Fuga nella notte

di Spoocky
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Carissimi lettori e lettrici, ecco a voi un nuovo capitolo di questa intricata vicenda, nella speranza che non vi sia venuta del tutto a noia.
Purtroppo, la vita mi lascia poco tempo da dedicare alla scrittura, ma sto cercando di fare del mio meglio.
Nel frattempo, un cordiale ringraziamento a chiunque abbia trovato due minuti da dedicare al mio lavoro e sopratutto a chi ha lasciato un pensiero.
Grazie infinite.


Buona lettura ^^

Nella penombra della cella, Nathan si agitava sotto le coperte.
Quel poco di pelle lasciato scoperto dalle bende era arrossato e il sudore malsano dovuto all’emorragia aveva lasciato il posto a quello, anche più preoccupante, causato da una febbre che non sembrava voler smettere di alzarsi.
La temperatura alta non faceva che esacerbare il senso di smarrimento e confusione causati dal laudano e il giovane non riusciva a trovare pace nel suo letto.
Al suo capezzale, Conrad aveva il suo bel daffare a cercare di tenerlo tranquillo: gli parlava piano e gli tamponava viso, collo, e braccia con la pezzuola umida per cercare di tenere la febbre sotto controllo.
Tutte le sue cure, per quanto accorate, non sembravano sortire alcun effetto benefico.
Anzi, più cercava di avvicinarsi, più il giovane tentava di sottrarsi al suo tocco: “Fermatevi.” Sussurrava, tra gli ansiti “Fa male. Basta. Fa male.”
Quelle suppliche disperate lo ferirono nell’animo, ma si sforzò di non dare loro troppo peso. Con la febbre così alta, il laudano e il calvario che aveva appena subito, non poteva essere consapevole di quello che diceva.

Finché, a un certo punto, Nathan aprì gli occhi.
Pur lucidi per la febbre e sofferenti, quando incontrarono quelli di Conrad sembravano del tutto consapevoli.
Ne ebbe la conferma quando, allungando cauto una mano verso la sua tempia, il giovane strinse gli occhi di riflesso, ma non tentò di sottrarsi. Gli sfiorò i capelli con i polpastrelli per pettinarglieli e, vedendolo più tranquillo, continuò con un tocco delicato e gentile, che non lo spaventasse: “Bentornato, signor Bertrand. Come vi sentite?”
Il respiro affaticato del giovane si trasformò in un accesso di tosse appena schiuse le labbra per rispondere.  
Muovendosi con cautela, per non fargli male, Conrad lo tirò a sedere passandogli un braccio dietro le spalle e, sorreggendolo in quella posizione, gli accostò una tazza alle labbra e lo aiutò a bere un infuso, ormai freddo, che i monaci gli avevano preparato.
Quand’ebbe finito di bere, il giovane gli appoggiò il capo sulla spalla, come se avesse bisogno del contatto per sentirsi protetto.

Conrad non lo respinse, ma, avendolo così vicino, sentiva bene i suoni che produceva respirando e venne pervaso dalla preoccupazione. Si guardò bene, tuttavia, dal dire nulla al suo sottoposto.
Gli pose invece la mano sul petto, attento a non fare pressione, e glielo strofinò disegnando dei cerchi, per aiutarlo a respirare. Ne approfittò per raddrizzargli le fasciature, che si erano spostate mentre si agitava.
“Grazie.” Un filo di voce, a malapena udibile, sfiorò l’orecchio dell’agente che, come unica risposta, se lo tirò più vicino.
Non lo lasciò andare subito, anche perché in quella posizione sembrava respirare meglio, ma s’appoggiò con la schiena alla testata del letto, per poterlo sorreggere con più agio.
Il respiro del giovane, per quanto affaticato, si fece più regolare.
Cercando di non disturbarlo, Conrad gli portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e, con due dita, gli massaggiò la tempia con dei movimenti circolari, che alternava a delle lievi carezze sulle sopracciglia con il polpastrello.
A poco a poco, sentì il respiro del giovane rallentare e il suo corpo magro si fece più morbido e pesante addosso al suo, mentre sprofondava nel sonno.
Solo quando fu sicuro che fosse addormentato lo riadagiò con cura sul materasso, avendo cura di fargli scivolare un cuscino sotto le spalle per aiutarlo a respirare meglio.
Gli posò un braccio sul ventre ed uno allungato sul fianco, prima di rimboccargli le coperte sulle spalle.
 


Aveva appena disteso il giovane nel lettuccio, quando un rumore gli fece drizzare le orecchie.
Il monastero, di per sé, era tutt’altro che silenzioso: attraverso le spesse mura di pietra giungevano, seppure attutiti, nella cella i canti del coro che provava per la Messa, i rumori degli attrezzi nell’officina del fabbro, le litanie dei monaci che lavoravano nell’orto, le chiacchiere dei garzoni nel cortile, le strida dei gabbiani e l’onnipresente scrosciare delle onde.
Tutti quei suoni, legati dalla rigida ripartizione oraria della Regola, s’intrecciavano tra loro in un’armonia quasi orchestrale, che li rendeva quasi parte integrante del luogo.
Quello che invece rimbombava nel corridoio, facendosi sempre più vicino, era apparso subito all’orecchio dell’agente come una nota stonata.
Un qualcosa di non ben classificabile, che però sembrava non trovare spazio nel preciso equilibrio del monastero. Qualcosa che riconobbe subito come estraneo, fuori luogo.
Qualcosa che lo mise in allarme.

Impiegò qualche minuto di troppo per rendersi conto di cosa fosse quel rumore.
Un po’ perché i muri erano molto spessi, un po’ perché era uno degli ultimi suoni che si sarebbe aspettato di udire in quel luogo.
Erano i passi di un uomo che camminava lungo il corridoio. Un uomo che calzava pesanti stivali in cuoio.
Peccato che i monaci non indossassero stivali.
Non appena riconobbe il suono, mentre i passi si facevano sempre più vicini, Conrad scattò sulla difensiva, portandosi con le spalle contro al muro, defilato rispetto alla porta, in modo da poter vedere subito chiunque avesse cercato di entrare.
Un moto istintivo gli fece portare la mano alla cintura, dove, di norma, si trovava l’impugnatura della sua pistola. Trasse un impercettibile sospiro di sollievo nel trovarla al suo posto.
Nonostante avesse avuto la previdenza, più per abitudine che altro, di tenere l’arma a portata di mano, si maledisse a mezza voce, sibilando un’imprecazione a denti stretti. Aveva abbassato la guardia, di poco, per pochi istanti, e rischiava di costargli caro.
Soprattutto, Nathan era di nuovo in pericolo, e questo non poteva accettarlo.

Abituato a combattere, Conrad si guardò intorno e, in pochi secondi, si fece un quadro completo della stanza.
Le pareti, di spessa roccia, avrebbero attutito i rumori della colluttazione, ma avrebbero anche amplificato oltre misura il suono dello sparo. Tuttavia, era appena iniziata la Messa e i monaci erano tutti radunati in chiesa, mentre i garzoni e gli assistenti pranzavano. Nessuno sarebbe accorso in suo aiuto.
La finestra, con gli scuri socchiusi, era comunque troppo piccola per far uscire una persona e il camino costituiva la principale fonte di luce.
Questo avrebbe giocato in suo favore: i suoi occhi, ormai, erano abituati alla semi-oscurità della stanza, ma chiunque fosse entrato avrebbe avuto bisogno di qualche secondo per orientarsi. Un intervallo misero, ma pur sempre un vantaggio.
Non da ultimo, veniva il problema di Nathan: partiva già in svantaggio dovendo proteggere anche lui. Nelle condizioni in cui versava era del tutto indifeso, non poteva permettere che gli si avvicinassero. Avrebbe dovuto tenere il potenziale aggressore lontano dal ferito, ad ogni costo.
Si posizionò dunque tra il letto e la porta, in modo da poter balzare addosso a chiunque fosse entrato. Nel farlo, i suoi muscoli si tesero e percepì la rigida presenza del pugnale che teneva nello stivale.
Trasse un altro sbuffo stizzito, era una situazione che mai si sarebbe aspettato di dover gestire, ma aveva i mezzi per gestirla, e la buona sorte gli aveva consentito di accorgersi della minaccia in tempo utile.
Poteva farcela.
Come ultima precauzione, si sfilò la giacca e mise un cuscino di scorta sulla sedia che aveva occupato fino a quel momento, avvolgendolo nell’indumento.
Si pose dunque in attesa, ad aspettare, i muscoli contratti come un serpente pronto a scattare. Chiunque fosse entrato da quella porta, non avrebbe avuto vita facile.

La sua prudenza fu premiata quando, pochi istanti dopo, la porta si socchiuse con un cigolio sinistro e spuntò un bastoncino cavo, sottile, puntato verso la sedia dove aveva appeso la giacca.
Un sibilo acuto gli risuonò nelle orecchie, sferzando il silenzio della stanza, e un dardo acuminato si conficcò nel cuscino, dove fino a poco prima si trovava la sua schiena.
Trattenne il respiro, mentre il bastoncino si ritraeva, ed estrasse il coltello.
Quando vide il braccio dell’aggressore rientrare, questa volta con una pistola, l’istinto, catalizzato da anni d’addestramento, prese il sopravvento.
In due balzi raggiunse la porta e vi si scagliò contro con tutto il suo peso.
Il braccio dell’assalitore rimase schiacciato tra lo stipite ed il pesante uscio di legno. La pistola cadde con un tonfo sul pavimento e Conrad ebbe la soddisfazione di sentire un grido di dolore, accompagnato dallo schiocco sonoro del gomito che si spezzava.

Senza perdere un secondo, l’agente aprì del tutto la porta e si lanciò addosso al sicario, un uomo incappucciato vestito come uno stalliere, prima che questi potesse riprendersi dallo spavento.
Con entrambe le mani gli afferrò il braccio ferito e lo tirò, sbilanciandolo verso di sé. Tentò di farlo cadere ma l’altro agì di riflesso, tirandoselo contro e gettandosi con la schiena a terra.
Puntandogli un piede contro lo stomaco, riuscì a proiettarlo su di sé, con l’intento di scaraventarlo schiena a terra. Il gomito disarticolato, tuttavia, gl’impedì di portare a termine l’azione come avrebbe voluto.
Conrad, non cadde a terra, rimase dov’era, con i piedi ben piantati a terra. Decise tuttavia di assecondare il movimento del suo assalitore, dandosi lo slancio con i piedi, per liberarsi da quella situazione di svantaggio. Anziché finire tramortito sul pavimento, rotolò alla testa del sicario, da dove si rialzò in piedi in posizione di guardia.
Nella concitazione, il suo avversario era rimasto a capo scoperto.

Era un uomo dai folti ricci neri, raccolti con un nastro dietro la testa, con un profondo sfregio che gli tagliava il sopracciglio destro per poi proseguire lungo la guancia fino al mento. François Gervais, un agente francese molto vicino alle sfere di potere, con cui Conrad non aveva mai avuto a che fare di persona, ma che conosceva di fama.
Era noto, infatti, per agire nell’ombra, senza mai uscire allo scoperto, tanto che alcuni dubitavano della sua stessa esistenza o lo ritenevano uno spettro senza volto, famoso per risolvere senza lasciare tracce le situazioni più turpi in cui i Servizi francesi s’andavano a trovare.
Con un gesto di cui temeva di potersi pentire, Conrad rinfoderò il coltello. Gervais valeva molto più da vivo che da morto.
Tenendosi il braccio rotto, l’uomo si tirò in piedi.
“Anglais sans-couilles!” sputò per terra “Altri prima di te hanno provato a farmi fuori e non sono vissuti per raccontarlo.”
Come una fiera, il francese rischiava di essere più pericoloso da ferito. Soprattutto, ora che lo aveva visto in faccia, non avrebbe potuto lasciarlo vivere.
Era, ormai, una questione di vita o di morte, per entrambi.

Si studiarono per qualche secondo, di cui Conrad approfittò per mettersi tra il francese e la porta della cella, ma Gervais, fulmineo, si sfilò un coltello dalla manica e lo lanciò nella direzione dell’inglese che, per schivarlo, dovette rotolare di lato.
Il sicario gli diede un calcio nello stomaco, che lo fece piegare in due, e lo superò con un salto, avventandosi sulla porta.
Conrad scalciò e gli fu subito addosso ma quello fu più veloce, e guadagnò la stanza.

L’inglese s’avventò su di lui e lo atterrò appena prima che riuscisse a mettere le mani addosso a Nathan, ma entrambi atterrarono sul letto, svegliando il giovane.
Nonostante la febbre e il dolore lo stordissero, Bertrand capì subito che qualcosa non andava.
Ignorando il dolore delle proprie ferite, si piegò in avanti e gettò le braccia al collo del francese, stringendolo in una morsa.
Era molto debole, forse più di quanto si fosse reso conto, e sentì subito le forze affievolirsi. Con uno sforzo sovrumano, tenne duro ed ebbe la soddisfazione di sentire il francese singultare nel tentativo di riprendere fiato, prima che una gomitata nelle costole già danneggiate non lo costringesse a mollare la presa, piegandosi in due con un grido soffocato.

Conrad scagliò un potente gancio destro allo zigomo del francese che, stordito dall’asfissia, non riuscì a schivarlo e cadde a terra.
Pur boccheggiando, con uno scatto repentino, si gettò addosso all’inglese, che avvertì una fitta bruciante al fianco, ma intrappolò il suo braccio sano in una presa ferrea, in cui riuscì a fargli lasciare la lama dello stiletto.
Lo tirò in piedi di peso, sbilanciandolo, e di nuovo lo colpì al viso.
Gervais sputò del sangue, ma questa volta non cadde.
Si lanciò, invece, di nuovo in un attacco che somigliava più alla carica di un toro inferocito che all’azione di un uomo razionale.
Conrad sfruttò il suo impeto afferrandolo per le braccia e tirandolo di lato. Il francese perse l’equilibrio e cadde, andando a sbattere una tempia contro la base in pietra del camino.

Ansimante, con i capelli che gli cadevano sul viso e il sudore che gli colava dalla fronte, Conrad si chinò su di lui, per controllare che respirasse.
Accertatosi che fosse, almeno per il momento, ancora vivo, trasse da una tasca interna della giacca dei lunghi lacci di cuoio, con cui legò mani e piedi del francese. Gli congiunse le due legature dietro la schiena, rendendolo inoffensivo.
Certo che non avrebbe potuto fare danni per un po’, l’inglese se lo lasciò alle spalle per accorrere al capezzale del suo giovane collega, che era piegato su sé stesso, le braccia avvolte attorno al magro torace bendato, e respirava a fatica.
“Va tutto bene, ragazzo, è tutto finito.” Lo rassicurò, ponendogli con delicatezza le mani sulle spalle “Ti aiuto a risistemarti, adesso. Piano. Piano”
Lo aiutò a sistemarsi con la schiena contro i cuscini, lasciando che si prendesse tutto il tempo che gli serviva per non sforzare le ferite. Quando fu comodo, raccolse le coperte, che erano cadute nella colluttazione, e gliele stese addosso, rimboccandogliele sul petto.
Riempì una tazza d’acqua e l’aiutò a sorbirla a piccoli sorsi.
Mentre il giovane riprendeva fiato, intinse la pezzuola nella bacinella, la strizzò, e iniziò a tergergli il sudore da viso e collo.
Conrad stava ripetendo a mezza voce una litania di rassicurazioni, senza capire se le stesse rivolgendo a Nathan o a sé stesso.

All’improvviso, la porta si spalancò con un boato che li fece sobbalzare.
Subito, Conrad strinse a sé il giovane ferito, con l’istinto di proteggerlo. Quello che vide alle sue spalle, tuttavia, lo lasciò senza parole.
All’entrata della cella c’era un monaco incappucciato, con il simbolo di chi ha fatto voto di silenzio.
Per alcuni istanti un silenzio tombale calò nella stanza.

Poi il monaco proruppe in una sfilza di orrende imprecazioni e bestemmie in catalano.

 




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