So much things you had to through
Titolo: So much
things you had to through
Autore: My
Pride
Fandom: Super
Sons
Tipologia: One-shot
[ 1877 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Jonathan
Samuel Kent, Clark Kent
Rating: Giallo
Genere: Generale,
Slice of life, Malinconico
Avvertimenti: What if?
May I write: 1. "Non
l'ho mai preteso" || 3. Curtain fic
SUPER SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
Jon
si sedette pesantemente su uno dei gradini del portico, passandosi un
braccio sulla fronte sudata mentre osservava lo steccato con un sorriso
dipinto in viso.
Lui e Damian si erano trasferiti solo da
un paio di
mesi, eppure le cose erano migliorate giorno dopo giorno, forse anche
grazie all'aria di campagna e all'essere lontani dalla città
e
dai suoi perenni e caotici guai. Entrambi avevano dovuto adeguarsi alla
nuova vita - per quanto avesse vissuto in una fattoria fino a dieci
anni, i successivi li aveva passati nell'agio della grande Metropolis
-, ma avevano affrontato insieme quel cambiamento, poiché
aveva
fatto bene specialmente a Damian. A volte Jon si sentiva strano senza
poter più fare affidamento sui propri poteri, ma aiutare
Damian
a superare la perdita della propria gamba era stato molto
più
importante.
«Ehi, Jonno. Ti ho portato da
bere».
Jon sorrise raggiante nel sentire suo
padre,
sollevando lo sguardo verso di lui per vederlo con due bottiglie di
birra fra le mani. La sua presenza alla fattoria era stata di grande
aiuto, e non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza. Con Damian non
esattamente in condizione di potersi occupare con lui delle
riparazioni, Jon si era rimboccato le maniche e aveva cercato di
rendere quella casa - la stessa casa in cui aveva vissuto da bambino -
perfetta per entrambi, riverniciando le pareti e inchiodando le assi
del pavimento; Damian aveva cercato di dare una mano per quanto
possibile, facendosi forza con la stampella nel girare per casa con
l'ausilio di una gamba. E Jon lo aveva lasciato fare, consapevole che
frenarlo avrebbe solo fatto in modo che si sentisse nuovamente inutile
e potesse chiudersi in se stesso. L’arrivo di suo padre era
stato
provvidenziale e aveva velocizzato non poco i suoi compiti, e osservare
il lavoro che avevano fatto riempiva il cuore di Jon di un moto di
orgoglio.
«Grazie,
papà», disse Jon
nell’allungare la mano per afferrare la bottiglia, e non lo
stava
ringraziando solo per quella. Avere il supporto di tutti loro era
ciò di cui lui e Damian avevano bisogno, anche se avrebbero
preso quella decisione qualunque cosa avessero detto gli altri.
«Di niente,
ragazzo». Clark si sedette
al suo fianco e stappò le birre con due dita, e nel vederlo
bere
un generoso sorso sbuffò ilare. «Ehi, vacci piano
con
quella».
«Papà…
guarda che non è
la prima volta che ne bevo una, li ho superati da un pezzo i ventun
anni…»
«Ma adesso non hai
più la tolleranza
kryptoniana», gli rese noto, ridacchiando al brontolio del
figlio
prima di guardare a sua volta lo steccato e i piccoli steli che
spuntavano timidamente dal terreno. Era tutto ben lontano
dall’essere uh vero e proprio campo di grano, ma era un
inizio.
Sarebbe cresciuto esattamente come i giovani uomini che abitavano ormai
quella casa. «Chi avrebbe mai detto che avremmo condiviso una
birra insieme dopo una lunga giornata in fattoria».
Jon rise genuino.
«È strano anche per
me», ammise. «Dopo il nostro trasferimento a
Metropolis,
credevo che avremmo messo piede in campagna solo per andare a trovare i
nonni. Non avrei mai pensato che sarei tornato a viverci».
«Nemmeno io»,
affermò Clark prima
di bere un sorso. «La tua scelta ha stupito tutti, ma
mentirei se
dicessi di non essere felice per te e per Damian. Sembrate felici, e
Damian sembra più rilassato di quanto non lo fosse in
città. Dopo quello che ha passato…»
«Non parliamone, ti
prego».
La voce di Jon suonava lugubre, Clark
sentì
anche il suo cuore accelerare di qualche battito, e allungò
un
braccio per cingergli le spalle e tenerlo contro di sé. Le
camicie si erano appiccicate al petto e contro i bicipiti a causa del
sudore, ma a nessuno dei due parve importare. Aveva avuto modo di
seguire, seppur a distanza, il percorso impervio che i due giovani
avevano dovuto affrontare, la sofferenza di Damian e la frustrazione di
Jon, la sua consapevolezza di non poter fare niente per far star meglio
la persona che amava e tutta l’ansia e la paura che gli
cresceva
dentro, cercando di supportarlo come concesso dal suo essere padre. Gli
aveva consigliato di tenere un diario, si scaricare in esso i suoi
flussi di coscienza e di cercare di sfogare tutti i suoi dubbi in quel
modo, i progressi di Damian e le ricadute, ma era stato solo quando Jon
gli aveva chiesto di prelevare della kryptonite dorata che Clark aveva
davvero capito quanto peso si fosse portato addosso suo figlio per mesi
e mesi. Il continuo irrigidimento delle sue spalle durante le missioni,
lo sfrecciare frenetico dei suoi occhi verso punti lontani del cielo,
le orecchie che fremevano come quelle di un cane come se fosse in
ascolto del battito del cuore di Damian e il suo stesso cuore che
batteva ferocemente nel petto, un cambiamento continuo di emozioni
tenute sotto controllo per evitare letteralmente di esplodere.
Finché alla fine non ce l’aveva più
fatta e aveva
preso una decisione: in un infinito universo di
responsabilità e
doveri, l’unica cosa che contava era la salute di Damian.
Clark scosse la testa al pensiero,
fissandolo in
viso con attenzione. Poteva vedere ogni cambiamento sul viso di suo
figlio a livello molecolare, il fremere impercettibile del suo labbro,
i pori della sua pelle dilatati e il movimento velocissimo delle sue
pupille, come se gli occhi stessi stessero tremando. E non voleva
vederlo così. «Hai ragione, Jonno. Non volevo
sollevare
l’argomento». Gli strinse delicatamente un braccio,
dosando
la sua forza poiché il corpo di suo figlio non avrebbe
sopportato una presa più ferrea, ma Jon scosse debolmente la
testa.
«Non è colpa tua
papà»,
sussurrò, abbassando lo sguardo sul bordo per osservare la
birra
all’interno. «Sapevo che non sarebbe stato facile.
Non ho
mai preteso che lo fosse». Jon strinse entrambe le mani
intorno
alla bottiglia, e se avesse avuto ancora i suoi poteri
l’avrebbe
ridotta in frantumi. «Tutto ciò che volevo era
solo che
Damian stesse meglio, che tornasse a sentirsi bene con se stesso e
che… che non stesse così male,
io…»
Clark avvertì
l’odore salato delle
lacrime prima ancora che ruzzolassero dagli occhi di suo figlio, e lo
strinse maggiormente contro di sé per poggiargli un bacio
sulla
testa. «Va tutto bene, Jonno. Tutto bene», gli
sussurrò fra i capelli, sentendolo sussultare in preda ai
singhiozzi che cercava di contenere mentre scuoteva la testa e
biascicava tra sé e sé parole incomprensibili. Lo
capiva.
Riusciva a comprendere quanto fosse stato difficile per lui vedere un
ragazzo come Damian - il suo migliore amico, il suo partner, la persona
che era diventata il suo mondo - in quello stato, quanto gli avesse
stretto il cuore e quanto avesse avuto la sensazione di respirare acqua
per mesi e mesi, e vederlo piangere, sfogarsi, lasciarsi finalmente
andare stringeva anche il suo cuore. E desiderò che quel
muscolo
che gli batteva in petto fosse abbastanza grande per contenere tutto il
dolore che gli stava mostrando suo figlio.
Posò lui stesso le bottiglie
di birra sul
portico e rimasero in quel silenzio rotto solo dai singhiozzi di Jon e
dal fruscio dell’erba, dal cinguettio distante degli uccelli
della campagna che sembravano cercare di celare quel pianto, le
orecchie di Clark colme solo e unicamente di quel battito cardiaco
mentre carezzava la schiena curva di suo figlio e gli dava conforto
senza proferire parola. Non ce n’era bisogno. Non ce
n’era
mai stato. E Clark non smise per un secondo di abbracciarlo, di placare
quei singulti, finché Jon non smise poco a poco di
sussultare e
si accasciò un po’ in avanti.
«S-Sono un idiota»,
disse infine Jon
mentre tirava su col naso, passandosi il dorso e il palmo della mano
sugli occhi nel tentativo di asciugare le lacrime ancora intrappolate
sulle ciglia. «T-Ti ho detto di non parlarne e p-poi
l’ho
fatto io, e m-mi sono persino messo a piangere, non--»
«Non hai nulla per cui
sentirti idiota,
ragazzo», replicò Clark in un sussurro.
«Ho visto
come ti ha fatto sentire questa situazione. Se noi da esterni stavamo
male, non posso nemmeno immaginare cosa avete dovuto affrontare tu e
Damian, quanto dev’essere stato difficile per entrambi anche
se
cercavamo di starvi vicino. Ho visto persino Bruce piangere in caverna
quando tornava da una pattuglia o dopo essere andato a trovare Damian,
e non pensare nemmeno per un momento che sfogarti sia stato
stupido». Gli asciugò lui stesso un angolo
dell’occhio destro, notando il luccichio di una lacrima.
«Non ti sei mai tirato indietro, ti sei sempre mostrato forte
e
indistruttibile e hai sempre cercato di fare il possibile per Damian e
per il mondo… e non ti sei mai lamentato di niente. Hai
sempre
fatto ciò che dovevi».
Jon si morse il labbro inferiore,
cercando di
asciugare ancora un po’ gli occhi. «Avrei voluto
fare di
più, aiutare il più possibile, ma… mi
sentivo come
se la pressione mi stesse schiacciando». Trasse un lungo
respiro,
sollevando lo sguardo verso l’alto.
«C’erano
così tante responsabilità, così tante
persone che
si aspettavano che risolvessi ogni cosa, era tutto così
soffocante che non… non potevo semplicemente lasciare che
tutto
mi scorresse addosso e tornare da Damian con lo stress che mi
martellava la testa. Non volevo lasciare che voi vi prendeste carico
anche di ciò che mi spettava, ma non potevo… non
potevo
dare a Damian altro peso da sopportare».
«Jon, ehi, figliolo.
Guardami». Clark
gli afferrò il viso con entrambe le mani, delicatamente,
costringendolo a voltarsi poco a poco verso di lui per fissarlo in
quegli occhi ancora un po’ rossi e gonfi di pianto.
«Nessuno ti biasima per la tua scelta, nessuno ha intenzione
di
farti pesare la strada che hai deciso di percorrere. Siamo tutti felici
per te e Damian». Gli carezzò il viso, sollevando
un
angolo della bocca in un sorriso. «Sono fiero di te, ragazzo
mio.
Non dubitarne mai».
Un sorriso timido e stentato si fece
spazio sulle
labbra di Jon, che avvolse le braccia intorno ai fianchi del padre per
tenerlo contro di sé. «Grazie,
papà»,
sussurrò, affondando il viso nel suo petto. Era grato a suo
padre di quelle parole e, sebbene fosse stato convinto di non volerne
parlare, forse farlo era davvero ciò di cui aveva bisogno.
Si
erano lasciati tutto alle spalle per poter vivere una vita
tranquilla… e avrebbe scelto di perdere i suoi poteri altre
dieci, cento, mille volte ancora se fosse servito.
Non seppero quanto tempo restarono
lì seduti
sul portico, a sussurrarsi parole e a cercare di scacciare quella
malinconia, a guardare la campagna che si estendeva a perdita
d’occhio e a sorseggiare birra, finché non videro
l’auto di Lois parcheggiare nel vialetto proprio in
quell’istante e Damian scendere per primo, sorreggendosi alla
stampella mentre chiacchierava con Lois. E Jon non perse un istante di
quei movimenti e del saluto che gli venne rivolto, sentendo la mano di
suo padre stringergli una spalla come a fargli forza e ricordargli che
quel sorriso sulle labbra di Damian valeva più del possedere
la
forza di frantumare un diamante.
Quella era la loro vita,
adesso… e ne meritavano ogni singolo istante.
_Note inconcludenti dell'autrice
Questo
è il ventesimo
giorno dell'iniziativa #mayiwrite indetta dal gruppo Non solo
Sherlock - gruppo eventi multifandom
Non ho la benché minima idea di che cosa sia successo, se
proprio devo essere sincera con me stessa. Doveva essere una cosa
stupida in cui padre e figlio condividono una birra dopo una giornata
di lavoro, una cosetta leggera leggera all'insegna del fluff, ma hanno
deciso che non gli piaceva e siamo finiti così.
Qualche
ispirazione dalla canzone Surface Pressure, è sparsa un po'
in
giro per il testo soprattutto nelle frasi di Jon e nei pensieri di
Clark su di lui. Per fortuna supereranno anche questo momento e
vivranno felici e contenti
Commenti
e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
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