già inteso nel tono della sua voce che all’improvviso si è incupita, eppure lo guarda, soppesa il movimento degli occhi mentre lo squadra, lei seduta al tavolo con la tazza nelle dita e lui in piedi che le sta di fronte poggiato di schiena contro il ripiano della cucina.
   L’assenza di Elisio in casa pesa in questo momento di tutto il dolore che non gli hanno potuto dire anni fa.
 
 
   Si erano ritrovati insieme un tardo pomeriggio davanti alla cattedrale. Avevano ascoltato la messa senza davvero prestarle attenzione sotto le vetrate oltre cui si spengeva la luce del tramonto, biascicando stralci di preghiera ricopiando le voci degli altri. Poi erano rimasti di fronte all’altare con la gente che oltre le loro schiene tornava a casa, in silenzio al cospetto dei crocifissi dorati, delle statue e dei dipinti, dei santi in martirio, rinchiusi dentro quest’aura di devozione maniacale e improvvisa per cui Elisio si trasformava nel profeta della propria stessa apocalisse.
  Avevano indugiato immobili e storditi fino a quando Malva non aveva sibilato una blasfemia tra i denti; Augustine aveva girato la testa verso di lei non particolarmente risentito, e Diantha si era chinata appena ad accendere una candela.
   Se n’erano andati. Ad attenderli sotto la pioggia un taxi.
   Augustine non aveva pronunciato parola per l’intero tragitto. Diantha lo spiava dallo specchietto retrovisore: lo sguardo perso nel vuoto, dissolto in una nube di apatia, assorto e contrito dentro i suoi pensieri. Le aveva confessato qualche giorno prima il rimpianto di non averglielo detto.
   Lo avevano lasciato al cancello di casa sua. Malva aveva intimato di aspettare finché non entrasse, una premura a lei anomala. Si era piegata sul finestrino tenendo la mano ferma sulla spalla del tassista con tutte le unghie. Erano ripartiti lasciandosi dietro una scia ondosa, arrancando sulle ruote immerse nell’acqua.
   «Che tempo di merda», la sentenza di Malva.
   Diantha le propose di rimanere insieme la notte; ma una volta arrivate, quando si richiuse la porta, un senso di vertigine l’attanagliò alla testa, avvertì concretamente il peso di dover trascinare dentro quel che non si poteva costringere fuori.
   Diantha avanzò di qualche passo a spogliarsi del cappotto, Malva restò muta alle sue spalle. Si avventò su di lei a ricercarla che era quasi un’aggressione, e Diantha tentennò dallo spavento – ma si sarebbe lasciata fare tutto mentre sentiva il suo corpo cingerla, soffocarle un’agonia; poi invece una carezza. Malva si accucciò col viso sopra la sua spalla.
   «Ti odio. Ti odio con tutta me stessa».
   Diantha l’ascoltò, senza interrompere il suo pianto.
   «Io sono devastata, quell’altro non parla nemmeno e soffre perché lo amava come me. Tu invece è come se non t’importasse affatto, sei lontana... D’altra parte anche quel giorno non hai mosso un dito. Dov’eri? Pensi che una candela adesso davvero basti?».
   Andare a rivangare nel senso di colpa. Si apriva un’altra volta una lacerazione, al di sotto delle carni e oltre, e non si riusciva a riparare. Diantha non poteva dirle di aver passato notti insonni abbandonata ai tremori, alle nevrosi che le suscitava la verità di non avere voluto abbastanza – da Campionessa avrebbe dovuto intervenire; di fatto non era stata all’altezza del proprio ruolo, né del legame che li aveva uniti, lei e lui, loro, per anni.
   Tu mi eri così simile, si ripeteva ossessivamente nei propri discorsi, ma non ti ho mai veramente capito, e di nuovo da capo: Tu mi eri così simile, tu mi eri così caro...
   Ridisciogliere i fili di quel che era effettivamente successo a distanza appena di pochi giorni si rivelava impossibile, buchi di memoria esigevano di essere riempiti nutrendosi degli stralci che Augustine e Malva le offrivano nei propri racconti, fagocitando suggestioni che lì per lì le davano appagamento e che però nel ricordo non emergevano.
   «Non te n’è mai fregato un cazzo».
   Diantha si ribellò.
   «Lo sai che non è così».
   E voleva piangere anche lei.
   «Lo sai che non è così».
   «Lo so».
   Una stanchezza insormontabile le vinse entrambe: non c’era più nulla da dire.
   Ancora, dentro il letto, Malva si appoggiava alla sua spalla, vi nascondeva contro il viso con gli occhi chiusi, la bocca che tremava premuta con forza sopra la scapola.
   «Non mi ha mai mostrato la sua spalla nuda».
   «Non lo ha mai fatto con nessuno di noi».
   Perché Elisio si è sempre nascosto sotto strati impenetrabili di orgoglio – e in questo si erano assomigliati, era su questi aspetti che lui e Diantha si erano compresi in qualche modo improbabile e folle.
   Di fronte ai suoi occhi persi, lucidi, affranti, alla bocca dischiusa di Malva incapace di trovare le parole per dare forma alla solitudine, Diantha si tirò in avanti e non avrebbe potuto fare altro che venirle incontro; una mano tra i capelli, l’altra su una guancia, a lasciare le loro labbra sfiorarsi.
 
 
   Senza preavviso scoppia in un pianto che ha celato per anni, si piega, serra la bocca perché ormai tutto preme per uscire, la tazza cade, si rompe, il pavimento si macchia. Augustine la raggiunge, l’abbraccia ma non può più contenerla.
   Diantha si abbandona a una risata stanca. Coi denti stretti ha la forza appena per ribattere:
   «Alla fine restiamo sempre noi due, noi due come due poveri idioti».
.

 


Anche stasera, come sta succedendo ultimamente, pubblico senza preavviso.
Per il momento credo che con questo filone chiuderò qui, con questo finale un po' sospeso e un po' triste: per adesso a Pasio non ho altro da affrontare, e quello che mi premeva raccontare di più l'ho scritto. Spero vi abbia fatto piacere seguire gli sviluppi di questo ramo alternativo!
Lascerò comunque la serie aperta nel caso in cui in futuro volessi tornarci sopra.
Se posso chiedervi un favore, mi piacerebbe molto poter inserire anche Malva tra i personaggi di questa storia, per farli apparire tutti e quattro insieme nell'introduzione: potreste andare a votare per lei nella lista dei personaggi della sezione?
Un abbraccio ♥
Persej




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