Debiti esatti

di Kerberos 1001
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PROLOGO – LA NOTTE DI GHIEH

Il silenzio nella foresta, quella sera, era assoluto: persino gli alberi sembravano timorosi e rifiutavano di far stormire le loro fronde alla tiepida bavetta che aveva preso a soffiare da poco dopo il crepuscolo.
La cappa greve delle stelle scintillava livida sulle cime, riflettendosi azzurra sullo specchio perenne della neve: i vecchi alzavano lo sguardo e sospiravano, scuotendo il capo preoccupati, quasi che avvertissero una minaccia incombente nelle ossa; nessuno si era anche solo affacciato sulla soglia, senza sapere perché: era molto meglio così, si dicevano in cuor loro, più sicuro …
Due ore dopo il tramonto, la bavetta si era rinforzata a vento teso, caldo – un evento di per sé eccezionale in una regione del mondo dove i venti freddi e umidi che spiravano dal mare lottavano aspramente con quelli gelidi e secchi che scendevano dai più alti ghiacciai lungo le valli montane – accompagnato da un suono grave, a malapena udibile, fastidioso: alcuni spergiurarono che assomigliava al respirare affannoso di una bestia gigantesca e sofferente e vennero irrisi dai pochi talmente insensibili o stupidi da non essersi ancora resi conto del fatto che qualcosa stava per accadere.

Molto in alto sopra le loro teste, al di là del cielo in prossimità delle stelle, la grande nave combatteva strenuamente per salvaguardare il tesoro più prezioso che possedesse, l’incolumità dei passeggeri che le erano stati affidati.
Cosciente, sapeva che non sarebbe stato semplice, che molto probabilmente avrebbe dovuto sacrificare parte di sé per assolvere la sua missione.
Non le importava.
Sfruttando il pianeta-obiettivo, accelerò a velocità di battaglia verso gli inseguitori, riducendo la distanza sino a far collidere gli scudi: c’era poco tempo, bisognava cogliere quel palpito durante il quale l’interferenza avrebbe permesso ai colpi di passare, per infliggere un colpo devastante, possibilmente definitivo.
Mancato!
Al passaggio successivo, allora, non avrebbe sbagliato di nuovo!

Vento caldo che soffiava sempre più impetuoso, strappando rami e foglie dagli alberi.
Tuoni e lampi di strani colori che si muovevano da est a ovest nel cielo sereno, quasi fossero uccelli, che d’altro canto erano ormai tutti spariti da moltissimo tempo, insieme agli altri animali; persino il selvatico che si udiva comunemente a caccia furtivo nei campi la sera sembrava non essere mai esistito. I vecchi scuotevano ancor più la testa, tremando di paura nella stanza comune delle loro capanne, incapaci di comprendere l’origine stessa del loro terrore. Si lambiccavano il cervello cercando un luogo in cui rifugiarsi, portandosi dietro tutti quanti, un luogo sicuro che desse ricetto alle loro ossa stanche e a quelle giovani e forti dei loro cari, e piangevano perché non riuscivano a trovarne alcuno. Una scena straziante, a dir poco.
Qualcosa accadrà, qualcosa … Presto, molto presto!
Incitavano gli altri con queste parole in mille varianti
E qualcosa stava veramente accadendo. Qualcosa che avrebbe cambiato il loro mondo alle radici.

Successo!
La nave aveva giocato d’astuzia, amputando la sezione maggiore del suo corpo per lasciarla andare alla deriva, cieca, lungo la rotta d’attacco del nemico. L’aveva costretto a rallentare per evitare l’ostacolo, a deviare bruscamente per riportarsi in posizione di tiro, senza sapere che così si stava esponendo, perché lei non era più là dove il nemico pensava, credeva che fosse: dalla sua nuova posizione ad angolo retto rispetto alla rotta precedente, i cannoni della nave aprirono il fuoco sul bersaglio inerme, mentre la sezione che aveva funto da ostacolo si immolava liberando tutta l’energia che ancora le rimaneva, urlando col fuoco la sua brama di vendetta. Investito da tergo dalla fiammata dell’esplosione, trapassato nel fianco reso improvvisamente vulnerabile, il nemico semplicemente scomparve, fatto a brandelli da un susseguirsi sempre più rapido di esplosioni che ne gonfiarono il corpo fino a smembrarlo.
E disfatta: ormai priva di forze, ciò che restava di lei ricadde stancamente verso terra, lacerando l’atmosfera strato dopo strato, sempre più denso, sempre più caldo.
Doveva …
Poteva …
Sì!

Immensi boati scossero l’aria, seguiti da tremende folate di vento che svelsero gli alberi dal terreno. Il cielo notturno era percorso dalle scie delle stelle che cadevano al suolo, alcune bruciando in alto sopra i tetti, altre sbriciolandosi a seguito di tremende esplosioni. Molti morirono di crepacuore nascosti là dove avevano cercato rifugio, quella notte, altri videro il proprio podere, la propria casa devastati dal vento ardente, dai frammenti che riuscirono a toccare il suolo, conficcandosi in profondità nel terreno. Poi giunse la cometa: immensa, avvolta dalle fiamme, attraversò il cielo in direzione della grande foresta; nella sua scia, il vento urlava avvolgendosi in mulinelli ardenti che carbonizzavano qualunque oggetto investissero.
Bassa, sempre più bassa, ad un certo punto sparì alla vista, nascosta dal fumo e dal riverbero degli incendi che aveva appiccato. Calò il silenzio, un silenzio relativo fatto di schiocchi, lamenti e del crepitio delle fiamme.
In rapida successione, tre potentissimi rombi sovrastarono ogni altro suono, seguiti dall’impatto: non fu un vero e proprio rumore, no, era troppo potente anche solo per essere concepito; propagandosi, piegò i rari alberi millenari che avevano resistito a tutto quanto il resto, mentre la terra tremava e si scuoteva come una bestia ferita. Ore più tardi, sotto una coltre di nubi solo in parte temporalesche, i sopravvissuti uscirono dalle tane, valutarono i danni e si rimboccarono le maniche: dovevano seppellire i morti, bestie e uomini, ricostruire quanto era andato distrutto, recuperare quanto era possibile.
Per qualche tempo, avrebbero avuto molto da fare.

Là dov’era caduta, la nave si ergeva inclinata al limite dell’equilibrio, conficcata nel terreno per un terzo. Era riuscita nel suo intento ed ora, soddisfatta, poteva finalmente morire serena, dopo aver visto il suo signore uscire indenne all’aperto e scalare orgogliosamente il pendio del cratere, per osservare la sua nuova casa.
Lentamente, uno alla volta, i suoi sistemi complessi si lasciarono andare, mentre l’energia che l’aveva pervasa sino a quel momento si ritraeva, dissipandosi in rivoli sempre più esigui …
Dolce sonno, grande nave, possano i tuoi sogni essere incruenti, d’ora in poi!

CAPITOLO UNO – LA SENTINELLA INSONNE

Quanto tempo? Quanti anni erano trascorsi da allora? Duecento? Trecento? Era poi così importante saperlo?
Sta di fatto che da quando l’aveva lasciato andare, indirizzandolo verso meridione, il piccoletto aveva percorso molta strada e non solo in senso fisico.
Arrivare a fondare un regno! Semplicemente grandioso!
E tutto per la smania che ardeva nel suo petto, di vendicarsi di lei, dell’offesa mortale che era convinto gli avesse arrecato …
L’aveva trovato bene, quand’era scesa a fargli visita sotto le mentite spoglie di un rinomato assassino; un po’ invecchiato e sdrucito qua e là, forse, ma decisamente in salute e acuto come un tempo. Non si rendeva conto, il Vecchio, che la sua fortuna era dipesa interamente da lei, la sua longevità un dono che aveva voluto elargirgli in cambio del suo occhio, per premiarlo dell’abilità con la quale aveva vinto le sue difese e per punirlo della sfrontatezza, dell’impudenza che aveva dimostrato nel tentativo.
Gli altri non contavano, non erano assolutamente all’altezza e per questo motivo erano periti uno dopo l’altro nelle sue viscere, annegati nel loro stesso sangue, digeriti dalle entità e creature libere di vagare per corridoi e cortili, anche se la stragrande maggioranza di loro aveva sempre preferito i tunnel che perforavano le viscere della montagna. Poteva comprenderli: visitare gli Abissi ti lasciava addosso una strana sensazione di infinito, l’illusione, attraversando il buio impenetrabile, di poter giungere in un altro luogo, molto, molto lontano da lì … Da quando aveva scoperto la ragion d’essere del golem – grazie al suo piccolo intruso – era scesa là sotto ad intervalli irregolari, non sapeva bene nemmeno lei cercando cosa, forse solamente il piacere di potersi muovere liberamente, assaporare la realtà che la circondava in modo differente: passeggiare in senso fisico, osservare tutto attraverso veri occhi, toccare veri oggetti, stimolavano sensazioni che la percorrevano da cima a fondo come sangue, scaldando quella parte di lei che viveva e si comportava (ambiva a comportarsi) come un essere in carne ed ossa. Le bastava prenderne possesso e concentrare su di esso una frazione della sua coscienza; allora lo scorpione prendeva vita e si staccava dal portale. Si sgranchiva le zampe girovagando senza meta per la piazza d’armi, poi iniziava ad esplorare nel dettaglio gli spalti, come le aveva insegnato milord, in un’epoca mai dimenticata; alle volte, si spingeva sino in cima alle montagne e trascorreva ore ad assaporare il vento, ad osservare le nubi che trasportava con sé nel suo viaggio casuale intorno al mondo. In altre occasioni, seguiva il torrente verso l’Altopiano, valutando l’effetto sortito dalle difese che aveva approntato lungo il sentiero che conduceva alla soglia, migliorando e modificando piccoli particolari qua e là, per necessità ma anche per capriccio. Raramente scendeva a valle per cogliere l’umore del momento, un segugio che fiuta il vento cercando il particolare aroma che ha disturbato il suo lavoro.
Non era necessario, lo sapeva bene, avrebbe di sicuro ottenuto di più semplicemente aprendo del tutto i propri sensi, solo non riusciva a negarsi il piacere di interagire con gli abitanti di quel mondo in cui era stata precipitata dal caso.
A piccole dosi, non le avrebbe che giovato.
Oltretutto, doveva ad una sua recente visita quella nuova consapevolezza: sentiva che una nuova crisi era prossima a precipitare, gli indizi e le informazioni raccolte puntavano tutte in quella direzione.
Niente di catastrofico o lontanamente paragonabile all’Anarchia, ma imminente, questo sì, avvertiva quell’agitazione che aveva imparato a collegare a situazioni del genere: quando Alliopolis si era volatilizzata da un momento all’altro portando con sé tutte quelle vite, una parte della sua essenza era stata percorsa da un fremito incontrollabile, un gemito straziante, strappato a forza dal profondo del suo essere, quasi involontario, aveva costretto l’intera struttura del suo corpo di cristallo a vibrare dolorosamente per ore e ore senza motivo apparente, un inno funebre composto di pietra, suonato dalla pietra, inciso nella pietra. Per sempre.
Da quel momento, iniziò ad avvertire una presenza costante, impalpabile, che osservava passivamente tutto il tempo, senza mai interferire; non capiva di cosa si trattasse, sapeva, però, avvertiva con tutta sé stessa, che quella presenza estranea albergava in lei, nella sua parte più intima: dalle immense conoscenze che aveva maturato, scavò il concetto di fantasma, che si avvicinava alquanto ma non descriveva appieno la situazione, quello che provava. Una presenza assopita da lungo tempo era tornata vigile, influenzando in maniera sottile e quanto mai vaga il suo modo di reagire: era stata lei ad attirare gli avventurieri, come era stata sicuramente lei a permettere che trovassero uno degli ingressi inferiori.
Nonostante i millenni di attenta pianificazione, R’Hwethr non sapeva realmente come trattare gli eventuali visitatori: per lei si era sempre e soltanto trattato di impedire l’ingresso a chiunque, all’atto pratico però le mancava l’esperienza necessaria.
A questo aveva supplito l’altra parte, dapprima frapponendo ostacoli passivi al loro avanzare e in seguito … Ancora rabbrividiva ricordando il momento esatto in cui aveva scoperto quali e quanti fossero i veri abitanti della fortezza, i servitori che Lord Uthorion aveva voluto rinchiudere tra le sue mura, evitando che si diffondessero liberi nel nuovo mondo.
Non tutto, certo, ma parti importanti di quell’esperienza – l’ebbrezza della caccia, il trionfo sulla preda, il gusto del suo sangue – erano rimaste ad aleggiare nel suo animo, contribuendo a cambiarla, a renderla più forte, capace e decisa a mantenere la promessa che aveva fatto quando il suo signore era scomparso. Era grata a quanti osavano avventurarsi lungo il sentiero meridionale, perché costituivano un ottimo materiale sul quale testare le sue capacità e la miriade di nuove idee che maturava, tutte tese a proteggere al meglio sé stessa e ciò che nascondeva.
Paradossalmente, aveva scoperto che avere un interesse esterno – il piccoletto, con il suo chiodo fisso, ad esempio – le era d’aiuto, in quanto stimolava la sua curiosità, la spingeva ad uscire dal suo guscio, un esperimento controllato il cui obiettivo era quello di sviluppare tattiche e strategie in vista di sfide ben più grandi: la distruzione della capitale non era stata frutto del caso, lo sapeva benissimo e forse quel fremito altro non era stato che una reazione alla perdita di persone che, in un modo non facilmente concepibile neppure per lei, facevano parte della sua famiglia.
Dolore? Forse.
Rabbia e odio?
Di sicuro, verso i responsabili di tutta quella incresciosa situazione.
Ragionando col senno di poi, era evidente che alcuni degli inseguitori erano sopravvissuti al loro arrivo in quel mondo; quanti, non era dato sapere. Che fossero stati loro a spingere quei miserabili verso di lei, la prima volta? Che stessero tuttora manovrando dietro le quinte, spingendo il soggetto del suo esperimento e lei di conseguenza a scoprire le carte?
Il pensiero non era dei più piacevoli.
Come scoprire se quel suo sospetto era fondato?
Avrebbe dovuto servirsi nuovamente del golem: scendere a valle ed avvicinarsi percorrendo una via che non destasse sospetti o domande indiscrete, ma quale? Una carovana, ovvio! Non tanto una in transito dal Sobborgo o dal Salto, piuttosto una che facesse tappa nella capitale, meglio se come meta finale del suo percorso. Chissà se era cambiata, dalla sua ultima visita! Ricordava una terrazza coperta di fiori di un delicato color malva, le foglie verde smeraldo, e di come si era stupita nell’udire il chioccolio di una fontana, lassù. Il fatto che la gente evitasse il contatto diretto con il suo alter ego – perfettamente normale, vista la fama di cui godeva – le aveva consentito di passeggiare per vie e vicoli a piacimento, una volta terminato l’incontro con il Vecchio, senza nessuno che la importunasse: aveva provato meraviglia, gioia ed una punta acuta di rammarico per essere stata forzata alla solitudine, lassù tra le cime. D’altronde, aveva un compito, una missione cui adempiere, anche se alle volte avrebbe gradito qualcuno con cui parlare, cui esprimere le proprie idee e persino rimostranze.
Magari … magari avrebbe potuto convincere qualcuno a seguirla, questa volta, almeno per un breve periodo, una personalità, che potesse fornirle informazioni rilevanti suo malgrado.
Sulla città e su … altro.
Già. Altro.
Comunque, era tempo di iniziare i preparativi, assicurarsi che la guarnigione fosse pienamente efficiente, le difese senza falla alcuna, prima di potersi assentare, anche se per breve tempo.
Una gita?
Sorrise, un bagliore tra gli specchi che formavano il suo cuore.
Sì, anche questo.
Anche questo … 

CAPITOLO DUE – CHE IL RIPOSO VI SIA GRADITO!

Pur essendo un importante centro commerciale, la città non aveva un nome vero e proprio, non l’aveva mai avuto: per i più, abitanti compresi, era la Casa dello Scorpione, capitale di quello che era ufficiosamente conosciuto come Regno dei Ladri; certo, di primo acchito tale nome poteva apparire minaccioso, spregiativo, addirittura offensivo, ma per coloro che se ne fregiavano era unicamente motivo di vanto, qualcosa di cui andare fieri, la storia sottesa essendo una di quelle che avrebbero fatto la fortuna di un bardo, se fosse stato libero di cantarla nei suoi versi. Arroccata sui versanti di un’aspra collina, esponeva al sole i suoi solidi edifici; per la maggior parte si trattava di abitazioni opulente e di bell’aspetto, riccamente decorate e circondate da giardini rigogliosi, nonostante il clima vi fosse decisamente rigido per la quasi totalità dell’anno, cosa che non stupiva affatto, circondata com’era da picchi altissimi perennemente incappucciati dalla neve e visibili da qualsiasi punto appena più alto della strada: anche se ben altri erano i motivi che avevano spinto i suoi fondatori a sceglierlo, il luogo in cui sorgeva, affacciato com’era direttamente sulle Braccia di Mhyr da un versante e sulle Zanne orientali dall’altro, se non altro godeva di un panorama invidiabile, molto apprezzato dai viaggiatori occasionali che transitavano lungo la Via.
Non che fosse quella, la sua peculiarità: si poteva accedere all’abitato attraversando l’unico varco aprentesi nella cerchia che cingeva per intero la base della collina, la Porta della Coda ed era possibile raggiungere la porta solo imboccando un viottolo lasciando la Via sulla destra, diretti a meridione, stretto tra alti bastioni che, fondendosi con le mura, si allargavano nel rivellino della Porta, un piccolo, letale capolavoro oggetto di approfondito studio da parte di più di un architetto militare giunto sul posto appositamente a tale scopo; in molti avevano storto il naso al vedere loro e i loro sottoposti prendere misure e tracciare schizzi accurati, ma il Vecchio aveva lasciato chiaramente intendere che a lui stava bene così e, finché fosse vissuto, la sua parola era legge, come ben sapevano tutti quanti in città, dalla cerchia più alta del governo al più infimo dei facchini. Quello che non sapevano, invece, era che la cinta muraria, l’intero sistema difensivo della città, pur nella sua imponenza, nelle intenzioni del suo ideatore aveva come unico scopo quello di fungere da deterrente, un luccicante specchietto sbandierato appositamente davanti agli occhi del nemico, per stornarne l’attenzione: i segreti, quelli veri, vitali, si trovavano da tutt’altra parte, defilati e ben nascosti alla vista e tutti coloro che avrebbero potuto svelarli erano entrati involontariamente a farne parte, svaniti nelle nebbie dell’oblio, da lunghi anni murati nelle opere che avevano contribuito a progettare e costruire; ma tant’è, da sempre viene considerato nobile e cavalleresco sacrificarsi per il bene altrui, motivo per cui il Vecchio li ricordava tutti con sincero rispetto.
All’interno della cinta esterna, la prima ad essere stata innalzata, sorgevano i quartieri commerciali, per la maggior parte costituiti da file di magazzini ordinatamente disposti lungo tre anelli concentrici di terra battuta, alternati alle abitazioni dei guardiani e degli inservienti impiegati presso le numerose compagnie che gestivano il traffico delle merci, mentre lo spiazzo antistante la Coda era sede di un ben fornito mercato, tanto che a qualsiasi ora del giorno e della notte vi si potevano trovare merci di ogni genere e specie, dalle derrate alimentari ai più esotici piaceri concepibili; da lì partiva una singola strada pavimentata, che serpeggiava sinuosa verso la cima per scendere allo stesso modo l’altro versante, sino a richiudersi su sé stessa; questa lunga arteria costituiva l’asse su cui gravitavano gli altri numerosi quartieri in cui l’intero abitato risultava suddiviso: nettamente delimitati dalle intersezioni tra le molteplici cerchie difensive interne e le massicce cortine trasversali che le collegavano ad intervalli irregolari, questi si sviluppavano in maniera abbastanza caotica su di una serie di terrazzamenti che pazienti lavori di sterro e consolidamento avevano ricavato dalla roccia brulla dell’Altopiano, collegati tra loro e con la strada da vicoli e scalinate che si intersecavano ad ogni angolo possibile. La strada in sé era ampia a sufficienza da consentire l’incrociarsi di due carri di media grandezza, sebbene fosse decisamente raro vederne circolare entro la cinta: il loro ingresso era severamente regolamentato dalle autorità preposte e ben difficilmente avrebbero potuto inoltrarsi nel dedalo di vicoli che si apriva appena oltre le facciate, ma questo non costituiva affatto un problema, poiché tutti, alla bisogna, avevano presto imparato ad arrangiarsi benissimo e movimentavano merci e beni di consumo con carriole e carretti a mano. A garantire il passaggio lungo la strada, una quantità di porte, ciascuna con il suo complemento di guardiani e la sua brava saracinesca o battente pronto ad essere serrato in caso di pericolo.
Naturalmente le porte non fungevano unicamente da trait d’union tra i vari quartieri: gli abitanti se ne servivano correntemente come punti di riferimento, orgogliosi di abitare tra la Prima e la Seconda Porta, oppure per dare appuntamenti ai clienti o ai forestieri: “Ci vediamo all’ora nona davanti alla Porta dell’Occhio!” e “All’alba sotto la Porta del Pozzo, mi raccomando!” erano modi di dire comuni nel lessico locale, avreste potuto cogliere queste ed altre frasi dello stesso tenore frammiste al vociare della gente per la strada a tutte le ore della giornata.

Non che agli uomini della Libera Compagnia Purpurea, giunti di primo mattino dalle lontane terre situate oltre i Bastioni del Nulla, servissero indicazioni di sorta: affaticati com’erano, desideravano unicamente raggiungere il loro caravanserraglio situato tra la Seconda e la Terza porta per riposare e spassarsela allegramente per almeno una settimana, prima di intraprendere il lungo e pericoloso viaggio di ritorno in patria; questa volta, infatti, non si trattava di una tappa intermedia verso Angren’Hal e il Ponte, le loro merci erano destinate al mercato locale e, una volta venduto o scambiato tutto quanto, avrebbero riportato a casa i muli carichi di lana grezza, manufatti, derrate alimentari esotiche – per quanto esotico possa essere un pollo! – tessuti e minerali vari. Senza dimenticare i passeggeri paganti: all’andata ne avevano raccolti una buona quantità ad ogni tappa e presumibilmente ne avrebbero portati indietro altrettanti al ritorno. Erano trascorsi perlomeno settant’anni da quando la Compagnia aveva chiesto ed ottenuto ufficialmente una rappresentanza commerciale in città, con quartieri ampi a sufficienza da accogliere carovane di discrete dimensioni, la qual cosa costituiva per loro motivo di vanto e giustamente, in quanto si trattava, a detta di tutti, di una delle prime concessioni rilasciate nella storia del Regno; questo non significava, per altro, che avessero mano libera o che godessero di particolari privilegi, anzi: bastava un niente, davvero, per incorrere nelle ire del Vecchio e venire retrocessi – leggi tassati a sangue – al rango di semplici venditori di strada; questo avrebbe a sua volta ridotto ulteriormente gli introiti, innescando una spirale discendente che li avrebbe costretti, nel giro di pochi anni, a dover abbandonare la piazza, motivo per cui stavano tutti ben attenti a rispettare le poche leggi vigenti e ad ossequiare con il dovuto rispetto le autorità cittadine. Ecco perché il vedere in attesa davanti alla porta principale un alto funzionario dell’Ufficio Doganale accompagnato da un drappello di guardie armate ebbe l’effetto immediato di raffreddare gli animi di tutti: in quale guaio si erano cacciati, del tutto a loro insaputa, quella volta?

La sera calava in fretta, tra le montagne, lasciando spazio a decine e decine di lanterne. Tirava vento e tutti preferivano rintanarsi in casa accanto ad un bel fuoco, nonostante vi fosse ancora sentore d’estate, nell’aria. Nel caravanserraglio, l’atmosfera non era serena come avrebbe potuto essere: alloggiati e governati gli animali da soma, soddisfatte le più impellenti necessità corporali, i membri della carovana si erano riuniti nella sala interna, replica quasi fedele di una taverna del loro paese natio; quasi perché avendo molto viaggiato, con gli anni i mercanti associati avevano ritenuto opportuno contaminare la tradizione con i pregi dei vari luoghi che avevano visitato per affari, rendendolo un luogo quanto mai confortevole e piacevole: lì si era liberi di sbronzarsi, litigare, sfidare i compagni a giocare d’azzardo e prenderli a pugni – sempre seguendo le regole – ma, soprattutto, era possibile discutere e persino sbraitare, sviscerando la situazione contingente di fronte ad un boccale sempre pieno di buon liquore e la Libera Compagnia Purpurea stava giusto commentando lo stato delle cose appreso dai suoi agenti in loco.
«Dannazione! Se le cose stanno veramente come ha detto lui, con questo viaggio riusciremo a stento a rientrare delle spese!»
«Guerra?! Ma guerra contro chi? E perché?»
«Ho provato a chiedere in giro, oggi, – con discrezione, ovvio! – ma nessuno ne sa nulla.»
«Oppure non si sbottonano, il che è ben più probabile, secondo me: il Vecchio ha occhi e orecchie dappertutto, lo sanno tutti …»
«D’accordo, ma per quale motivo dovrebbe dichiarare guerra a qualcuno?! Deve avere più di duecento anni, ormai, nella fossa ci è dentro sino alle ginocchia!»
«Forse è proprio questo, il motivo.»
«Che vuoi dire? Aspetta! Non starai mica per tirare in ballo la storia della vendetta per l’ennesima volta, per caso?!»
«Ti sembra davvero così strano? Questa città – l’intero Regno, grandi dei! – è stato fondato con l’unico scopo di permettergli di vendicarsi!»
«Ma dai! Sono solo panzane: quello si vanta di essere un ladro, capisci?, ha visto un’occasione e l’ha colta!
Il resto sono solamente fandonie, la mitologia di fondo necessaria a cementare e rendere presentabile un’accozzaglia di delinquenti!»
«Se ne sei davvero convinto … Fatto sta che quel piccoletto ha dimostrato di possedere una tempra d’acciaio e personalmente non vorrei mai averlo come nemico, non so se mi spiego.»
«Nemmeno io, ovvio!» mormorato, questo, a malapena udibile dai vicini di tavolo; poi, in tono normale: «Fatto sta, amici e vicini, che chiudere i mercati comporta un grosso danno per noi, perché non potremo vendere al prezzo che ci eravamo prefissati! E tutto perché il Vecchio avrebbe avuto uno scatto di demenza senile?!
No, dico, vi sembra giusto, questo?»
«Se continui a parlarne a quel modo, potresti trovarti quanto prima a discuterne con lui a quattrocchi, bada!» «Tre!»
«Cosa? Di che diamine vai cianciando, adesso?»
«Tre occhi: a lui ne manca uno, ricorda!»
Grasse risate alcooliche scoppiarono fragorose nella sala: «Anche questo è vero, che tu sia dannato!» «Comunque sia, ne sapremo di più domani: ora, direi che conviene a tutti infilarci sotto coperta e goderci una meritata dormita!»
«Tu goditi pure solo quella: per quanto mi riguarda, ho intenzione di godere anche altro, stanotte! Non so se mi spiego!»
«Bah! Ti scoperesti il culo di un mulo, se non ti prendesse a calci! Sei davvero una bestia: il foro ingrassato di un asse è già troppo fine per uno come te!»
«Mmh! No, anche se apprezzassi gli uomini, tu saresti comunque troppo brutto!»
«Ma va’ all’inferno!»
Chiacchiere da taverna, certo, discorsi di gente abituata a resistere alle intemperie, a rintuzzare le scorrerie dei banditi, a trattare con i ladroni spalleggiati dall’autorità della legge che si facevano chiamare doganieri e funzionari: nessuno badava troppo alla grandezza di ciò che sparava, eccitato dal vino o dalla birra, ritenendo a ragione di avere poco da temere dal punto di vista puramente fisico. In effetti, a chi aveva fatto del viaggio un lavoro e una ragione di vita poco importava delle continue beghe e delle scaramucce di confine che costituivano una costante nella regione, le conseguenze delle quali la lunga esperienza aveva loro insegnato che potevano essere facilmente evitate allungando un poco la strada e ricaricando i costi sul prodotto trasportato; qualora poi la situazione fosse andata inasprendosi sino a sfociare in guerra aperta, le compagnie commerciali godevano comunque di una certa immunità, potendo usufruire dei propri quartieri nelle principali città situate lungo il cammino, nei quali sostare a tempo indeterminato prima di deviare il percorso verso lidi meno pericolosi od eventualmente decidere di tornare indietro. Il profitto sarebbe calato vistosamente, ovvio, ma poiché il commercio aborriva i problemi solitamente connessi a situazioni del genere, per ribadire meglio il concetto, inculcandolo a forza anche nelle menti dei reggenti più guerrafondai, la spedizione successiva avrebbe accuratamente evitato la zona del conflitto e così sarebbe stato per tutte o quasi le principali carovane, provocando un danno difficile da ammortizzare: regni erano caduti per molto meno, in passato …

Questa era la prassi comune, ma era largamente risaputo che il Vecchio non rientrava negli schemi: espandendo la propria influenza senza farsi troppo notare nella vasta foresta che copriva i versanti meridionali delle Zanne, aveva posto le turbolente entità politiche della regione davanti al fatto compiuto, ferendole nell’amor proprio e, dal loro punto di vista, ledendone i vitali interessi; diventava perciò assolutamente necessario, un vero e proprio punto d’onore, prenderne possesso in nome del Consiglio, del duca o del principe di turno, impartendo al contempo una sonora lezione al plebeo che aveva osato minacciare loro e il loro preziosissimo status quo.
Che mai nessuno prima, nel corso della loro intera storia, si fosse minimamente interessato a quell’ammasso di legname, erbacce e funghi era ovviamente un particolare del tutto ininfluente.
L’essere poi gli abitanti del nuovo stato per la stragrande maggioranza criminali dichiarati e feccia della peggior risma non faceva altro che aggravare l’offesa, esacerbando gli animi dei benpensanti, spingendoli indignati a subissarne la cancelleria con una pletora di dichiarazioni di guerra che erano fioccate come neve in una tormenta, per anni e anni.
Dichiarazioni che trovavano prontamente un miglior uso nel momento stesso in cui il prezioso vellum su cui venivano stilate andava a sigillare svariati fastidiosi spifferi nei serramenti di case e magazzini …  
Quello che i vari potentati e condottieri non avevano considerato – quello che non sarebbero mai nemmeno riusciti a concepire, nella loro ottica ristretta – era il fatto che anche quel genere di persone potesse sviluppare un senso di appartenenza: contorto, se vogliamo, misto all’orgoglio professionale insito nelle proprie origini, ma pur sempre intenso al punto da voler rischiare tutto ciò che possedevano, pur di non lasciare ad altri la soddisfazione di averli sconfitti.
Erano i primi ad ammettere che da quando avevano risposto alla chiamata del loro attuale capo, accettando di lavorare per lui, qualcosa era cambiato: non si sentivano più lupi solitari legati da fragili patti dettati dalla necessità contingente, stretti con la consapevolezza che sarebbero stati egoisticamente ed unilateralmente sciolti al momento opportuno, bensì parte di un’entità più grande che avevano contribuito a creare con le loro stesse mani, che avevano plasmato con le loro innate capacità. Era una sensazione contagiosa, propagatasi ben presto anche agli abitanti comuni giunti in seguito: rendeva più facile sopportare le asprezze della vita in mezzo ad una natura che rimaneva comunque largamente non domata, garantendo che tutto quello che ne traevano fosse loro e loro soltanto.
Qualcosa che non avrebbero voluto perdere per nulla al mondo.
Qualcosa che avrebbero difeso con le unghie e con i denti sino all’ultimo respiro.
Per questo motivo e non altro diverse armate sicure di sé e della propria invincibilità, inviate a conquistare facendo seguito alle suddette dichiarazioni, vennero fagocitate a più riprese dai boschi, senza lasciare traccia alcuna e, peggio, senza intaccare per nulla l’ascendente sempre crescente che il Vecchio esercitava sul suo regno che non era un regno. Trascorrendo i decenni, le nuove generazioni dovettero venire a patti con una realtà che poteva essere sintetizzata semplicemente con il fatto che il Regno dei Ladri là era e là sarebbe rimasto, almeno sino a quando i suoi abitanti avessero fatto altrettanto; non potendo convincerli ad andarsene o perlomeno a tradire con adulazione o corruzione, considerata la loro tenacia e l’assurdo attaccamento che dimostravano alle proprie dimore e messa da parte la coercizione, perché nulla avevano da perdere se non qualche misero ettaro di bosco che comunque difendevano a spada tratta, l’unica opzione rimanente era quella di sterminarli dal primo all’ultimo, nel corso di lunghe campagne militari, ma l’idea, pur solleticando più di una mente politica operante in alto loco, ben lontano dal campo di battaglia, risultava comunque inapplicabile, considerate le difficoltà logistiche che presentava e alla luce dei numerosi fallimentari precedenti, oltre che controproducente dal punto di vista dell’immagine pubblica. D’altra parte, nulla garantiva che ciò sarebbe servito allo scopo, poiché il suo signore sembrava possedere una tempra decisamente al di sopra della media: anche se fosse stato sconfitto sul campo, sarebbe stato capacissimo di risollevarsi in tempi spaventosamente brevi, nozione che tutti davano per scontata, motivo per cui il ciclo si sarebbe ripetuto, danneggiando tutti quanti imparzialmente. A questo si aggiungeva l’estrema facilità con la quale, dalla posizione di vantaggio in cui si trovava, il Vecchio avrebbe potuto allargare il conflitto. In effetti, gli era sufficiente minacciare di voler imporre il blocco alla carovaniera per il nord, che era anche ciò che preoccupava maggiormente gli uomini riuniti nella sala: il rischio di vedersi bloccare l’accesso alla principale rotta commerciale del continente solo perché uno stolto di comandante lo riteneva un vantaggio strategico era sufficiente a far tremare i polsi a chiunque, la necessità di evitare le conseguenze di una tale catastrofe economica gli avrebbe procurato dei validi alleati da lì sino ai Bastioni del Nulla.
Oltretutto, non si trattava unicamente del Vecchio e dei suoi nemici prossimi, perché imporre un simile blocco avrebbe attirato forze provenienti da molto lontano: un intero mondo viveva dei proventi di quell’asse e alcune delle persone che da essi dipendevano erano, per usare un eufemismo, di un tipo decisamente spiacevole e pochissimo cordiali.
Stando così le cose, volenti o nolenti i potentati che avrebbero gradito mettere le mani sul territorio e sulle sue risorse erano costretti a mantenere una guardinga vigilanza gli uni sugli altri, per assicurarsi che nessuno prendesse l’iniziativa in tal senso.

Dato quindi il contesto generale, il fatto che il Vecchio avesse reso noto che intendeva dichiarare guerra a qualcuno, mise in subbuglio più di una corte: chi, come, quando, ma soprattutto perché? Ottime domande che necessitavano una risposta in tempi brevi, non fosse altro che per consentire agli eserciti di prepararsi e marciare verso il confine, in tempo per parare il colpo. Purtroppo per i vari spioni professionisti e non, risultò praticamente impossibile scucire le bocche di chicchessia: persino i più propensi ad aprirsi in merito si limitavano a ringraziare, intascata la lauta tangente a loro destinata, tornando subito dopo ad assolvere diligentemente i propri compiti, certi com’erano di essere osservati da altri occhi, ben più pericolosi.
Fatto sta che nel paio di mesi seguenti la notizia, sino al morire dell’estate, molta gente del circondario sparì nel giro di una notte: per lo più si trattava di stranieri residenti in città per affari, artigiani di passaggio, ma anche qualche personaggio di poco rilievo del posto, noto per i suoi tentativi di raggiungere una maggiore notorietà.
Si trattava veramente di un azzardo, quindi?
Forse. Forse no.
Era risaputo che il Vecchio, ormai pluricentenario, non aveva mai mosso un dito senza prima avere la certezza di dove sarebbe andato a posarlo, per cui non rimaneva altro che aspettare e sperare di vivere abbastanza da conoscere l’esito delle sue decisioni.
Nel frattempo, meglio riposare, divertirsi e riempirsi le tasche, più o meno onestamente.
Il tutto finché fosse stato possibile, ovviamente.

CAPITOLO TRE – I CONQUISTATORI

Innalzatesi a seguito della collisione tra S’Aharlis e la più grande massa di Thereia, distese lungo un arco che andava da costa a costa con larghi promontori fin dentro il mare, le Braccia di Mhyr non erano comuni montagne: altissime e dirupate, le diverse catene che le costituivano dividevano di netto la nuova terra che si era venuta a creare in due parti diversissime tra loro e di fatto costituivano un vero e proprio bastione nel senso filosofico del termine, oltre che in quello propriamente fisico.
Per intere ere, infatti, la porzione settentrionale del continente era rimasta appannaggio unicamente di piante ed animali – o almeno così si favoleggiava basandosi su quanto era avvenuto a meridione, non potendo di fatto l’essere umano andare a verificare di persona. A lungo andare, con il progredire delle tecniche di navigazione, ad alcuni venne fatto di pensare che sarebbe stato bello scoprire come stessero effettivamente le cose, magari provvedendo a mappare le coste che via via si sarebbero incontrate lungo la rotta.
Sarebbe stato bello, certo; nobile e glorioso, anche.
Soprattutto, sarebbe stato utile e molto, molto remunerativo per coloro che fossero riusciti ad aprire nuove rotte commerciali. Purtroppo per loro, sin da subito risultò un’impresa non così semplice a portarsi a termine come poteva sembrare, no davvero: doppiati gli speroni delle Braccia che salivano direttamente dal fondale, i primi, coraggiosi esploratori decisi a sfidare le incognite dell’oceano settentrionale scoprirono loro malgrado le forti correnti di ricircolo che lambivano le coste di S’Aharlis, grandi masse d’acqua in continuo movimento che – le rare volte in cui non formavano vasti e pericolosi gorghi scontrandosi tra loro – alternativamente spingevano le navi a schiantarsi contro le scogliere disseminate come trappole appena sotto il pelo dell’acqua oppure, disalberate, a perdersi verso il largo, tanto che intere spedizioni colarono a picco oppure perirono di stenti nei cimiteri del mare al centro delle grandi celle che le correnti stesse delimitavano.
Né l’uno né l’altro di questi fati, però, scoraggiava minimamente gli avventurieri, che per decenni continuarono ad armare equipaggi e a salpare in cerca di fortuna, spingendosi sempre un passo più in là: pochi sopravvissuti, più abili e tenaci degli altri o semplicemente più fortunati, giunsero infine a scovare il primo dei rarissimi approdi incisi dai ghiacciai lungo l’estrema costa settentrionale; stremati, diedero fondo alle ancore nelle acque pescose e scalarono le pareti del tavolato calcareo che incombeva su di loro, coperto di fitte foreste e cosparso di doline e profondi cenotes, al fondo dei quali si udivano torrenti che scorrevano nel buio di grotte e tunnel naturali sullo zoccolo granitico del sub-continente, fino a sfociare in mare con ampie, poderose cascate.
Gli equipaggi, sfiniti, svernarono tra i boschi in insediamenti provvisori; durante il freddo, venne stabilito di lasciare indietro i più deboli tra loro e tutti coloro che non se la sentivano di proseguire, a tenere ed organizzare queste prime teste di ponte. Gli altri proseguirono verso sud allo schiudersi delle foglie, confidando nel fatto che vi avrebbero trovato terreno fertile da coltivare e temperature più miti: vennero accontentati, perché ampie valli e pianure rigate da fiumi e torrenti, picchiettate qua e là da boschi di latifoglie, li accolsero una volti giunti al ciglio dell’altopiano, con le stesse montagne che alla partenza avevano giurato di valicare in qualsiasi modo svettanti altissime in lontananza a meridione.
Il paradiso, tutto e solo per loro e i loro discendenti.
Dopo essersi saziati alla vista di ciò che li attendeva, passata la prima sensazione di euforia dovuta al pieno successo, ragionarono meglio su ciò che vedevano e presto si resero conto di essere naturalmente protetti da tutti i lati, di essere liberi di decidere della propria esistenza come di quella dei loro seguaci, padroni di nome e di fatto di un territorio enormemente più vasto di quanto si aspettassero: possibilità virtualmente infinite, ma anche difficoltà praticamente insormontabili; chi decise di tornare verso la costa, chi di fermarsi e stabilirsi nelle foreste alte, altri che tentarono la via del sud, delle valli e delle colline che le ondulavano, questi coraggiosi si sparsero sul territorio, fondarono insediamenti che ben presto prosperarono, formando col tempo comunità vitali che non disdegnavano di scontrarsi tra loro quando se ne presentava l’occasione, rispolverando rivalità vecchie ma non per questo dimenticate. Nelle terre tra le Braccia e il mare, guerre vennero combattute per supremazie effimere, o per conquistare quel fazzoletto di terra in più che rendesse felice il principotto di turno: il territorio era vasto, certo, ma non tanto da soddisfare le mire e le brame di tutti; oltretutto, l’antico istinto del clan, il sangue caldo che scorreva lungo il corso dei secoli e che aveva spinto i loro antenati a colonizzare quelle regioni, non si era affatto sopito ed essendo le forze in gioco grossomodo equivalenti, l’ago della bilancia non si spostava mai di molto, bastava la successiva spallata in senso contrario per riportare tutto com’era stato in precedenza, in un altalenare continuo.
Questo sino a quella fatidica notte in cui il cielo si frantumò in una miriade di stelle.
Le conseguenze immediate – campi devastati e riarsi, villaggi carbonizzati, intere famiglie scomparse in un attimo – furono ben presto affrontate e risolte e la vita tornò ad essere quella di sempre, anche se la gente iniziò inconsciamente ad evitare i luoghi in cui erano caduti frammenti di dimensioni rilevanti; altre, però, di ben più vasta portata, rimasero celate, come le acque che scorrevano verso il mare sotto l’altopiano: profonde, ramificarono a dismisura, intrecciandosi inestricabilmente con il tessuto umano di S’Aharlis.
Il risultato ultimo di questo lento e segreto lavorio?
L’elevazione al rango imperiale, per unanime acclamazione, di un rappresentante della famiglia che, sola, era riuscita a porre termine alle diatribe che per millenni avevano travagliato quelle terre.

Il nuovo sovrano dimostrò ben presto d’essere uomo d’azione e al contempo saggio a sufficienza da rendersi conto di come non fosse necessario o preferibile ricorrere alla forza delle armi in tutte le occasioni; anzi, alle volte, chi lo conosceva bene ne traeva l’impressione che ne avesse avuto abbastanza, di combattere, e che desiderasse unicamente vivere tranquillo con la sua famiglia. Non era uno stupido, tutt’altro: ben presto si rese conto dei problemi che attanagliavano il suo regno, problemi che necessitavano di una soluzione efficace e duratura; S’Aharlis, infatti, donava molto, ma non tutto: alcune risorse risultavano troppo difficili e costose da reperire, oppure semplicemente mancavano; l’unica soluzione essendo il commercio con il resto del continente, la ricerca di nuove rotte sicure verso meridione che non comportassero i rischi estremi di quelle poche tramandate dalla tradizione, saltuaria durante il periodo delle guerre tra clan, riprese slancio nei porti settentrionali. Impresa affatto facile poiché le condizioni che avevano favorito i loro antenati contribuivano ora a creare notevoli difficoltà agli abitanti: per imboccare quella che consentisse di raggiungere anche solo il mare aperto occorrevano navigatori esperti, che avessero trascorso anni a studiare il vento, le acque e le coste, uomini in grado di predire gli improvvisi cambiamenti di uno o l’altro dei molti fattori che potevano condurre un bastimento alla rovina. Una via di terra sarebbe stata di gran lunga preferibile, ovviamente, e in moltissimi tentarono le scoscese pendici delle Braccia, cercando itinerari che, una volta tracciati, potessero essere percorsi in relativa sicurezza dalle carovane, purtroppo con punto o poco successo: persino sulle più basse catene minori, le pareti a picco non presentavano appigli di sorta e anche se ne avessero avuti, solo un pazzo avrebbe tentato di scalare mille e più tese di granito gravato dalla soma di un mulo, mentre i rari sentieri che serpeggiavano ai loro piedi non si spingevano mai più in là delle prime alture pedemontane, quando non conducevano direttamente al ciglio inavvertito di qualche burrone.

Restringendosi col passare del tempo la rosa dei candidati papabili, divenne chiaro che, tra tutti quelli vagliati, l’unico passaggio che paresse in qualche modo praticabile fosse il fiordo di Angren’Hal, uno di quei palesi ripensamenti che a volte colgono la natura: un braccio di mare strettissimo – meno di un chilometro – aveva occupato un’antica frattura dopo essersi scavato a forza la via in uno strato di roccia più malleabile attorno ad uno sperone della catena principale. Centinaia di cadaveri erano andati a tappezzarne il fondo nel vano tentativo di vincere le fortissime correnti perenni, per secoli, uno stillicidio che era stato interrotto unicamente dalla constatazione della sua stessa inutilità.
Tuttavia, la chiave era di sicuro lì, e in nessun altro luogo, la soluzione andava solamente cercata …

Nonostante le saghe e le canzoni dei bardi ne celebrassero la gloria, nessuno ricorda chi fu infine a proporre l’idea, a nessuno venne fatto di chiedere chi fosse quell’uomo tanto folle, fatto sta che di chiunque si trattasse, costui riuscì a convincere il Sacro Imperatore della sua fattibilità e il nuovo sovrano, dimostrando una volta di più la propria grandezza e la saldezza della sua forza di volontà, si adoperò in prima persona per la realizzazione dell’inaudito progetto: sfidare l’impossibile gettando sull’abisso di Angren’Hal un ponte sospeso.
Poderose catene di ferro vennero forgiate dai più abili maestri dell’arte, fortificate dagli incantesimi inglobati nelle singole maglie da potentissimi maghi mano a mano che gli anelli venivano saldati gli uni agli altri; fissatone un capo al suolo facendolo attraversare da un pilastro di granito istoriato conficcato profondamente nel terreno, si rese necessario soggiogare un drago per poter tendere le prime due da un lato all’altro del baratro, dopodiché si procedette un passo alla volta, gettando letteralmente le singole lastre di ardesia sul vuoto, assicurandole con cavicchi d’acciaio dello spessore di un braccio; occorse un decennio per terminare l’opera ma, alla fine, carovane in lunghe file presero a transitare sopra le acque, pagando i salati dazi alle estremità ed al centro del ponte: la tanto agognata via di terra per S’Aharlis era stata finalmente aperta.
Ovviamente il ponte, benché cruciale come porta di accesso ai regni settentrionali, costituiva soltanto una parte della soluzione, perché, senza una strada che lo congiungesse al resto del mondo, sarebbe rimasto un’opera fine a sé stessa: Angren’Hal era profondamente incassato tra le Braccia vere e proprie e l’arco delle anticatene meridionali, le Zanne, meno elevato ma pur sempre imponente e scoraggiante; fortunatamente, non si rese necessario valicarlo direttamente: un ampio corridoio, modellato dai ghiacciai e cosparso di massi erratici ed altre curiose formazioni rocciose di ogni forma e dimensione, correva per svariate centinaia di chilometri da nord-ovest a sud-est; quello che divenne in seguito universalmente noto come Altopiano Mediano, in realtà dell’altopiano aveva ben poco, trattandosi di una serie di tavolati digradanti in maniera alquanto discontinua verso il fiordo, i resti di zolle particolarmente tenaci che avevano rifiutato di frantumarsi all’epoca della collisione tra le due masse continentali.
Data la sua altitudine, per la maggior parte era roccia brulla battuta dal vento, coperta qua e là da un sottilissimo strato di terriccio che permetteva la crescita di erba stentata, qualche cespuglio e conifere nane; i numerosi torrenti che fluivano dalle cime coperte di nevi perenni evitavano la morte per sete, ma ben poco altro poteva sperare di trovarvi il viaggiatore, a parte insetti, striminzite radici, qualche pesce e, se era davvero molto abile e fortunato, qualche coriaceo roditore da contendere ai rapaci. Praticamente disabitato per la maggior parte dell’anno, alla sua estremità orientale veniva visitato occasionalmente da sparuti gruppi di pastori seminomadi con le loro greggi nel corso della bella stagione. L’asprezza del clima e la scarsità di risorse, comunque, non scoraggiarono minimamente i primi esploratori: quando questi diffusero la notizia dell’avvenuto attraversamento, partendo dalle regioni meridionali di Thereia, ai confini con i Bastioni del Nulla, le carovaniere, lente all’inizio, brancolanti, allungarono il loro percorso verso nord come fiumi, dapprima in tanti piccoli rivoli tortuosi che confluirono gli uni negli altri ingrossandosi, a raggiungere le pendici della Prima Catena; era, questa, una fascia di colline e alture boscose intersecata da un dedalo di valli cieche che la facevano somigliare ad una pozza di fango essiccato: attraversatala con non poca fatica, da lì le piste riprendevano slancio e si arrampicavano sino all’Altopiano. Dei due grandi assi commerciali diretti verso il fiordo ufficialmente riconosciuti, la Via Orientale, proveniente dalla regione di Amarish, saliva lenta e sicura al passaggio in lunghi tornanti, imboccandolo proprio alla sua estremità, lasciandosi la quasi totalità delle Zanne ad occidente; la Via Antica, invece, a detta di tutti era la più lunga e pericolosa: da sud-ovest, bordeggiava dapprima il deserto centrale, correndo tra esso e la stretta fascia fertile a ridosso della costa per poi piegare decisamente verso oriente costeggiando l’insenatura della Baia Morta, sede di elezione dei pirati di mezzo continente. Là dove il mare andava ad infrangersi contro le pareti a picco delle Zanne occidentali, deviava ulteriormente a meridione per imboccare lo stretto passaggio che correva tra le pendici meridionali della Prima Catena e le ultime propaggini della foresta, al termine del quale si univa all’altra all’altezza di un cippo di granito rozzamente intagliato in un enorme blocco trascinato a valle da uno dei tanti ghiacciai, una quarantina di chilometri dall’imbocco orientale dell’Altopiano: da quel punto in avanti, la grande strada si snodava serpeggiando un chilometro dopo l’altro verso nord-ovest sino a raggiungere la Rampa, dove, per scendere all’imbocco del Ponte, si incuneava tra pareti strapiombanti talmente ravvicinate tra loro da consentire a stento il passaggio di un singolo carro. Quale che fosse la via seguita, le regioni che si andavano attraversando non erano di certo facili, non lo erano mai state.

I viaggiatori esperti lo sapevano e facevano letteralmente a gara per aggregarsi alle carovane meglio protette: di solito, nella bella stagione, occorreva un mese di cammino spedito ad un uomo in salute che viaggiasse leggero soltanto per attraversare l’Altopiano, segno che, anche nella migliore delle ipotesi, si trattava pur sempre di un viaggio lungo e faticoso, soggetto ad una quantità inenarrabile di mene doganali e burocratiche ad ogni passaggio di frontiera, per tacere dei predoni, che pullulavano lungo tutto il percorso come larve su una carogna; sta di fatto che, pur prendendo tutte le precauzioni possibili, occorrevano comunque coraggio, tempra ed una buona dose d’astuzia per raggiungere la meta dopo mesi di viaggio senza mutilazioni od essere costretti a vendere sé stessi per rimediare qualcosa da mettere nello stomaco perlomeno un giorno ogni due, ma i temerari che lo intraprendevano praticamente in ogni stagione dell’anno giuravano che valesse ogni chilometro percorso: a detta di tutti, infatti, il guadagno per chi giungeva alla fine lo avrebbe ripagato abbondantemente di ogni fatica, rendendolo ricco per tutta la vita … sempre che fosse riuscito a trovare un acquirente per le proprie merci o servizi, e anche così, restava pur sempre la questione del riuscire a farsi strada nelle regioni del nord, compito quasi altrettanto difficile. Tra i favoriti dalla fortuna, poi, erano davvero molti quelli che si lasciavano irretire dal nuovo ambiente o scoraggiare dal ricordo delle traversie sopportate all’andata o da entrambe le cose; alle volte, molto raramente, alcuni di questi personaggi si lasciavano vincere dalla nostalgia dopo decenni trascorsi lontano da casa e decidevano di riprendere la via del ritorno in qualità di passeggeri paganti in una delle carovane, solo per scoprire che la loro vecchia vita si era estinta, il loro ricordo svanito dalle menti dei famigliari; i più, comunque, si accontentavano di affidare una missiva al mastro di posta, sperando in una risposta, un giorno o l’altro.

Tutti dunque sapevano del Ponte di Ferro, come tutti sapevano che esso costituiva l’unica via d’accesso al nord che fosse effettivamente praticabile. Tutti avevano anche sentito nominare, almeno una volta, la Via del Nord, il leggendario sentiero che scavalcava le montagne molto più a meridione: i carovanieri seri, quelli che non solo vivevano del loro mestiere ma ne traevano anche piacere, sapevano benissimo che non valeva neppure la pena pensare di intraprendere quella via dimenticata nel corso degli anni, poiché sarebbe costato decisamente molto più del cumulo dei dazi imposti sulla pista consueta e sul Ponte di Ferro. C’era di sicuro un motivo valido e pressante se nessuno, a memoria d’uomo, aveva mai percorso quel sentiero: questo si dicevano la sera intorno ai fuochi dei bivacchi, masticando le scarne provviste approntate per il viaggio, e volgevano lo sguardo con odio misto ad ammirazione alle cime innevate che facevano da sfondo alla maggior parte del loro cammino.

Non potevano saperlo, i saggi carovanieri ma, nascosta alla vista dell’improbabile curioso, la fortezza di R’Hwethr, baluardo dei Fondatori, vegliava in silenzio sul passo che attraversava la catena, preservando gelosamente i suoi segreti.
 
CAPITOLO QUATTRO – INDOMABILE (DOLORE)

Spessissime e virtualmente impenetrabili, cortine strapiombanti alte trenta metri si affacciavano prive di feritoie sul vuoto, seguendo con precisione assoluta il profilo delle montagne; alle loro spalle, una serie di cortili fittamente interconnessi, delimitati da ali aggraziate, conduceva sino alla cittadella posta al centro esatto dell’intero complesso, una singola torre la cui sommità sovrastava da cento e più metri il lucido marmo del vasto cortile che la circondava, sinuoso pinnacolo di cristallo nero, le cui superfici curve avrebbero dato all’osservatore l’impressione di strisciare perennemente verso l’alto e verso il basso, come le spire di un enorme serpente intento a stritolare la sua preda. Nelle sue viscere, chilometri di tunnel e vaste camere, destinati ad accogliere intere armate, si propagavano come radici all’intorno, in un intrico capriccioso che nessuno avrebbe mai mappato, perché mutevole quanto le radici vere e proprie.

Perfettamente consapevole di essere il solo e unico fruitore di tanta magnificenza, Hangris Kholeykom completò il periplo dei cortili esterni, com’era sua abitudine ormai da secoli, fermandosi di fronte al portale istoriato che costituiva l’unico accesso visibile alla fortezza, là dove il sole del primo mattino, aprendosi la strada di sbieco tra le cime dei monti circostanti, pennellava ombre profonde e mobili dal materiale liscio e vetroso delle mura. Amava quella vista come se fosse il primo giorno, in qualche modo gli ricordava la sua patria perduta, la casa che un tempo era risuonata delle grida gioiose della sua gente intenta alle prime incombenze della giornata.
Ora invece, soltanto il vento sibilava tra i bastioni, inframmezzato ogni tanto dallo stridio di un rapace in caccia, lassù in alto, nell’aria rarefatta. Nulla era rimasto, nulla sarebbe più esistito, dopo l’esilio cui era stato costretto, in quel piccolo angolo sperduto. Aveva un bel dire Vahal, con i suoi ricominceremo da capo: erano stati sconfitti, travolti dalla repressione imperiale, costretti a fuggire, braccati, sino a precipitare laggiù, nella parte più isolata di un minuscolo continente di un mondo sconosciuto. Aveva tentato di condividere, se non il suo entusiasmo, per lo meno il suo odio feroce contro gli artefici della loro rovina, ma il dolore si era dimostrato più intenso, più profondo di qualsiasi proposito: abbandonato presto il campo, aveva vagabondato solitario verso sud, verso le montagne impervie che colmavano l’orizzonte.
Non sapeva esattamente cosa stesse cercando, tutto, oppure niente, magari …
L’oblio?
Di qualunque cosa si trattasse, comunque, l’avrebbe forse trovata col tempo, l’unica risorsa di cui disponesse in abbondanza. Gli anni trascorsero, silenziosi, mentre lui avanzava, la mente chiusa a tutto tranne che ai ricordi: li riviveva di continuo, precisi e vitali come eventi reali, indelebili come il suo viso che gli aleggiava sempre davanti agli occhi, sovraimposto ad ogni albero, ogni roccia, ogni creatura vivente, la sottile tortura di un vuoto immenso come quello che avevano attraversato per giungere sin lì.
La vendetta? Certo, era un concetto che aveva accarezzato per qualche tempo, prima di rendersi conto che anche dopo averla assaporata nulla sarebbe comunque cambiato per lui, allo stesso modo in cui nulla sarebbe cambiato quand’anche avesse ottenuto giustizia, vedendo riconosciuta dall’Imperatore l’estraneità sua e della sua casata alle vicende che avevano condotto a quel disastro: la perdita che avevano … che aveva subito, quella nessuno avrebbe potuto rifonderla!
Si guardò attorno, soffermandosi sulla levità dei molteplici archi che traforavano le pareti che lo circondavano, fragili come ali di farfalla, belli come lo erano stati in un altro tempo, in un altro luogo.
Fragili!
Sorrise a quella constatazione: trarre in inganno l’avversario, qualunque avversario, era la pietra angolare sui cui si fondava tutta la trascorsa potenza del suo casato. Ciò che lo circondava ne era un tipico esempio: concepita esclusivamente per custodire e proteggere i segreti che lui aveva portato con sé dalla loro terra natia – segreti che aveva preferito isolare e dimenticare in quel luogo sperduto – con la sua curiosa geometria che nessun essere umano, nessun essere completamente sano di mente avrebbe mai potuto concepire, R’Hwethr viveva, respirando impercettibilmente con ogni sua parte l’aria pura ripulita dai ghiacciai, crogiolandosi nel sole, cantando al soffio del vento che spirava teso da nord attraverso le gole.
Come ogni essere vivente, dalla sua nascita era cresciuta, aveva dormito, si era nutrita, aveva dormito nuovamente.
Giocava, persino, come ogni bambino: richiedeva attenzione in mille modi diversi e lui le dedicava tutto il tempo necessario, istruendola, consolandola, fornendole distrazioni come fosse (sua figlia) una cara amica di famiglia, amabile e divertente seppur molto giovane e inesperta.

Quando, come e perché avesse maturato l’idea di erigere quel memento ad un’epoca ormai trascorsa irrimediabilmente era difficile a dirsi persino per lui: in un primo momento, era stata la convinzione (la speranza) che sarebbe stato bello trovare, su quel nuovo, misero mondo, un luogo che potesse considerare suo e di nessun altro, in cui poter riposare e ricordare senza distrazioni. Se non altro, questo gli avrebbe fornito un obiettivo cui mirare: avrebbe dovuto essere un luogo isolato, solitario, un luogo bello ai suoi occhi come lo era stato il palazzo avito. Cominciò allora a ricordare le architetture che conosceva in ogni dettaglio, svolgendole nella mente come un affresco, colmando i vuoti con particolari nuovi e correggendo quelli che in retrospettiva considerava errori.
Compreso in questo lungo e meticoloso lavoro, giunse ai piedi della catena. Erano trascorsi molti anni ma nulla in lui era cambiato: cercava ancora il suo posto in quel mondo, tanto che decise di inerpicarsi su quelle cime e se non avesse trovato nulla neppure lassù, avrebbe continuato a cercare sull’altro versante, nelle terre ancora più a meridione. Avrebbe continuato sino all’orlo del mondo, se fosse stato necessario, ma non fu necessario: una sella candida di ghiaccio e neve perenni lo attrasse come una sirena; la raggiunse, si guardò attorno e si ritenne soddisfatto.
Quasi: per renderlo perfetto, a quel luogo sarebbero stati apportati alcuni piccoli cambiamenti … 

Richiamati a sé pochi servitori fidati, creature che, pur restando fedeli al Casato, come lui consideravano futili gli sforzi di suo figlio Vahal, Hangris se ne servì per edificare la sua R’Hwethr: come primo passo, i costruttori spostarono le tre cime che sovrastavano lo stretto valico senza nome situato lungo la dorsale esterna delle Braccia di Mhyr, per fare posto ad un pozzo gigantesco, profondo, le pareti innaturalmente lisce. A seguito di quei sommovimenti, nuove valli si erano aperte mentre altre sparirono nel nulla, facendo fuggire stupefatte e impaurite le rare tribù che si avventuravano in quelle terre, circostanza che passò comunque del tutto inosservata per i Fondatori, occupati com’erano a trasformare la roccia cristallina estratta dal pozzo nel pilastro destinato ad ospitare il nucleo principale del complesso. Ottenuta così una solida base d’appoggio, diedero inizio al lavoro di costruzione vero e proprio: minuscoli semi di cristallo vennero delicatamente inclusi ad intervalli regolari lungo le linee concentriche che descrivevano i complessi schemi perimetrali della futura fortezza, inscritti magicamente nella compatta massa nero-specchio del basamento; irrorati dalla luce sprigionata da intricate costruzioni runiche assemblate un glifo alla volta nell’arco di lunghi, laboriosi giorni, quei semi germinarono spessi tralci di una materia screziata di venature dorate che si intrecciarono e si fusero sino a formare pareti, archi, stanze, traendo energia da quel pugno di maghi fedeli che avevano scelto di sacrificare la propria vita a questo scopo, di dedicare la loro esistenza alla salvaguardia del Casato e dei suoi tesori più preziosi: i dolci, nostalgici ricordi del suo signore decaduto. Lo sforzo necessario per realizzare un’opera di tale grandiosità fu immane, persino per i rappresentanti di una schiatta tanto potente: estintosi l’ultimo servitore al compimento della sua opera, Hangris Kholeykom, lord Uthorion, rimase solo a contemplare la sua nuova dimora, una casa segreta che poteva a pieno diritto reclamare come propria.
Col trascorrere degli anni, lenta e ponderosa R’Hwethr si espanse sui crinali circostanti, in cerca d’acqua, di calore e di cibo, sino a raggiungere la maturità, l’optimum stabilito dal suo ideatore; solo allora si fermò, letteralmente cresciuta dalla roccia e concresciuta alla roccia che la circondava; autosufficiente, si prendeva cura di sé stessa, imparando a conoscere l’ambiente circostante, curiosa, rimuginando in continuazione sul proprio scopo ultimo, il motivo per cui era stata portata alla vita, interrogando costantemente il suo unico abitante in merito a questioni che ogni figlio avrebbe discusso con il proprio padre. Apprese la storia, le conoscenze che le erano necessarie a sopravvivere; plasmò i propri ideali su quelli del suo signore – come avrebbe potuto essere diversamente? – e divenne ciò che lui voleva che fosse, pur non arrivando mai a confessarselo apertamente: un paradosso, un mausoleo vivente dotato di autocoscienza.

Riemergendo dai suoi ricordi, Hangris continuò la passeggiata inoltrandosi verso il centro, un sorriso amaro a stirargli le labbra; nonostante l’isolamento pressoché totale, sapeva che nel mondo esterno erano accaduti molti fatti importanti – aveva i suoi modi per raccogliere informazioni – ed era stato felice e orgoglioso dei progressi compiuti da suo figlio.
Sacro Imperatore!
Che titolo altisonante!
Rise, al pensiero, un suono inumano che riecheggiò spettrale sotto la volta del passaggio che stava percorrendo; chissà come aveva preso la notizia la sua sposa, cosa aveva pensato nell’apprendere quale fosse la vera natura del suo uomo! Perché di certo l’integerrimo Vahal non avrebbe mai ritenuto opportuno mantenere un simile segreto con qualcuno che probabilmente amava. «La vita è dolore, mia cara! Ricordalo sempre!» suggerì sussurrando alla nuora che non avrebbe mai conosciuto.

Giunto nel cortile che circondava il mastio, si guardò attorno, in cerca di tracce che potessero indicare un qualunque cambiamento, senza trovarne alcuna; per l’ennesima volta, scosse il capo, ricordando che, in quel luogo, tutto partecipava della sua stessa natura perché così lui aveva voluto.
Anche la tristezza.
Anche il dolore.
Imperturbabile, l’aquila continuava a circuitare sopra di lui, puntando a chissà cosa; Hangris sedette su una delle panche ornamentali che arredavano l’ampia corte interna, di fronte al portale che dava accesso alla torre.
Sapeva di non essere realmente solo, era consapevole delle migliaia di occhi che lo seguivano ovunque: R’Hwethr si prendeva cura di lui in maniera quanto mai discreta, sempre inappuntabile, gentile e premurosa. Provava un sincero affetto per la sua ultima creatura, però sapeva che non avrebbe potuto in alcun modo sostituire lei e questo contribuiva sottilmente ad esacerbare il suo dolore.
Non era giusto! Nemmeno dopo tutti quei secoli.
Alzando lo sguardo verso la sommità del mastio, colse la lenta pulsazione che lo percorreva e rivide i rigagnoli scintillanti alla luce del sole sulla superficie parzialmente scorificata della loro nave, rivide i monconi degli alberi carbonizzati, avvertì l’odore di fumo di legna – persino piacevole nella sua fragranza – e quello della carne animale.
L’attacco a sorpresa.
La fuga.
La persecuzione.
Improvvisa, giunse la convinzione che non avrebbe mai trovato requie, in alcun luogo, perché loro lo stavano ancora cercando, lui e la sua stirpe ed avrebbero continuato a farlo in eterno: era stato condannato dall’Imperatore e questo era sufficiente.
Poteva arrendersi, porre fine a tutto quanto. Oppure poteva continuare a lottare, ma a modo suo: doveva solamente varcare il portale di fronte a lui e tornare ad essere ciò che era stato in passato, in un altro luogo. Raggiungere il tetto concavo della torre per osservare le stelle era stato uno dei suoi passatempi preferiti: per qualche ora, la sua mente vagava lassù, libera, serena; salendo a passo deciso la rampa che conduceva fino in cima, si disse che quella sarebbe stata l’ultima volta, che dove stava andando non avrebbe più avuto motivo di preoccuparsi di nulla: preferiva di gran lunga perdersi del tutto piuttosto che continuare a torturarsi a quel modo nei tortuosi meandri della propria memoria. Giunto davanti alla porta che dava accesso alla camera contenente il cuore stesso di R’Hwethr, esitò brevemente: l’avrebbe lasciata sola, in un certo senso, e non l’avrebbe mai più abbandonata, in un altro; dilemmi come quello non lo avevano mai attanagliato in precedenza, segno che, in fondo, qualcosa in effetti era cambiato, in lui e nel mondo che lo circondava. Considerandolo come un buon auspicio, si riscosse e sbloccò la serratura, entrò e si vide riflesso decine di volte nelle sfaccettature nebulose delle pareti di cristallo, un’ombra diversa in ciascuna: il suo aspetto attuale, quello che a volte assumeva nei momenti più tristi, una parata di sé stesso infinita, fino alla sua vera forma, quella che aveva derivato da sé per compiacere il suo antico signore.
Si mise a fissarla, lo sguardo attratto dalla particolare sfumatura che credeva di poter leggere negli occhi che lo fissavano di rimando … qualcuno che conosceva intimamente, del quale poteva fidarsi … qualcuno che sapeva, che comprendeva quello che aveva dovuto subire.
Lasciarsi andare, tornare.
Tornare ciò che era stato in passato: così tentante … così dannatamente tentante.
«Devo andare» mormorò a fior di labbra, quasi a scusarsi; mosse un passo – era sufficiente – e si ricongiunse con sé stesso, ritrovando l’abbraccio di ciò che aveva perduto e quasi dimenticato. Sentì la sua essenza fluire come acqua e mutare, tornare puro Tutto, in qualche punto sconosciuto della trama sottesa a quella che veniva considerata la realtà.  
Il cristallo della torre, il varlon del basamento, il granito stesso delle Braccia per un solo secondo divennero un immenso diapason, vibrarono all’unisono in melodioso accordo, poi tutto tornò silenzio.
Nella sala al centro della torre, al centro di R’Hwethr, riflessi giocarono a lungo a rincorrersi nel cristallo, solitari, senza ben sapere chi o cosa li avesse generati, o perché.

CAPITOLO CINQUE – INDOMABILE (VOLONTÀ)

Quel giorno, la fortezza bambina rimase senza un padrone cui riferire i propri progressi e scoperte.
Peggio ancora, rimase senza un padre che si rallegrasse dei suoi conseguimenti.
Questo era sempre stato per lei Lord Uthorion, senza che fosse mai arrivata a confessarglielo.
O ad ammetterlo con sé stessa, quanto a questo …
Ora che non ne avvertiva più la presenza all’interno dei propri confini, si rese conto di quanto profondo fosse stato l’unico legame che avesse mai intrecciato con qualcuno e sapeva che ne avrebbe sentito la mancanza, anche se il suo compito, il fondamento della sua esistenza, era e rimaneva quello di preservare nella sua interezza quanto milord le aveva affidato.
Sapeva, sentiva che qualcosa era profondamente mutato in lei, ma non riusciva a comprendere, a toccare quel particolare nucleo della sua essenza, così sfuggente ed elusivo; come se qualcuno avesse aperto una breccia nelle sue difese ma si fosse poi preoccupato di rimettere tutto quanto a posto com’era, dopo essere entrato, in maniera talmente perfetta da non lasciare alcuna traccia.
Una presenza evanescente, l’ombra che si coglie con la coda dell’occhio ma che quando ci si volta ad affrontarla si scopre che era soltanto un’impressione illusoria: il solo fatto di rendersi nota costringeva R’Hwethr a rimanere sempre sul chi vive, in attesa di un’azione che non si concretizzava mai. Si fosse trattato unicamente di un osservatore puramente passivo, avrebbe anche potuto soprassedere, ma in questo caso perché arrivare a tanto? Qualcosa decisamente non quadrava: chiunque fosse, l’intruso doveva essere mosso da motivazioni ben più profonde che avrebbero potuto costituire una grave minaccia; decisa a sviscerarle, la fortezza chiuse tutti gli accessi al proprio corpo, ponendo a guardia dei tunnel e dei corridoi quelle essenze embrionali che il lord le aveva chiesto di custodire e che lei aveva nutrito e curato a lungo: da quel momento in poi, sarebbero stati liberi di muoversi e agire entro i suoi confini, in veste di anticorpi.
Soddisfatta di questa sua prima decisione completamente autonoma, aprì i propri sensi a ciò che la circondava in cerca di informazioni che integrassero quelle che aveva appreso compulsando la vastissima conoscenza racchiusa nella sua memoria.
Qualcuno si muove coi passi di un gatto, quaggiù, le prove sono da qualche parte in questo mondo. Devo soltanto trovarle!
Sapeva che pensieri come quello erano decisamente atipici per una creatura come lei, ma sapeva anche perfettamente di essere non solo atipica ma unica, almeno in quell’angolo di macroverso, motivo per cui le due cose, a parer suo, si compensavano: ora che era virtualmente sola, poteva esplorare liberamente il suo ambiente, interno o esterno che fosse, indifferentemente.
Milord sarebbe orgoglioso di me. Mi correggo: milord è orgoglioso di me, ovunque lui sia.” 
Col trascorrere di lunghi anni, R’Hwethr divenne consapevole di essere l’ultimo ricettacolo di una conoscenza preziosa e non soltanto perché Lord Uthorion aveva riversato in lei la sua personale memoria: ora che il Casato originario si era fuso completamente con il nuovo ambiente che l’aveva accolto, stemperando e diluendo le proprie caratteristiche peculiari, tutto ciò che rimaneva della sua potenza era conservato tra le sue mura.
La scienza, l’arte, la tecnologia: è tutto qui, che in parte fermenta, in parte riposa, in parte vaga dentro di me.” Gli specchi nel nucleo sorrisero con un bagliore, a quella constatazione “Io sono un’arca, potrei salpare e dispensare … No! Pericoloso, questo. Troppo. Non devo!
Eppure …
Fu quello il momento in cui iniziò a comprendere le motivazioni del suo signore, perché avesse deciso di abbandonare quell’esistenza cui si era volontariamente relegato. Certo, il dolore, ma anche la tentazione, fortissima, quasi irresistibile.
Avrebbe potuto …  
Ma poi lo avrebbero trovato! Sarebbe equivalso ad accendere un faro in cima alla torre!
Questo mi insegna ad essere prudente: non devo lasciare tracce riconoscibili, neppure una! E per quelle che sono ormai incancellabili, occorre mascherarle, renderle meno visibili …
Iniziò così il lungo, complicato lavoro teso a nascondere in bella vista l’accesso alla fortezza: un sortilegio dopo l’altro, le valli che salivano al cancello divennero luoghi che la gente preferiva evitare; non che avessero un vero motivo per farlo, questo no, solamente li faceva sentire meglio, più al sicuro. Era un’arte sottile, quella che R’Hwethr aveva dispiegato, per nulla grossolana, poco appariscente come i veli di seta sul corpo di una ballerina: uno poteva ammirare il paesaggio, magari anche da vicino, poteva pensare di avventurarvisi curioso per scoprire cosa si nascondesse appena oltre l’apparenza, ma immancabilmente il disagio cresceva assieme alla sensazione profondamente radicata di essersi impelagato in qualcosa di proibito.
Tanto bastava: il curioso rinunciava e tornava mogio a casa, respirando meglio ad ogni passo che lo allontanava da quella che in origine era stata la sua meta.
Funziona! Devo ammettere di essere stata piuttosto in gamba!” gongolò tra sé la fortezza, qualche tempo dopo aver tessuto la sua tela “Ammetto che qualcuno si faccia comunque troppo insistente, ma è stato in previsione di casi come questi che ho piazzato le mie trappole. Sinora nessuno è riuscito ad arrivare sin qui e conto che continuerà così: il tempo renderà la trama sempre più efficace. Il tempo ed i ritocchi che apporterò qua e là. Non mi coglieranno impreparata.
Già. Questo era fondamentale.
Perché sarebbero giunti sino a lei, di questo era certa, pur non comprendendo a fondo questa sua convinzione. Aveva un bel dirsi che non c’erano indizi, che il nemico era stato annientato prima ancora della sua nascita: quella parte di lei che manteneva una profonda vena di pessimismo la metteva costantemente in guardia, pur senza presentare prove concrete.
Sarebbero giunti e avrebbero attaccato senza alcuna pietà, avrebbero colpito con forza e avrebbero tentato con ogni mezzo di farle del male, di distruggerla; avrebbero raso al suolo il suo corpo e straziato quello che fosse rimasto di lei.
Questa era l’eco permanente che riverberava nella sua essenza più profonda.
Non lo avrebbe permesso, tutti i ricordi racchiusi in lei dovevano perpetuarsi in eterno: questo era il tesoro che la Casa di Uthorion le aveva affidato e che lei avrebbe difeso strenuamente.
Da chiunque.
Così deve essere e così sarà. Non importa quanto tempo dovrà ancora trascorrere.
Ferma in questa sua risoluzione, R’Hwethr si trasformò volontariamente in uno scrigno sigillato in attesa della chiave. Secoli si accumularono come neve sulle cime e l’inaccessibile fortezza entrò poco alla volta a far parte della leggenda, un oggetto inamovibile e pressoché inutile per le popolazioni del versante settentrionale delle Braccia: nessuno era a conoscenza dell’estesa rete di tunnel che saliva sino al valico e comunque nessuno avrebbe saputo come accedervi; leggermente diversa, ma non di molto, era la situazione sul versante meridionale: da quel lato, la fortezza risultava invisibile, circondata com’era dai picchi montani, però i vecchi tramandavano storie di quando le montagne si erano mosse, raccontavano di come uomini mai visti prima avessero tracciato per il loro padrone una strada che non mutava mai nonostante fosse molto più antica di loro. Erano sicuri che quella strada conducesse ad un luogo meraviglioso, al di là delle montagne, ma non osavano calcarla, per paura – e non esitavano ad ammetterlo – che fosse stregata, così immutabile com’era.
Ai folli che tentavano la via, auguravano ogni bene, scuotendo il capo non appena quelli voltavano le spalle, sicuri che non li avrebbero visti più tornare.
Non come erano prima, almeno.
A parte questi piccoli, insignificanti inconvenienti, la vita proseguiva monotona, con la gente che nasceva, invecchiava e moriva, senza sapere che qualcosa di molto più grande di loro maturava e vegliava, in attesa del nemico.
Chiunque esso fosse.

CAPITOLO SEI – IL SALTO

L’impero di I’Sha godette di una vita lunga e prospera, ricca di successi in tutti gli ambiti; non ritenendo necessario espandersi oltre i confini naturali di S’Aharlis, la guerra costituiva un evento più unico che raro per i suoi abitanti e per tradizione si trattava di sporadiche recrudescenze dei vecchi rancori tra clan, i cui membri si limitavano ad affrontarsi nel corso di scaramucce di breve durata in luoghi isolati, per timore della repressione imperiale che puntualmente arrivava nonostante tutte le precauzioni prese.
La gente viveva serena, magari un poco annoiata, ma tutto sommato non si lamentava, non aveva motivo di farlo. Nessuno si aspettava che tutto questo potesse cambiare, i pochi visionari che ventilarono ipotesi circa una possibile crisi vennero bollati come pazzi, nel migliore dei casi, o come eretici, nel peggiore, e come tali eliminati in quanto elementi di disturbo.
Quando la fine giunse, improvvisa, con la perdita della capitale e dell’intera sua popolazione, era ormai troppo tardi per correre ai ripari: eserciti improvvisati iniziarono a scorrere il territorio, scontrandosi con formazioni che, contrariamente a loro, erano perfettamente addestrate, macchine da guerra efficienti che attendevano unicamente il momento opportuno per entrare in azione; in un continuo ascendere e cadere di domini effimeri, l’intero sub-continente venne messo a ferro e fuoco, per anni, che vennero tristemente ricordati nelle cronache come il periodo dell’Anarchia.

Quando colpì, l’Anarchia non causò soverchi danni oltre le montagne: certo, provocò una brusca contrazione dei commerci, causando la rovina di più d’uno che aveva stupidamente, erroneamente basato tutta la propria fortuna sui traffici da e per l’Impero ormai scomparso e vecchi debiti vennero ripagati in maniera alquanto violenta, cruenta ed improvvisa; a parte questo, però, ben poco filtrò fisicamente a meridione, forse proprio a causa della riluttanza da parte dei vari signori della guerra a far marciare per lungo tempo le proprie preziose forze lungo un percorso prevedibile nonché relativamente angusto quale poteva essere l’Altopiano Mediano, facile preda di chiunque possedesse fegato sufficiente a dar battaglia in quelle condizioni.
Era decisamente più semplice e remunerativo attenersi al piano originale che prevedeva, grosso modo, di razziare quanto più possibile quanto più possibile vicino a casa, badando nel contempo a parare i tentativi nella stessa direzione da parte dei rivali. Non che fosse necessario scomodarsi, in ogni caso: bande di predoni e avventurieri scorrevano quelle terre dall’inizio della civiltà, rintuzzate e cacciate dalle forze dell’ordine che si identificavano, la maggior parte delle volte, con i banditi e i predoni della generazione precedente, decisi a mantenere quello che avevano conquistato con il loro duro lavoro. In questo quadro generale, per molti l’Anarchia in sé e per sé costituì unicamente un motivo ulteriore per sfidare la sorte, per ottenere qualcosa di più – altrui – da sfruttare e godere a proprio vantaggio: nel clamore generale, fu facile nascondere e nascondersi, fidando nel fatto che ben più importanti eventi stornassero l’attenzione di chi era preposto a vigilare; la confusione ingenerata nell’intero continente fu tale che perdurò a lungo anche dopo l’effettiva conclusione degli eventi bellici a S’Aharlis, lasciando strascichi duraturi che avrebbero cambiato molto per molte generazioni di là da venire, uno dei quali andò a coagularsi attorno ad una delle rare oasi che fiorivano sull’Altopiano Centrale: ad una settimana di cammino circa dal suo limite orientale, il letto roccioso andava elevandosi in dolce pendenza per poi cadere a precipizio per oltre ottocento metri, una frattura verticale della crosta che tagliava obliquamente tutto l’Altopiano sino al versante settentrionale delle Zanne. L’antica azione del ghiaccio aveva contribuito a costellarne il bordo di alte morene e la pista, aggirate alcune delle più elevate, seguiva il corso del torrente che fluiva da un’angusta valle glaciale laterale sul versante meridionale delle Braccia, prima di affrontare la discesa lungo pericolose cenge collegate tra loro da robuste passerelle: a causa della particolare conformazione della scarpata, si trattava di un passaggio obbligato e a detta di tutti costituiva uno dei tratti più difficili ed impervi dell’intero viaggio verso Angren’Hal.
Con ammirevole praticità, i carovanieri lo chiamavano il Salto.

Bagnata dal torrente, comodamente adagiata sui declivi e protetta su tutti i lati da fortificazioni che sfruttavano abilmente l’andamento dei rilievi sino a fondersi con le montagne, una cittadina di discrete dimensioni sorgeva a breve distanza dall’orlo: alcuni erano convinti che proprio la vicinanza al Salto avesse spinto un gruppo di viaggiatori a scegliere quel luogo per insediarvisi; altri giuravano che fosse già antica quando l’idea della pista era ancora di là da venire e che l’inusuale fertilità di quell’angolo riparato tra le montagne, così atipica per quella regione, fosse stata la causa prima che aveva spinto alcuni gruppi nomadi dell’Altopiano a stanziarvisi; certo era che, a prescindere dai motivi e dalla data esatta della sua fondazione, l’apertura della Via aveva indubbiamente contribuito ad accrescere la sua fortuna, dovuta principalmente al fatto di costituire l’unico approdo sicuro nel raggio di svariate decine di chilometri: al riparo della sua tripla cinta di mura, il viaggiatore stanco e impaurito trovava ristoro nella pletora di locande ordinate lungo le vie che correvano verso i bordi della valle aprendosi ad angoli sghembi rispetto al suo asse; ve n’erano infatti di tutti i tipi e per tutte le tasche, da quelle che avrebbero potuto accogliere degnamente un imperatore alle stamberghe che avrebbero schifato una scrofa, anche se, fortunatamente, per la maggior parte occupavano la vasta gamma intermedia …
Quali che fossero i suoi gusti in fatto di alloggi, restava comunque il fatto che, una volta rifocillatosi a dovere, il viaggiatore avrebbe desiderato rifornirsi per il viaggio, esigenza legittima cui avrebbero provveduto i mercanti e gli empori intervallati alle locande, mentre delle necessità fisiche e spirituali del nostro si sarebbe alacremente occupata una delle prostitute che pullulavano nell’abitato: ogni locanda, ogni osteria, persino le case da gioco disponevano di almeno una stanza da offrire, dietro congruo compenso, al meschino che provasse il desiderio di accoppiarsi, maschio o femmina che fosse il partner prescelto non aveva alcuna importanza; se si trattava di una persona timida o particolarmente riservata, un lenone compiacente, vedendolo in difficoltà, si sarebbe di certo affrettato ad indirizzarlo – o ad accompagnarlo personalmente, se la borsa del nostro viaggiatore fosse risultata piena a sufficienza – verso le case chiuse che gli pagavano la percentuale, discretamente mimetizzate tra le abitazioni; in caso contrario, poteva sempre scegliere un angolo buio della strada per intrattenersi con la lacera battona di turno, che l’avrebbe coccolato un tanto al minuto. Qualcuno, scoprendo che il conto per il soggiorno lievitava più velocemente del pane per il continuo stillicidio di voci extra, tentava di rimediare vendendo o impegnando dapprima il superfluo, poi il necessario e infine l’indispensabile – gli usurai, quasi tutti anche mercanti, costituivano la creme della popolazione stanziale, superiori per importanza persino ai biscazzieri e ai tenutari – oppure puntando ciò che aveva ai tavoli da gioco, ritrovandosi comunque, in entrambi i casi, ben presto in miseria, costretto a vendere la moglie, le figlie, sé stesso per poter ripagare i debiti contratti.
Una volta ridotti alla fame, senza più speranza alcuna di riuscire a riprendere il viaggio, questi disgraziati confluivano nella teoria di orti e campi incolti affacciata sulla coppia parallela di sentieri che risalivano la valle fino alla porta settentrionale, si costruivano una sordida baracca sfruttando il legname di scarto e i rifiuti che abbondavano ovunque e passavano il resto dell’esistenza come servi, accattoni o, i più sfortunati, come schiavi: i maggiorenti della comunità, infatti, erano sempre ben contenti di aggiungere una nuova proprietà umana ai loro registri, considerandolo alla stregua di un innalzamento del loro status.

La giustizia – perché un simile concetto esisteva anche in questa piccola, remota enclave – veniva amministrata in maniera estremamente spartana: quando ad azzuffarsi erano due estranei di passaggio, la prassi era di lasciar correre, soprattutto se non si prevedeva alcun guadagno per nessuno; diversa era la faccenda quando implicato era qualcuno del posto: da esterni, si veniva processati in tempi strettissimi ed immancabilmente condannati, come minimo al pagamento di una forte ammenda. Per colpe più gravi si veniva fustigati, spogliati dei propri averi o resi schiavi – pene, queste ultime, che in effetti differivano tra loro soltanto formalmente. In caso di omicidio si veniva “accompagnati nel bosco”, un gentile eufemismo per indicare i cadaveri che dondolavano a grappoli dai rami degli alberi secolari bordanti in lunghi filari la parte alta della valle; ce n’erano sempre talmente tanti che quando il vento soffiava dalle montagne verso l’avamposto, il lezzo della decomposizione si mescolava intimamente al tanfo dell’immondizia scaricata appena oltre le ultime abitazioni in un aroma pregno e carnoso che scorreva le vie ed assaliva le narici come una belva affamata.
Ovviamente, nessuno si prendeva la briga di contarli o di tenere un registro delle impiccagioni: non appena smettevano di scalciare, a volte anche prima, i malcapitati cessavano di esistere per chiunque, eventuali parenti compresi e capitava spesso che furtivamente, di notte, al primo ramo libero venisse aggiunta qualche decorazione, di solito già spogliata di tutto quanto potesse fruttare una moneta; poteva capitare che fosse gente del posto, ostinata o stupida al punto da rifiutare le generose offerte di chi voleva impossessarsi ad ogni costo dei suoi averi, ma nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di stranieri – carovanieri, mercanti o semplici avventurieri – fatti oggetto di contratto per le bande di briganti che si aggiravano tra le colline, il cuscinetto umano che riduceva gli attriti e che spuntava le mire degli ambiziosi.
Molti, infatti, in passato avevano adocchiato il piccolo centro, cupidi di ricchezza come lo erano di potere: da lì fluiva in copiosissima quantità quel particolare lubrificante che passava sotto il nome di denaro, come tutti ben sapevano nella regione e oltre, e in più di un’occasione era bastato ungere determinate ruote per far passare di mano quasi fossero ninnoli piccole contee, situate a volte a mesi di viaggio da lì; inoltre, per la sua particolare conformazione, dall’avamposto sarebbe molto facile bloccare il Salto, portando al collasso ben più di un’economia che si basava sul commercio, constatazione che aveva stimolato la fantasia di condottieri e aspiranti despoti, famosi e non: grazie alle alleanze sotterranee di cui godevano i maggiorenti della cittadina, ogni tentativo si era sempre risolto in un nulla di fatto, con gli eserciti che, quando non si ribellavano direttamente ai propri signori, sobillati da agenti capaci di infiltrarsi nottetempo persino nelle mutande di un re, se solo fosse loro convenuto, si arrendevano dopo mesi di guerriglia combattuta selvaggiamente in un territorio aspro e sconosciuto di cui i loro avversari, al contrario, sapevano sfruttare al massimo ogni singola pietra ed era certo che l’eventuale disfatta sarebbe stata resa nota urbi et orbi l’istante successivo alla capitolazione, assieme alle modalità con cui era avvenuta e corredata da una quantità di atri succulenti particolari; un condottiero poteva anche perdere un’armata o due, lo si mette in conto, ma col prestigio la faccenda era decisamente diversa e una volta persa, la faccia è davvero una cosa dura da recuperare …
Stando così le cose, la vita proseguiva facile e tumultuosa, nel piccolo avamposto, con le sue gioie e le sue tragedie: i mercanti continuavano a spennare i clienti alla luce del sole, mandando bande di predoni a rapinarli oppure singoli sicari ad ucciderli nottetempo, se ne valeva la pena; alle aste cittadine venivano battute intere carovane perse al gioco dai rispettivi proprietari, schiavi, prostitute, terreni e proprietà; qualunque cosa, insomma, potesse avere valore per qualcuno.
La situazione andava avanti imperturbata da generazioni, accettata da tutti, entusiasticamente o loro malgrado.

Però …

Però restava sempre la questione della Via del Nord: era, questa, una strada che, partendo da un masso di granito nero conficcato grossomodo a mezza via tra le Braccia e le Zanne, penetrava nell’avamposto dalla sua porta meridionale e ne usciva per quella settentrionale, risalendo tutta la valle fino ad un piccolo lago di circo; da lì, uno stretto sentiero pavimentato si inerpicava sino ad un’alta sella che, secondo quanto biascicavano i vecchi, avrebbe dovuto dare accesso alle vallate retrostanti. Si trattava sempre e soltanto di sentito dire, comunque, poiché a memoria d’uomo nessuno l’aveva mai percorso, fatto quantomeno curioso, dato che un valico in quella regione avrebbe accorciato letteralmente di mesi il viaggio verso nord. Un edificio diroccato attendeva stancamente di polverizzarsi del tutto giusto all’inizio dell’arrampicata: stando ad alcuni antichissimi tomi ormai sbrindellati e quasi illeggibili, a costruirlo sarebbero stati nientemeno che gli uomini del Primo Sacro Imperatore, per assicurare riposo e ristoro a coloro che si dirigevano verso il Ponte di Ferro appena costruito; asserzione discutibile e quanto meno da verificare, considerando che chi avesse voluto farne uso sarebbe stato obbligato a compiere una deviazione di almeno due giornate rispetto alla via più diretta per Angren’Hal, osservazione che comunque non preoccupava né stupiva più di tanto il narratore di turno; pure la constatazione che, per quel poco che se ne poteva ricostruire, il suo stile architettonico fosse palesemente antecedente a quello tipico imperiale e non avesse assolutamente a che fare con qualunque altro sviluppatosi sul continente lo lasciava del tutto indifferente, facendogli al massimo accantonare l’obiezione con un gesto infastidito, come avrebbe fatto per scacciare un insetto molesto. E non si trattava solamente di questo, no davvero, le opinioni variavano su quella che tutti, nei dintorni, conoscevano come la Strada Vecchia: si diceva che fosse sfortunata, alcuni azzardavano pure un maledetta proferito a voce bassissima, quasi temessero, altrimenti, di incorrere in qualche sventura; non veniva fornita alcuna spiegazione a quei commenti, mai, e nessuno si azzardava a costruirvi a meno di venti metri di distanza, ricco o miserabile che fosse: era questo il motivo principale per cui l’abitato aveva assunto quella sua curiosa pianta a spina di pesce, anche se nemmeno sotto tortura gli abitanti avrebbero ammesso di avere paura di un semplice ammasso di lastre di granito sconnesse, al punto che preferivano infangarsi camminandovi accanto lungo uno dei sentieri gemelli pur di non calcarla; si era persino arrivati all’estremo di costruire ponti e passerelle sospese per collegare i due lati della valle, motivandoli con la  presenza del torrente, largo meno di due metri e di non voler mettere a rischio l’incolumità degli abitanti costringendoli a guadarlo su rocce potenzialmente scivolose ...

Come che fosse, una o due volte all’anno, qualche coraggioso venuto da fuori, origliando, coglieva qua e là questi e altri piccoli scampoli di informazione, si incuriosiva e presto la curiosità si trasformava dapprima in golosità e poi in rapace avidità al pensiero dei lauti guadagni derivanti dalla drastica riduzione delle spese di viaggio. Giunto a questo punto, di solito il nostro eroe valutava attentamente i pro – molti, dorati pro, di quelli che stavano comodamente chiusi a chiave in un forziere – e i contro dell’impresa – qualche sciocca, innocua superstizione di paese – e decideva di sfidare la mala sorte, baldanzoso ed estremamente sicuro di sé. Incurante dei cumuli d’immondizia che era costretto a scavalcare come dello stato pietoso delle baracche cui passava accanto lungo il tratto che correva all’interno delle mura, il temerario rabbrividiva appena nell’udire gli strani versi ed uggiolii provenienti dalle macchie di sterpaglia che crescevano lussureggianti a ridosso dei limiti cittadini.
Il primo, serio colpo alla sua baldanza di solito il viaggiatore lo subiva appena oltrepassata la porta settentrionale, inoltrandosi nel bosco, le orecchie ancora risonanti dello scherno terrorizzato delle guardie: la parata di cadaveri in tutti gli stadi della decomposizione che danzavano alla minima bava dell’onnipresente vento sopra il pavimento di ossa spolpate dai corvi accumulatesi con gli anni senza ordine alcuno alla base dei tronchi non era mai piacevole, per nessuno.
La forma stessa degli alberi, alti e rigogliosi, i rami spessi quanto una coscia permanentemente coperti di foglie di un curioso colore verde rossiccio scuro tendente al nero, quasi traessero nutrimento direttamente dai cadaveri, quando tutto, lì attorno, era coperto unicamente da erba stentata e un poco di muschio, l’ordine ferreo in cui crescevano, inducevano più d’uno a porsi domande che era meglio rimanessero prive di risposta, anche perché, arrivato a quel punto, se era un tipo sfortunato, il nostro non più impavido eroe entrava presto a far parte del macabro paesaggio, appeso ad un ramo oppure debitamente smembrato, vittima dei branchi che cacciavano liberamente tra le alture, composti da banditi oppure da lupi, la differenza era irrilevante.
In caso contrario, se non incontrava anima viva lungo quel primo tratto, riusciva a raggiungere i ruderi al tramonto del secondo giorno, camminando di buon passo e rinfrancandosi lo spirito con il gorgogliare allegro del torrente, senza troppo prestare ascolto alla vocina che gli ricordava insistente quanto si sentisse … no, nulla, solo un’impressione dovuta al bosco e a ciò che pendeva dai suoi rami, di sicuro, da accantonare in un angolo della mente insieme a tutte quelle altre sensazioni che potevano unicamente contribuire a fiaccare il suo proposito di raggiungere la meta e arricchire, ad esempio il fatto che, nonostante i secoli di incuria, la massicciata apparisse in così perfette condizioni.
Vetusta, certo, ma intatta, neppure minimamente sbreccata o invasa dalla vegetazione.
Come che fosse, trascorsa la notte nel camerone semi-sventrato, cullato dal chioccolio della cascata che alimentava il lago, dopo un meritato riposo e una sobria colazione, iniziava la difficile scalata al passo, il sentiero ripido ma curiosamente sgombro, seguendo da presso il corso del torrente tornante dopo tornante, scavalcandolo numerose volte su stretti ponti di pietra; marciando a passo costante, perché la pendenza tagliava le gambe sin da subito, si guardava attorno cercando dei punti di riferimento facili a riconoscersi e da memorizzare, sì, perché aveva di nuovo questa stranissima sensazione incuneata nel profondo dell’animo, che qualcosa (qualcuno) lo stesse osservando da lontano con estremo interesse; qualcuno (qualcosa) sembrava divertirsi a prenderlo in giro, a cambiare le carte in tavola ogni pochi minuti, tentando di confonderlo, di sviarlo: era il motivo per cui cercava strenuamente di ricordare quanto avesse visto davanti a sé la volta precedente in cui aveva alzato lo sguardo dalle pietre. Quella svolta cieca era là anche prima? Quel baratro senza fondo a filo del sentiero, non si era per caso appena aperto all’improvviso? Strettissimo, pareva una coltellata inferta alla terra stessa per pura cattiveria. C’erano poi (ma c’erano davvero?) dei lunghi tratti scavati nella viva roccia, non più larghi di un metro, dai quali un mulo sarebbe passato a stento, sfiorando il ciglio del dirupo, mentre altri sembravano essere costellati di occhi invisibili e di fessure che il vento faceva mugolare e cantare come anime sofferenti; strette dorsali spazzate da correnti d’aria davano l’impressione di essere state dislocate apposta per spingere l’incauto oltre il bordo, in una lunga, eterna caduta ...

Fenomeni naturali, comuni in alta montagna, si diceva, che però non mancavano di suggestionare il viandante tanto a fondo da spingerlo verso l’abisso, letteralmente: tra gli abitanti, a valle, si narravano storie di persone che, senza motivo alcuno, avevano volontariamente sterzato le loro cavalcature oltre il ciglio per poi franare a valle; altri avevano iniziato a correre o dato di sprone finendo per schiantarsi contro le pareti a strapiombo senza emettere un grido; gente che aveva deciso di tornare indietro ma che, alla conta dei fatti, era sparita nel nulla; c’erano stati persino alcuni così disperati che avevano preferito annegarsi nel mezzo palmo d’acqua del torrente, piuttosto che proseguire obnubilati da quello che definivano un tetro presagio di morte incombente.

Pochi tentavano quell’impresa, suggestione o meno, ed i pochi che riuscivano a tornare si rifiutavano categoricamente di ripeterla o di raccontare nel dettaglio cosa avessero visto lungo la strada, motivo per cui le leggende fiorivano, propagandosi incontrollate nella regione. Alla popolazione residente, d’altra parte, andava benissimo così, ovviamente, e non era difficile far risalire alcune tra le immagini più truculente alla fantasia dei bardi locali, abilmente manovrata da quelli che avevano tutto l’interesse a mantenere lo status quo. Non che ve ne fosse realmente bisogno: la piccola percentuale di verità che accompagnava la Strada Vecchia era comunque sufficientemente inquietante da dissuadere la maggior parte della gente dall’utilizzarla per i suoi traffici, così che le casse della cittadina continuavano a riempirsi fino a traboccare.

CAPITOLO SETTE – UN UOMO CAPARBIO

Un giorno, un povero straccione orbo da un occhio stramazzò al suolo ad un tiro di sasso dalla porta settentrionale, subito dopo gli ultimi rigurgiti dell’Anarchia: era lacero, coperto di graffi e ferite suppurate, ma vivo. A prima vista, sembrava provenire dritto dritto dalla strada del bosco e le guardie, ritenendo fosse un mercante scampato ad un attacco dei banditi e finito chissà come dalla parte sbagliata della vallata, lo portarono in città, prendendo debitamente nota del notevole gonfiore della borsa che teneva alla cintura, strettamente serrata con sottili lacci di cuoio rinforzati con seta pregiata. Convocato un cerusico da quattro soldi nell’acquartieramento, lo lasciarono alle sue cure e tornarono di ronda, convinti che non sarebbe durato a lungo, conciato com’era, dopodiché loro avrebbero potuto tranquillamente spartirsi il bottino senza dire niente a nessuno. Si sbagliavano: tempo una settimana, lo sconosciuto era in piedi. Debole, ma in piedi.
Curioso, si mise a porre domande su domande, rispondendo a monosillabi e grugniti a quelle che venivano poste a lui di rimando. Si dimostrò ben presto un ometto estremamente tenace, svelto di mano e di intelletto, che non si peritava di sventrare quei miserabili che tentavano di derubarlo o in qualunque altro modo di prevaricarlo: al decimo infruttuoso tentativo di portarlo in giudizio, le autorità cittadine decisero di soprassedere e passarono parola ai propri rappresentanti di lasciar perdere e di puntare delle prede più facili. Non smisero comunque di tenerlo d’occhio, perché nonostante l’aspetto non proprio accattivante, il nuovo venuto sembrava decisamente in grado di badare a sé stesso e persino di prosperare: in poco tempo, il suo nome – meglio, l’appellativo che si era guadagnato – divenne noto tra quei gruppi di persone che preferivano tenersi lontane dalle luci della ribalta e in alcuni casi persino dalla luce del giorno.
Schivo, dimesso nel vestire, parco di parola, limitava le sue interazioni sociali a quanto gli fosse strettamente necessario volta per volta. O almeno così sembrava: nel giro di un mese, abbandonò la stanza che aveva occupato all’insegna della Mano Guantata, una stamberga di quarta categoria, e si trasferì a pensione presso una vedova che risiedeva a ridosso della porta meridionale, lasciando con un palmo di naso quelli che contavano di spennarlo come un pollo come da prassi. Quello che preoccupava maggiormente i bene informati, però, era il suo continuo uscire dalla città, in viaggi della durata di una, due settimane, a volte con dei compagni assoldati per l’occasione, ma per la maggior parte in solitaria: le staffette incaricate di seguirlo riferivano sempre la stessa cosa, lui che raggiungeva la Via, l’attraversava e si inoltrava nella regione collinosa lungo il ciglio del Salto, dove immancabilmente riusciva a far perdere le sue tracce, in un modo o nell’altro, fatto questo che sembrava mandare in bestia i loro committenti tanto quanto lasciava imperturbata la manovalanza. Nessuno si era mai preoccupato eccessivamente di esplorare quel settore dell’Altopiano, bastavano i resoconti di coloro che giungevano da occidente alla scarpata per sapere che l’unico accesso praticabile fosse quello a ridosso delle Braccia, perché dal lato delle Zanne la roccia si presentava assolutamente liscia e compatta sino in cima, con qualche sperone solitario qua e là che serviva da nido agli uccelli; oltretutto, le colline erano brulle e sterili, infestate da banditi: che mai ci poteva essere di tanto interessante?

Sera d’inverno, nella sala comune di una locanda del centro. Fa freddo, fuori nevica pesantemente, minacciando di bloccare la discesa sino a primavera, ma nel grande camino arde un bel fuoco di faggio, segno di grande prestigio, perché, data la scarsità, tutta la legna arriva con apposite carovane, tanto che nelle case si usa bruciare torba o grasso, decisamente più abbordabili. Il tavolo d’angolo è occupato, come sempre, i quattro uomini sbracati attorno osservano incuriositi il piccoletto che sta consumando una cena a base di legumi e maiale. «Abbiamo trovato quello che cercavi.» accenna il primo uomo in tono casuale, valutando con lo sguardo gli avventori.
La risposta è un grugnito sommesso, senza nemmeno levare lo sguardo dal piatto.
«Io non me ne intendo granché, ma sembra tutta roccia compatta, adatta a costruire.» Grande e grosso come un bue, il secondo fornisce il suo parere continuando a giocherellare con il pugnale, giusto per passare il tempo: non si trova granché a proprio agio, in quel posto, preferirebbe di gran lunga essere a spassarsela con qualche prostituta.
Un sorso di birra, appena appena decente: «Dove?»
«Non molto distante dalle porte, a dire il vero, meno di mezza giornata di cammino, proprio sul versante esterno.»
I due fratelli non sono gemelli, ma si somigliano tanto che è come se lo fossero: il maggiore ama vestire comodo, brache e camicie ampie che consentano libertà di movimento e facili nascondigli; il minore, taciturno e sensibile, annuisce a conferma di quanto detto, la destra poggiata aperta sul piano del tavolo, simile ad un ragno a cinque zampe: i tatuaggi runici blu-viola danno l’impressione di rincorrersi lungo le sue dita come piccole serpi irrequiete.
«La valle?»
«Libera.» Il sicario scrolla le spalle, riportando la propria attenzione sul piccoletto: «Non è esattamente un’impresa facile, raggiungerla, capisci?» Socchiude le palpebre, allusivo.
«Molto meglio di quanto sembri fare tu: vi ho indicato io la via ...» L’unico occhio dell’orbo si posa per qualche secondo su di lui, facendolo tremare.
«Certo, certo. È ovvio! Volevo solo ...»
«Non ha importanza.» taglia corto l’altro «Quello che mi preme di sapere, in questo momento, è se abbiamo forze sufficienti per passare alla fase successiva del piano.»
Il maggiore sogghigna: «Potremmo sempre prenderci questo bel posticino. Perché sprecare tempo e fatica là fuori in mezzo ai barbari?»
«Perché questo bel posticino, come lo chiami tu, è già nostro.» lo riprende quietamente il fratello «Solo che loro ancora non lo sanno.» Allarga le braccia a comprendere tutti i presenti e quanto si estende fuori dalla locanda. «Esatto!» L’orbo inghiotte l’ultimo boccone di pane dando fondo al boccale, poi allinea forchetta e coltello con cura ai lati del piatto. «Mi hanno sorvegliato sin da quando ho fatto loro il dispiacere di sopravvivere alle mie ferite, ma sono degli inetti, non hanno capito nulla. Così ho potuto imbastire con tutta calma il mio gioco, giusto sotto il loro naso.» Intreccia le dita in un modo curioso, un vezzo che si concede da quand’era bambino, in un’altra vita, gongolando un poco, prima di tornare pratico: «Ora quello di cui ho bisogno è una base stabile per l’avvenire!» sibila: «Dobbiamo garantirci, primo, una via d’accesso alternativa all’Altopiano che non possa essere bloccata tanto facilmente e che risulti appetibile a chi di dovere; secondo, risorse e manodopera, possibilmente fedeli; terzo e più importante, influenza – politica, militare, civile – ma questa crescerà naturalmente col tempo, quando saremo riusciti a mettere radici. E poi ...»
Il gigante abbocca all’amo: «E poi? Cosa?» chiede, subito pentendosene alla vista dell’espressione apparsa sul viso dell’orbo: rare volte ha provato paura, in vita sua, e questa, è difficile ammetterlo, è la peggiore. «Scusa, non volevo impicciarmi ...» borbotta, distogliendo lo sguardo.
«Qual è la prossima mossa?» Il sicario è impaziente, sente che sta per accadere qualcosa e, vanitoso com’è, vuole che si sappia della sua partecipazione, così si premura di mettere le mani avanti, per essere pronto.
È accontentato.
«Spargete la voce: cerco gente capace per un lavoro ben retribuito, a tempo debito.»
«Questo significa che non verremo pagati?!» Nonostante la mano del fratello prontamente posata sul suo avambraccio a trattenerlo, il maggiore dei due si inalbera, quasi arrivando ad estrarre lo stiletto dal fodero.
«Se fossi in te, eviterei, mio caro ragazzo. Se fossi in te ...» l’avvertimento è quasi inaudibile, ma il movimento delle mani dell’orbo non potrebbe essere più esplicito: ha nuovamente impugnato coltello e forchetta, solo che questa volta le posate non sono destinate a portare cibo alla bocca. «Per rispondere alla tua domanda, puoi essere pagato pronta cassa, se vuoi.» Il sorriso del maggiore si allarga, compiaciuto, è convinto di avere vinto la partita «Ma dovrai andare molto lontano da qui, per spendere il tuo compenso, questo te lo assicuro.»
«Tu non ...»
«Sei davvero sicuro di non voler tacere, ora? Te lo chiedo unicamente nel tuo interesse ...»
L’altro deglutisce a vuoto e si rilassa contro lo schienale della sedia: «Oh, e va bene! Va bene! Come vuoi tu!» «Bravo! Hai dimostrato una saggezza che, francamente, non ti avrei mai attribuito, sino ad ora. Tornando a noi …»

A primavera, la neve ancora alta sul terreno, gli unici varchi visibili in mezzo a tutto quel bianco erano costituiti dalla carovaniera e dalle sue derivazioni, la Via del Nord, che da sempre la collegava al villaggio nella valle anche se in maniera non del tutto propria, e la Terza Via, pavimentata di fresco, che lambiva le colline dell’Orlo verso le Zanne e il meridione: mantenuta sgombra in ogni periodo dell’anno dai membri della Corporazione appositamente istituita allo scopo, da oltre cinquant’anni aveva aperto nuovi orizzonti e nuove, proficue possibilità di guadagno a coloro che avevano avuto l’ardire di scommettere sul suo successo futuro. Del resto, non era l’unico cambiamento sopravvenuto nel paesaggio: incastrata giusto a sud del bivio, la grande stazione di posta con la sua cinta muraria fungeva al tempo stesso da dogana, base per i messi del Vecchio e valvola di regolazione del transito dei viaggiatori, incanalando i più danarosi verso quello che ormai veniva chiamato il Sobborgo. Era occorso del tempo, ovviamente, ma alla fine ci era riuscito: come in una fiaba, il lacero straccione soccorso dalle guardie, quello che tutti aspettavano unicamente di veder morire per poterlo derubare dei sui miseri averi, aveva lavorato e lavorato duramente fino a cogliere il frutto delle sue fatiche ed ora, dalla posizione di potere che aveva raggiunto, si preparava alla fase successiva del suo piano.
Non aveva requie, lui, non avrebbe potuto averne sino a che …
«Mio signore, l’ambasciatore di Threnia chiede umilmente udienza!»
«Umilmente! Ah! Dubito che quel mulo lardoso conosca anche solo l’esistenza del termine …»
«Mio signore! La diplomazia impone …»
«… che tu lo faccia passare e te ne vada immediatamente, prima che mi venga voglia di testare personalmente la tua resistenza al fuoco su uno di questi bracieri.»
«Mio signore …»
«Sei ancora qui?!»
Il ciambellano si ritira assai poco dignitosamente, cogliendo giusto l’occasione per sussurrare qualcosa all’orecchio del nuovo venuto che avanza tronfio sino al centro della sala, ostentando strati su strati di preziose pellicce. Non si inchina, non lo ritiene consono alla sua posizione e il Vecchio non gliene fa una colpa, sapendo bene che ignoranza e stupidità sono congenite, in lui.
«Siamo qui per discutere …» esordisce l’ambasciatore, appena una tacca sopra il disprezzo più puro.
«Siamo? Dove ha lasciato gli altri?» lo interrompe l’orbo dallo scranno su cui siede.
«Plurale maiestatis, ovvio!» risentito al limite dell’offesa «È quando si usa ...»
«So benissimo quando si usa: voi non siete un monarca, tanto meno agite in suo nome, per cui veniamo al sodo ed evitiamo inutili giri di parole, siamo d’accordo?»
L’ambasciatore sbuffa con tanta forza da far vibrare i doppi menti, vorrebbe andarsene ma ha una missione da portare a termine: «Il mio signore duca propone un’alleanza: offre il suo sostegno, economico e militare, per la protezione della Via dalle mire dei nostri comuni rivali. Lui crede …»
«Lui crede che io sia un fesso, così ingenuo da non comprendere quali siano le sue vere mire.» Il Vecchio sorride appena al vedere l’espressione di disappunto sfuggita al ferreo controllo del suo interlocutore: «La risposta è no.»
«Ma, mio caro amico, dovete capire che Ve’Lys preme ai vostri confini! Potrebbe attaccare da un momento all’altro!»
«Vero, verissimo!»
«Ecco! Vedete! Il nostro aiuto potrebbe risultare risolutivo!»
«La risposta è sempre no.»
«Come potete essere tanto ...»
«Stupido? Non lo sono affatto! Volete scornarvi con Ve’Lys o con chiunque altro oltre le Zanne? Padronissimi di farlo!»
L’ometto basso e gracile scende dallo scranno con movimenti fluidi, degni di un acrobata, andando a piantarsi a meno di un metro dall’ambasciatore. Deve alzare lo sguardo per incontrare i suoi occhi, ma è l’altro a ritrarsi a disagio, sentendosi soppesato e valutato sin nel profondo: «Siete già in trattativa con loro?» chiede, seriamente preoccupato: se così fosse, avrebbe dovuto riferirlo immediatamente al duca e il suo signore non ne sarebbe stato per niente contento …
«Noi non trattiamo con nessuno: semplicemente, non mettete piede nel Regno se non invitati, altrimenti ne pagherete le conseguenze. Tutti. Sono termini sufficientemente chiari, per lei, signor ambasciatore?»
La minaccia sottesa a quella semplice frase fa tremare il grassone, che annuisce, di più non riesce a fare: sa che squadre mandate in ricognizione sono sparite nel nulla e che le spie infiltrate nel territorio dopo qualche giorno vengono ritrovate sparse sul terreno. Letteralmente. Per cui, sì, i termini sono più che chiari.
«Ottimo! Le auguro una felice permanenza, qui o nel Sobborgo, se preferisce.»
Il Vecchio gli volta le spalle, torna verso lo scranno e la pila di documenti che l’attende sul tavolino a fianco.
Il colloquio è concluso.

Per un decennio intero aveva esplorato le colline del Salto, lui personalmente o per interposta persona, spingendosi sino alle pendici delle Zanne, cercando, cercando e infine trovando. Soddisfatto, aveva radunato una numerosa compagine di esperti in vari settori della criminalità, le eccellenze di quel sottomondo che l’aveva accolto in gioventù, trattandolo non da pari, perché quella era più una cosa da ceti elevati, non usava tra loro, quanto piuttosto come una persona sulla quale si poteva contare all’occorrenza, ed era già molto. Una tale congerie di assassini, cacciatori di taglie, ladri, falsari e bari mai si sarebbe spontaneamente sottomessa ad un ometto qualunque con manie di grandezza e sete di potere, nemmeno nei tempi bui dell’Anarchia seguiti alla catastrofe che aveva spazzato via l’Impero, oltre le Braccia, quando tutto sembrava permesso perché niente e nessuno avrebbe osato tentare di opporsi alle armate che scorrevano il territorio a caccia di qualsiasi briciola di potere i loro condottieri potessero accaparrarsi; era evidente, però, che l’orbo non fosse quel tipo di persona: qualcosa, in lui, incuteva rispetto e persino terrore, soprattutto quando osservava il prossimo con quella particolare espressione che tutti, per qualche inconscio motivo, associavano al volto incappucciato del carnefice intento a scegliere il modo migliore e più sicuro per far soffrire la vittima designata in maniera intollerabile sino al suo ultimo respiro. Ovviamente, nei primissimi tempi del loro radunarsi nella regione, c’erano state controversie con la popolazione criminale indigena, fedele alla casta dirigente che risiedeva nella valle, divergenze che erano state presto appianate facendo trovare alcuni dei capi più influenti appesi con sottili lacci di cuoio ai pali delle loro stesse tende, per il collo o per altre parti del corpo molto più delicate e sensibili, dopodiché la situazione si era stabilizzata con mutua soddisfazione di entrambe le parti.
Non era solamente per predare od uccidere, infatti, che erano stati selezionati: il piano dell’orbo era decisamente più ambizioso e complesso. Stilate delle mappe molto accurate nel corso delle precedenti esplorazioni, era stato loro chiesto di valutare con l’occhio di chi era costretto a muoversi con celerità e sicurezza quale delle molte vie trovate tra le montagne rappresentasse la migliore soluzione possibile da quel punto di vista; ottenuta una risposta concreta, tutte le altre erano state bloccate con presidi difensivi e si era iniziato a lavorare, ingaggiando sterratori e operai per livellare il terreno e rendere agevole il percorso.
All’inizio, si trattava unicamente di un sentiero che si inoltrava nella foresta separandosi dalla Via Antica all’altezza della strada proveniente da Threnia, visibile soltanto perché indicato da un largo spiazzo affacciato su una delle profonde forre della Prima Catena, con un casotto di tronchi all’imbocco, il tetto di paglia spessa realizzato apposta per proteggere gli occupanti dalle abbondanti nevicate in inverno e dal cattivo tempo per tutto il resto dell’anno. Dopo un primo, duro tratto in salita, necessario a superare la fascia pedemontana e a raggiungere il primo zoccolo delle Zanne, il viaggiatore proseguiva immerso in una densa foresta, il percorso scandito nella sua durata dalle intersezioni della pista con sentieri accuratamente dissimulati tra gli alberi, alternate a piccole costruzioni in legno e pietra in tutto e per tutto simili a quel primo casotto a ridosso della Via Antica e destinate ad accoglierlo qualora l’avesse desiderato: agli inizi, il servizio era quello che era, ovviamente, ma la possibilità di evitare il congelamento nel bel mezzo di una tormenta scoppiata nel pieno dell’inverno, o di trascorrere al caldo e all’asciutto un piovoso pomeriggio d’estate veniva decisamente apprezzata – e pagata – da chi poteva beneficiarne.
Il fatto poi che squadre di mercenari e di manutentori pattugliassero ad intervalli regolari, mantenendo sicurezza e pulizia, contribuì non poco al successo dell’impresa: un mercante col profumo dei primi fiori nelle narici, dei pellegrini in autunno, una compagnia di attori girovaghi che vede la via aperta tra muraglioni di neve alti quanto un uomo; poco alla volta, alla spicciolata, il traffico aumentò costantemente, la voce si sparse e presto non furono più soltanto i piccoli ambulanti a preferire la Terza Via. Essa era fondamentale, lo scopo ultimo di tutto quel brigare, apparentemente, che però non sarebbe stato possibile conseguire senza un apposito apparato di supporto, motivo per cui miniere e cave vennero aperte e sfruttate per estrarre minerali utili e pura e semplice roccia con la quale costruire edifici ed interi villaggi: presto, agli uomini del Vecchio si unirono artigiani, commercianti, persino contadini che avevano deciso di abbandonare i loro precedenti insediamenti per sperimentare la novità, alcuni, altri semplicemente attratti dal miraggio della crescente ricchezza ed importanza del nuovo stato.
Nonostante il nomignolo sinistro affibbiatogli dal popolino nelle regioni confinanti, infatti, non si viveva poi troppo male nel Regno dei Ladri: abbastanza esteso da provvedere alle necessità dei suoi abitanti ed al contempo sufficientemente piccolo da poter essere governato senza il bisogno di troppi intermediari, lo staterello che occupava alcune ampie vallate che incidevano profondamente le Zanne costituiva un’oasi di pace in una regione altrimenti turbolenta; lo sapevano bene i rappresentanti delle carovane, che dopo vari, rovinosi tentativi di scansare i nuovi dazi, con il solo risultato di perdere carico e uomini a seguito degli attacchi dei banditi, si erano rassegnati a pagare, persino quelli delle compagnie davvero importanti, ricche a dismisura, che ora godevano di libero passaggio e protezione lungo il tragitto, con diritto di sosta e foraggiamento su tutto il territorio compreso entro i confini.
Vantaggi che, tutto sommato, era meglio non disprezzare.
Quanto al resto, la popolazione residente viveva suddivisa in insediamenti dispersi nella foresta che ricopriva le pendici  meridionali delle Zanne; per la maggior parte erano costituiti da un pugno di casupole con qualche orto e pochi capi di bestiame, ma esistevano anche centri decisamente più sviluppati e vitali, sorti come sede di mercato per i manufatti e i minerali grezzi estratti dalle montagne, tutti disposti lungo una fitta rete di sentieri – marcati in maniera chiarissima per chi avesse saputo dove e cosa cercare – percorsi notte e giorno dai messi e dagli agenti del Vecchio, che li conoscevano come il palmo delle loro stesse mani; non si poteva certo definire una vita lussuosa e neppure semplice, quanto a questo, però possedeva degli aspetti che la rendevano appetibile per molti, motivo per cui la popolazione continuava a crescere e a prosperare. Che fosse merito della decrepita creatura che l’aveva fondato era indubbio; che tutti gli abitanti, chi più chi meno, provassero rispetto misto ad una sorta di reverente timore nei confronti dell’ometto orbo di un occhio che regnava su di loro incontrastato, curvo e rattrappito come un ragno sul suo trono di legno scuro, era una certezza profondamente instillata nei bambini sin dal loro primo vagito.

«Voglio una stazione di posta.»
«Mio signore, è già stata costruita, diverse decine di anni fa ...»
Untuoso, il nuovo ciambellano. Persino più di quelli che l’hanno preceduto.
«Stai forse cercando di farmi intendere che sono rimbecillito con l’età?» Il Vecchio – ormai di nome e di fatto – sogghigna divertito al vedere l’espressione di puro terrore comparsa sul viso dell’altro.
«Mio signore, no! Non era mia intenzione insinuare alcunché! Volevo solamente ...»
«Tranquillo! Non ti accadrà nulla.» Stuzzicarlo un poco, giusto per vedere come reagisce? “Perché no? In fondo, mi ha offeso!” «Questo, però, potrebbe non essere altrettanto vero per la povera, piccola Mira … Ha compiuto da poco gli anni, se non sbaglio: si merita un bel regalo!»
Cinereo, il ciambellano cade in ginocchio, non ha neanche la forza di supplicare, resta così, in attesa del fato che ha inavvertitamente sancito per sé e la sua famiglia.
«Alzati, idiota! So benissimo di aver fatto erigere tre stazioni di posta lungo la Via! Potrei persino citarti la data esatta della posa della prima pietra di ciascuna!» La voce secca e rasposa trae deboli echi dalle volte «Quello che voglio è che venga completata l’opera! Al bivio della Prima Catena. Che vengano integrate le strutture esistenti e implementata una congrua guarnigione, una volta terminati i lavori. Sono stato chiaro?»
Non osando rispondere a parole, con il rischio di tradirsi nuovamente, il ciambellano si limita ad annuire meccanicamente.
«Ottimo! Sei congedato. Non farti vedere mai più!»
Le guardie si affrettano a chiudere le porte alle spalle del funzionario in fuga.
Idiota! Ho trascorso la maggior parte della mia vita a preparare il terreno per la mia tanto sospirata vendetta, ho brigato, pianificato, sacrificato quasi tutto per ottenere ciò che mi serve per portarla a compimento e che cosa ne ricevo in cambio?! Di essere circondato da mezze tacche come quella!
Un sorso di vino dalla coppa di cristallo montato in oro che un tempo era stata il bene più prezioso di un magnate di Ve’Lys: com’era giunta in suo possesso? “Ah! Sì! Ora ricordo: portata in dono da un’ambasceria che cercava di trasportare merci franco di porto lungo tutto il percorso da qui al ponte … proponevano di dividere i proventi della vendita!” La coppa risplende alla luce delle torce, una vera e propria opera d’arte, come quasi tutto ciò che lo circonda. “Ancora poco! Manca solo ancora un poco e poi …

CAPITOLO OTTO – NELLA CAPITALE

Le voci correvano veloci più del vento, si moltiplicavano più numerose delle larve di mosca su un cadavere, mutavano più in fretta di una malattia e risultavano altrettanto contagiose: tra le porte non si parlava d’altro da giorni, alle manovre del Vecchio sull’Altopiano e nella Valle Traversa era stato risposto con l’adunata generale di quasi tutte le entità politiche di là dalle Zanne. Nessuno si azzardava a muovere un passo oltre i propri confini, nella paura di scatenare una reazione che, considerato come si stavano mettendo le cose, avrebbe di certo raggiunto il parossismo nel giro di poche ore, però tutti erano sul chi vive, la mano saldamente poggiata sull’elsa della spada, per così dire. Si respirava aria tesa, densa del fumo delle pire – metaforiche, perché non ancora accese – e i soldati marciavano irrequieti, ansiosi di dare sfogo alle loro frustrazioni represse menando le mani in una bella battaglia.
Passeggiare lungo la via verso la cima era un modo ottimale per tastare il polso della situazione: i piccoli commercianti tentavano di prevedere la flessione che, in caso di guerra aperta, il loro giro d’affari avrebbe subito e se ciò li avrebbe o meno spinti sul lastrico, mentre i rappresentanti delle carovane valutavano se fosse il caso di presentare una petizione che garantisse i loro diritti a prescindere, in qualità di elementi neutrali e di collegamento con il settentrione; oltretutto, dovevano ad ogni costo impedire che il piccolo vecchio pazzoide ponesse il blocco al Salto, giusto per una ripicca personale …
Le guardie pattugliavano costantemente gli spalti, certe che a loro non sarebbe toccato di scendere in campo in quanto ultimo baluardo della città e si lasciavano andare a battute sarcastiche sui poveri figli di cani che impugnavano le armi per la prima volta e crepavano nella terra di nessuno, senza neppure la speranza di venire debitamente sepolti o bruciati. Toccante.
Chi rimaneva? Oh, ma certo! I nobili, discendenti dei ruffiani e grassatori che il Vecchio aveva riunito attorno a sé all’inizio della sua epica impresa! Tra tutti, loro erano quelli che si preoccupavano decisamente meno: a differenza di altre comunità, dove si era fatto di tutto per cancellare la macchia lasciata da origini non proprio cavalleresche e gesta che era meglio non comparissero in alcun annale, in quelle lande le antiche tradizioni familiari erano state amorevolmente coltivate e tramandate di generazione in generazione, più e meglio di un blasone, perfezionandole addirittura, arrivando a contendersi i giovani talenti che avrebbero contribuito a rafforzarne la potenza. Ad una simile condotta non era estranea l’influenza diretta e non del Vecchio: lui per primo non aveva mai rinnegato le proprie origini, vantandosi di essere quello che era, un semplice, onesto ladro che aveva incontrato sulla propria strada dei degni avversari, persone che sfidandolo avevano contribuito a forgiarne il carattere; le rare volte in cui era in vena di reminiscenze, era il termine esatto che utilizzava, sempre, quasi si paragonasse ad un pugnale tra le mani di un armaiolo. Digrignava i denti nel farlo, sputava fiele e il suo unico occhio fiammeggiava mentre inconsciamente accarezzava l’orbita vuota, ma si vedeva che ne andava fiero, ancora dopo tutti quegli anni.
Conoscendolo, si capiva che doveva trattarsi di un evento unico, quello che si era marchiato indelebilmente nella sua memoria, in tutta la sua persona, in realtà, ma lui non rivelava mai, a nessuno, chi o cosa gli fosse capitato; si poteva supporre che fosse avvenuto in gioventù, quasi di sicuro all’epoca in cui si era trascinato allo stremo delle forze sino alla porta settentrionale del Sobborgo – stando ai rari resoconti rimasti, la ferita all’occhio sanguinava ancora – ma nulla più. Si sussurrava che almeno in un’occasione, cent’anni prima, quell’essere ormai decrepito si fosse effettivamente confidato con qualcuno, in una stanza segreta nei sotterranei del palazzo, dietro una pletora di porte sbarrate: i bene informati vociferavano di un incarico particolare, affidato ad un professionista venuto da fuori, che però non era stato mai più rivisto una volta varcata la Porta della Coda. Morto, fuggito con l’anticipo, chissà. E comunque era ormai storia antica, nessuno se ne occupava più da decenni, quindi perché rimuginarci sopra e stuzzicare indebitamente ferite rimarginate, col rischio di riaprirle?
Oltretutto, era facile prevedere che ce ne sarebbero comunque state presto molte altre, da bendare e curare …

Passeggiare lungo la via verso la cima, tra l’andirivieni della gente in fermento per la politica o molto più prosaicamente per i propri affari personali. Da quando era giunta in città al seguito della Libera Compagnia Purpurea, alcuni giorni addietro, l’aveva resa un’abitudine, un passo dopo l’altro dalla porta della locanda, imboccando a caso i vicoli verso l’alto o verso il basso, a seconda dell’ispirazione del momento. Trovava rilassante osservare gli edifici, studiarne i particolari, le decorazioni, scovandone i punti deboli e le eventuali vie d’accesso, una piacevole diversione rispetto all’ordinario. Senza dare nell’occhio, stava raccogliendo quelle informazioni essenziali che le avrebbero garantito una mano vincente in caso di necessità.
Entrata in una taverna prossima alle mura basse, sedette ad un tavolo vicino alla finestra, ordinò del liquore e si mise a guardar fuori, ad osservare ad un tempo la gente per via e le nuvole che sfilavano in alto, sfiorando le cime dei monti.
Poco dopo, qualcuno la raggiunse, sedendosi di fronte a lei senza neppure chiedere il permesso, un uomo, a giudicare dal riflesso nel vetro, massiccio e un poco sgraziato.
«Ci conosciamo, per caso?»
Lei si voltò verso il nuovo arrivato, soppesandolo in silenzio per tre battiti di cuore: «Non direi, no.» spiegò con calma: «Sono in visita, non vivo qui.»
«Curioso! Avrei detto altrimenti: di solito riesco a riconoscere qualcuno dal modo in cui cammina, dai suoi gesti, dalla postura …»
«Pratico.» Un sorso di liquore, tipico del luogo, asprigno e forte come lo ricordava.
«Ti piace, quella roba?»
Inarcò un sopracciglio: «Ti?» rimarcò
«Uno come te non può certo permettersi di fare l’altezzoso: so che miri ad un obiettivo, ti sto seguendo da giorni»
«Ma davvero! E per ordine di chi, se posso?»
«Ti interessa davvero tanto?»
«Certamente! Devo pur sapere contro chi presentare un esposto alle autorità cittadine per essere stato molestato!»
«Non ti servirebbe a nulla.»
Significava che soggetto e destinatario dell’esposto con ogni probabilità coincidevano; buono a sapersi. «A me forse no, ma di sicuro servirebbe ancora meno al tuo capo: pensa a quanto sarebbe felice di vedersi esposto in pubblico …»
«Per finire sventrato in un vicolo? Tieni davvero tanto ai tuoi affari da rischiare di inimicarti gente tanto in alto?»
«Potrei ribaltare la domanda: i miei affari interessano così tanto a qualcuno da fargli rischiare un simile approccio?»
Gli altri avventori, nonostante tutto, cominciavano a prestare orecchio, l’usuale riservatezza iniziava a logorarsi vinta dalla pura e semplice, primitiva curiosità; sorrise al pensiero di aver suscitato interesse, lei che aveva fatto di tutto per restare anonima: «D’altra parte, non sono che un misero intagliatore, in viaggio di piacere, per una volta nella mia vita: cosa potrei mai aver fatto per arrecare offesa ad un nobile del posto? Qui non conosco nessuno!» Si strinse nelle spalle, un movimento perfettamente naturale che aveva visto molte volte per le strade, con innumerevoli sfumature ed ancor più significati. Nel suo caso, poteva benissimo venire interpretato come prova di innocenza e totale estraneità: «Posso andare per la mia strada, adesso, oppure devo fare cenno a quel drappello di guardie che ha fermato la ronda giusto qui fuori?» Si alzò, metà aggraziato, metà scocciato, lasciando alcune monete in bell’ordine sul piano del tavolo: «Oste! Il dovuto! E dire che trovavo delizioso il tuo esercizio: cercherò di tornare per finire di assaporare il tuo liquore come merita.»
«Aspetta! Non ho …»
«Finito? Non m’importa nulla che tu l’abbia o non l’abbia fatto: nonostante tu possa crederlo, io non ti devo nulla e non ho alcun obbligo verso colui che servi, perciò addio.» E chinandosi verso di lui, in modo che fosse l’unico ad udire: «Attento! La prossima volta non sarò così accomodante. Se ci sarà una prossima volta …» Uscito in strada, venne fermato dalle guardie: «Tutto a posto messere?»
«Solo un banale bisticcio causato da uno scambio di persona, ufficiale, nulla di serio, grazie. Una buona giornata a voi!» Si incamminò tranquilla lungo il lato della strada illuminato dal sole, godendone il tepore: era davvero una giornata magnifica!
Perché farla seguire, comunque? Dubitava fosse perché era stata riconosciuta, aveva scelto appositamente una forma mai usata in precedenza, quindi poteva trattarsi di una caccia alle spie, magari neppure consacrata con i crismi dell’ufficialità, bandita da personaggi che avevano tutto da guadagnare nel farsi belli agli occhi del Vecchio con un dono; poteva anche darsi l’opposto: se costoro fossero stati al soldo del nemico, avrebbero avuto tutto da perdere una volta scoperti ed ecco che chiunque apparisse sospetto ai loro occhi per un motivo o per l’altro poteva essere in realtà un agente incaricato dal Vecchio stesso di scoperchiare eventuali verminai in vista delle operazioni militari future. In entrambi i casi, gli sconosciuti avrebbero avuto il loro bel daffare a convincere chi di dovere della loro estraneità alla faccenda … perlomeno quelli che non si limitavano a trascorrere tutta la loro permanenza nella stanza di una locanda: “In fin dei conti,” rifletté sorridendo, “me la sono cercata, vero?
Però … sorrise nuovamente, infinitamente più divertita dall’idea che le era appena germogliata nella mente.
E se giocassi anch’io con loro? Quanto ne potrei ricavare?”  
Tanto valeva provare, non correva alcun rischio, dopo tutto: qualora il suo alter ego avesse avuto la peggio, non avrebbe dovuto fare altro che fingere, attendere un momento di completa solitudine ed assumere un’altra forma, giusto per essere certi di non insospettire la sua preda …
Continuando la passeggiata, si accertò che il suo pedinatore la stesse ancora diligentemente tallonando, mentre imboccava un vicolo che andava a morire contro la faccia interna delle mura; sfiorando con la punta delle dita la superficie levigata dei blocchi, ammirò la maestria dei tagliatori che erano stati capaci di realizzare quell’opera: non c’erano appigli, le commessure erano perfette e rinforzate con grappe di ferro dello spessore di un polso incassate per tre quarti. Guardandosi attorno, notò che le case a ridosso della cortina erano ad un piano, separate da quelle poste più all’interno da un vicolo sulla sinistra e da un’aia in terra battuta ricoperta di ghiaia sulla destra: oziosamente, si chiese se non si trattasse di una soluzione al problema delle macchine ossidionali, magari una difesa contro gli incendi, considerato che gli edifici più bassi erano tutti decisamente miseri, realizzati con legno e paglia di qualità piuttosto scadente; certo, peccato per i poveracci che le adibivano ad abitazione, ma che erano pochi miserabili a confronto della città intera? Persa nelle proprie considerazioni, attraversò l’aia a passo lento, quasi strascicato, scansando i cumuli di immondizia e di letame di cavallo, fino ad imboccare un lercio sentiero aperto tra le erbacce a ridosso delle mura “Il luogo perfetto per risolvere una questione personale con una bella imboscata, un rapimento e poi una lenta tortura, una volta raggiunto un posticino appartato lontano da occhi e orecchie indiscrete.” «Voi che ne pensate?» chiese voltandosi all’improvviso a fronteggiare i cinque ceffi che si erano uniti all’uomo che l’aveva avvicinata nella taverna. Quelli la fissarono interdetti per qualche secondo, non capivano a cosa si riferisse, prima di sguainare i pugnali e farsi avanti.
«Provo ad indovinare: vorresti terminare il discorso iniziato a quel tavolo e non riuscendoci da solo, ti sei portato dietro degli amici.» Teneva le braccia conserte, leggero sulle punte dei piedi, ridendo loro in faccia come se si trattasse di una situazione all’ordine del giorno fronteggiare un gruppetto di sicari armati. L’atteggiamento sfrontato le veniva naturale, un effetto collaterale dato dal suo essere separata da sé stessa, in un corpo che poteva muovere a piacimento, una sensazione inebriante che avrebbe racchiuso tra i suoi ricordi migliori e più cari. Questo però avrebbe dovuto aspettare: al momento doveva rispondere alla sfida che le era stata lanciata: “Sì, ma senza eccedere: sono qui per carpire informazioni, non per giocherellare con questi scimuniti.” La presenza che si faceva sentire, acuendo i suoi sensi e la sua smania di sangue.
Quando fosse tornata a sé stessa, avrebbe dovuto esaminare a fondo le tracce, scoprire di più su questo sfuggente altro-da-sé che abitava con lei e in lei … Oh! Nel frattempo, il pedinatore si era spinto in avanti minacciando di affondare il colpo! Che fare? Mantenere la finzione e continuare a recitare simulando una preoccupazione che assolutamente non provava, oppure reagire, dimostrando ai suoi avversari che esistevano situazioni che una coltellata non poteva risolvere? Spostandosi di lato – il giusto compromesso – cominciò a rendersi conto di quanto fosse in effetti difficile essere in possesso di un corpo che non poteva essere distrutto se non sotto particolarissime condizioni: il rischio di esagerare trascinati dall’impeto del momento era sempre presente, in agguato, col risultato di peggiorare la situazione … “Quasi un dilemma filosofico: povero principe Vahal! Non deve essere stata una scelta facile, quella di entrare a far parte scientemente di questo mondo! Ora capisco anche perché il mio signore decise di isolarsi e di … No! Questo proprio no, non voglio più ricordare.” Nel frattempo, il golem operava in autonomia, tracciando complessi arabeschi nella ghiaia dello slargo mentre giostrava con i suoi avversari, attento a parare colpi che avrebbero potuto danneggiarlo, schivandone la maggior parte, puntando a sfiancare quei poveri bastardi che senza saperlo avevano addentato un boccone troppo grosso per loro. “A che punto siamo arrivati? Oh, bene! Quasi tutti già ansimano di fatica, per forza!, guarda in che modo sconclusionato si muovono!” Un sorriso segreto le stirò le labbra, mentre valutava le sue opzioni: il glifo che li avrebbe paralizzati e resi semplici marionette in mano sua era completo, inscritto nella terra sotto i loro piedi, sarebbe bastato un gesto per attivarlo; c’erano anche altri incantesimi, nascosti nella sua complessa struttura, decisamente più letali, giusto per prevenire spiacevoli sorprese, ma dubitava di aver bisogno di attivare quelle sezioni. L’alternativa era soggiogarli con la forza: il golem avrebbe potuto iniziare a sferrare colpi in grado di abbattere le mura senza sforzo alcuno e nel giro di un paio di minuti lei si sarebbe ritrovata con sei corpi dalle ossa fracassate, ma sufficientemente vivi e coscienti da poter essere interrogati.
Astuzia o pura e semplice violenza? La scelta si presentava invero difficile …

A sera, mentre cenava nella sala comune della locanda in cui alloggiava, la notizia girava già da alcune ore: sei uomini erano stati condannati a morte dal tribunale speciale con l’accusa di favoreggiamento nei confronti del nemico, essendo stati colti in prossimità delle mura mentre si preparavano ad appiccare il fuoco a diversi edifici. La trama sembrava inspessirsi ad ogni minuto, perché i bene informati giuravano e spergiuravano che quella non fosse stata altro che una mossa preliminare per gettare l’intera città nel caos in vista del colpo di stato con il quale alcuni noti membri della cerchia di governo si preparavano a rovesciare – e probabilmente eliminare – il Vecchio. A confessarlo era stato il capo del drappello, in un momento in cui ancora possedeva una lingua per farlo, ed era stato evidentemente ritenuto degno di fede, perché le ronde che usualmente pattugliavano le strade erano state rafforzate da squadre di soldati che battevano le vie a caccia di sospettati. La situazione diventava potenzialmente esplosiva e già molti avventori si preparavano a lasciare la zona saldando il conto per andare in cerca di un passaggio presso una qualsiasi carovana o compagnia in partenza. Comunque fosse, il montone era particolarmente saporito, coperto com’era da una salsa a base di birra forte e i tuberi cotti sotto la brace, con quel vago sentore di fumo, creavano un piacevole contrasto sula lingua e sul palato; un ultimo sorso di vino ed era pronta ad accogliere il cortese invito a giocare a k’aal nel caravanserraglio della Libera Compagnia: “Si prospetta come una serata davvero interessante! Non so perché, ma l’idea di svuotare le tasche a quei poveretti è assai allettante, anche se forse sarà meglio limitarsi, prima che si insospettiscano.

La strada era illuminata a giorno, ad ogni crocicchio ardevano bracieri alti più di un uomo e torce e lanterne erano state aggiunte a quasi ogni facciata: “Bello! Chissà quale effetto farebbe illuminare così anche i miei cortili? Certo non potrei permettermi di utilizzare della legna – significherebbe inviare qualcuno a procurarla, rivelandomi – però potrei sempre sostituirla con qualche altro metodo, più duraturo … Ma sarebbe poi lo stesso? Forse no, vero?
Alle persone che incrociava, poche, rivolgeva un cenno educato di saluto, ottenendone in risposta il più delle volte un semplice grugnito: la tensione era palpabile, e i corpi appesi per i piedi all’archivolto delle varie porte non contribuivano a dissiparla; la cosa buffa era che, senza volerlo, aveva realmente scoperto una cospirazione: per paradossale che fosse, stava aiutando il Vecchio così come lo danneggiava, distraendo la sua attenzione da quello che avrebbe dovuto rimanere il suo unico obiettivo. Ridacchiò, mentre procedeva veloce: l’obiettivo, lo scopo principe del piccoletto, di tutte le sue manovre, ovviamente, poteva essere uno ed uno soltanto e lei lo conosceva alla perfezione…

CAPITOLO NOVE – LA MORTE DELLO SCORPIONE

Trascorse un mese dall’epurazione.
Tanto ci volle perché il Vecchio si ritenesse soddisfatto.
Non sicuro, no, di quello non aveva bisogno, i pochi miserabili bastardi che avevano contato sulla sua senilità per tentare il colpo grosso ed usurpare il potere erano stati dei funzionari che ricoprivano anche cariche elevate, nel regno, con importanti incarichi di governo, ma nulla che non potesse essere sostituito: non erano come lui, o come i suoi associati più fidati: troppo teneri, rammolliti dal lusso e rovinati dalla cupidigia.
Sostituibili, quindi, in maniera rapida, d’accordo, ma di sicuro tutto fuorché indolore … per loro.
La soddisfazione nasceva dal fatto che, nonostante le loro macchinazioni, le potenze che da sempre tentavano di esautorarlo nella persona dei loro rappresentanti avevano dovuto ancora una volta strofinare il naso sul loro fallimento, constatando con sommo scorno che nulla era cambiato nei suoi piani.
I preparativi per la spedizione procedevano a ritmo serrato, in segreto, mascherati dalle manovre militari che il suo esercito improvvisato portava avanti in piena vista a beneficio degli allocchi. Contava di riuscire a darla a bere ai vari ambasciatori, puntando il loro sguardo verso la sua mano destra armata di stiletto mentre li sgarrettava con la spada che reggeva nella sinistra: era il metodo che aveva fatto proprio quand’era riuscito a fuggire dalla montagna, il suo metodo, quello che il mostro aveva utilizzato per massacrare i suoi compagni uno ad uno ed ora lui glielo avrebbe ritorto contro, servendosene per distruggerlo!
C’era una sorta di giustizia, in questo, avrebbe anche potuto morire serenamente, dopo, senza rimpianti di sorta.
Le gallerie … ancora si rivoltolava nel letto, certe notti, rivivendo quei momenti nei suoi incubi, cosciente del fatto di essere tutt’ora inseguito, tutt’ora nient’altro che un giocattolo …
Era questa sensazione, di essere un semplice oggetto, nonostante quello che aveva conseguito, a mandarlo in bestia: si rendeva perfettamente conto che si trattava del suo sprone, il pungolo che l’aveva sostenuto sino a quel momento, ma non bastava di certo a consolarlo.
Doveva vendicarsi!
Questo era assodato.
  
L’ultimo battaglione sollevava polvere in lontananza, diretto al passo che conduceva alla Valle Traversa e da lì ai territori oltre le Zanne: molte paia di occhi attenti ne avevano seguito i movimenti ed avrebbero continuato a seguirli, ansiosi, a loro volta spiati dagli appositi reparti che il Vecchio aveva saggiamente istituito sin dai primi anni del suo regno, gente capace, arruolata tra i migliori della sua cerchia di conoscenze, in un intrico di finte e contro finte che aveva l’unico scopo di tenere i curiosi lontani dall’altopiano, dal Salto e soprattutto dalla valle del Sobborgo. Il traffico commerciale già rarefatto a causa delle voci seguite ai preparativi militari, ora che tutti gli interessati prestavano attenzione a ciò che stava avvenendo tra le Zanne, piccoli drappelli di uomini furtivi presero a sbucare da pozzi di miniera e grotte che si aprivano fuori vista nei fianchi delle colline, al crepuscolo, aggirando le fortificazioni ad oriente lungo sentieri a malapena tracciati nell’erica; attenti a sfuggire all’occhio per altro non troppo vigile delle scolte del Sobborgo, raggiunsero alla spicciolata l’imboccatura del bosco e da lì si avviarono in formazione verso nord, l’unico rumore quello del ruscello, perché quella notte l’usuale vento di montagna aveva stranamente deciso di non soffiare affatto. Procedevano sicuri alla luce delle stelle, baldanzosi persino, fidando nelle proprie sperimentate capacità di gestire in pratica qualsiasi tipo di situazione – non per niente costituivano l’élite, la guardia personale del Vecchio, selezionati uno per uno dall’uomo che veneravano alla stregua di una divinità; la loro missione era semplice eppure complessa: dovevano raggiungere la fine del sentiero che si arrampicava tra le Braccia e tornare a riferirne al Vecchio in persona. Se vi fossero riusciti, altri avrebbero seguito le loro orme, pesantemente armati, per dare l’assalto a ciò che avrebbero trovato in cima alla montagna, una schiera dopo l’altra, sino alla completa capitolazione del bersaglio; solo allora, quando avesse ricevuto la notizia che attendeva letteralmente da secoli, il loro signore avrebbe intrapreso egli stesso il viaggio per poter sferrare personalmente il colpo di grazia alla sua nemesi.
Nel pregustare quel fatidico momento, la mano segnata dal tempo strinse con forza innaturale il calice di vino che stava sorbendo, facendone schizzare alcune gocce carminio sul pavimento: «Ci riusciranno! Devono riuscirci!» mormorò alla stanza vuota attorno a lui, la stessa nella quale aveva accolto il suo ospite molti e molti anni prima. Gli arazzi non risposero, ovviamente, ma poco importava, lui non stava di certo diventando pazzo. Aveva fatto cercare quel bastardo che, unico, l’aveva fregato, intascando l’anticipo per poi non farsi più rivedere: i suoi segugi avevano girato per ogni dove nel continente, fiutando le più flebili tracce, sino a trovare il suo nascondiglio. «Ed ecco la prima stranezza: non si stava affatto nascondendo, lui, anzi!» Un sorso di vino, per render sopportabile l’attesa: «Sotto contratto, stava ottemperando in maniera esemplare agli impegni presi con un altro contraente, nel meridione, falciando avversari come fossero grano maturo. Il trattamento che riservò al primo dei miei agenti che tentò non di catturarlo, ma soltanto di ostacolare la sua avanzata … Dei! Anche considerando la coloritura data al resoconto dal terrore, capisco benissimo come si sia guadagnato la sua fama!»
Incurante delle informazioni raccolte nel corso della ricerca, l’idiota aveva pensato bene di procedere da solo, per trarre il massimo beneficio dal conseguimento dell’obiettivo; certamente sperava di ottenere il plauso suo e dei membri più in vista della cerchia di governo. Trattandosi di un esperto ladro che si era distinto per la sua abilità nel maneggiare le armi, probabilmente contava di cogliere di sorpresa il soggetto e di sopraffarlo prima che potesse reagire; purtroppo per lui, le cose erano andate in maniera del tutto opposta: era stato riconsegnato direttamente alla porta del villaggio che avevano scelto come base, steso su di una barella improvvisata, delirante per la febbre e il dolore di almeno una trentina di fratture e ferite varie sparse in tutto il corpo, curiosamente nessuna delle quali mortale. Appiccato al petto con un chiodo conficcato nello sterno, un cartiglio lordo di sangue, con l’esplicita richiesta di lasciar perdere e di tornarsene da dove erano venuti.
L’uomo non si riprese mai del tutto – le ferite guarirono, col tempo, lasciandolo comunque storpio – ma quello che non riuscì assolutamente a cancellare dalla propria mente fu il puro, sottile, raffinato terrore che il semplice ricordo dell’esperienza subita aveva instillato in lui: la larva che era diventato tremava alla vista di un’ombra appena più scura intravista all’angolo di un vicolo, urlava di terrore nel mezzo della notte, tremava al punto da non riuscire a tenere in mano il boccale di liquore forte con il quale tentava inutilmente di stordirsi per annegare i ricordi e concedersi un breve periodo di pace; aveva finito per tagliarsi la gola in uno stanzino abbandonato, con un sorriso contorto stampato su ciò che rimaneva delle labbra.
«Lo descriveva come un demone della guerra, implacabile, capace di trarre divertimento unicamente dal dolore inflitto alle sue vittime …» Il Vecchio scosse il capo, un gesto, per una volta tanto, malinconico: «Eppure, chissà perché quando i miei altri inviati lo avvicinarono sotto il segno di tregua, una volta venuti a sapere che il suo incarico era terminato, li accolse con modi garbati, quasi con cortesia frammista all’innegabile sicurezza del vero professionista. Quando gli chiesero ragione del suo comportamento, stando al rapporto sottolineò seccamente che non era avvezzo a venire interrotto nel bel mezzo di un lavoro, tanto meno da uno talmente temerario da tentare di assalirlo alle spalle: una risposta che, devo ammetterlo, comprendo alla perfezione; però, quando gli spiegarono che loro si riferivano all’altro incarico, quello che aveva accettato da parte mia, affermò di non saperne nulla e non solo di non essere mai stato in questa nostra città, ma di non avere mai neppure considerato la possibilità di comprendere il nord di Thereia nel suo raggio d’azione. Arrivò a giurarlo sul proprio onore!»
Tamburellando con le dita sul bracciolo, il Vecchio rifletté a lungo, come aveva già fatto molte altre volte in passato: “Un impostore? Ma era identico a lui! Ho visto i ritratti! Era lui! Eppure non lo era: le informazioni raccolte in seguito lo hanno confermato. Chi? Chi avrebbe potuto perpetrare un simile scherzo? Lui? Possibile? Si sarebbe spinto a tanto? Ma perché?
Un rovello continuo, implacabile, giorno dopo giorno, per decenni.
A partire da quel fatidico giorno, aveva dedicato tutto sé stesso al perseguimento del suo obiettivo, ogni sua azione tesa a raggiungerlo: tutte le macchinazioni, le manovre politiche, la corruzione, gli assassini assoldati nella notte per ammorbidire gli oppositori più ostici, la costituzione del regno, tutto doveva servire a sconfiggere quella stramaledetta creatura, l’impresa che avrebbe coronato una vita di faticose conquiste, radere al suolo la sua dimora e cospargerne di sale le rovine l’avrebbe fatto gioire dal profondo dell’animo. Allora e solo allora avrebbe potuto allentare la presa sulla vita e morire, vedendo appagato il suo unico, vero desiderio!

Lui … colse un rumore flebile, un clangore attutito dietro la porta, prodotto da un oggetto metallico lasciato cadere inavvertitamente sul pavimento di pietra, forse un’arma. Lo scricchiolio caratteristico del cuoio conciato che si adatta, mentre chi lo indossa si china a raccogliere l’oggetto perduto. Deglutì a vuoto, la gola secca, la destra corsa d’istinto al pugnale: “C’è qualcuno, là fuori, e non è una guardia …”  
Ne era certo, le sue guardie non indossavano cuoio, non durante il servizio.
Passi felpati dietro il trono, ora, accompagnati dal fruscio degli arazzi e un nuovo ticchettio metallico, anelli di corazza, questa volta, ad accompagnare, appena appena udibile, un respirare lento e profondo, leggermente affannato.
Non di nuovo, dei! Non un’altra volta!
Non si voltò neppure a cercare l’intruso, sapeva perfettamente che non avrebbe visto nulla e nessuno.
Si diede dello stupido per essersi lasciato intimorire: “Cosa vado a pensare! Si tratterà dell’ennesimo sicario inviato a prendersi cura del sottoscritto! Non può che essere così!
Scivolando adagio lungo le pareti, cercando di cogliere tutta la stanza in un solo sguardo, il Vecchio raggiunse il punto in cui si apriva il più vicino di almeno una dozzina di passaggi segreti dissimulati nelle pareti, infilandosi silenzioso nel tunnel che nessun altro conosceva a parte lui: “Mi dispiace per te, stupido: capisco che tu stia svolgendo un incarico assegnatoti da altri, ma ciò non toglie che tu stia cercando di assassinarmi e questo non posso permetterlo!” Avanzava nel buio sfiorando la parete per orientarsi, sapeva che presto sarebbe sbucato in una delle armerie sotterranee da una porta che si apriva dietro una rastrelliera: “Penseranno i miei uomini, a trovarti e a fare di te l’ennesimo esempio per tutti! Non saprai nemmeno cosa ti abbia colpito, vedrai!
Un odore muschiato, fumoso, non la solita muffa: la brezza forzata che ricambiava l’aria nei tunnel mantenendola respirabile l’aveva raccolto in qualche punto più avanti spingendolo verso di lui, solleticando il vago ricordo di qualcosa che si rifiutava di emergere chiaramente; amplificato, il rumore di passi calzati di cuoio si muoveva con lui, senza accorciare né allungare le distanze: “Impossibile! Eppure non sono allucinato: li odo distintamente. Ma come avranno fatto ad entrare? E dove sono finite le guardie? Quando avrò risolto la cosa, caverò loro la pelle, lo giuro, una strisciolina alla volta!
Si fermò ad un incrocio, per valutare la situazione e per ascoltare: i passi si erano interrotti con lui, come c’era da aspettarsi, ed erano stati sostituiti da un mormorio, intercalato da risatine divertite. “Ancora dieci passi e non riderete più, ve lo garantisco!” Riprese ad avanzare, contando mentalmente: “Uno … due … tre … Sono quasi arrivato … sei … sette … Avanti! … nove … dieci … undici … dodici … Possibile che mi sia sbagliato? … sedici … diciassette … No.”  
Non poteva aver sbagliato strada: quel passaggio correva rettilineo sino ad intersecarne uno più ampio e proseguiva per altri dieci passi prima di terminare in una parete cieca che nascondeva una porta. Solo che la parete ora sembrava scomparsa, davanti alle sue mani brancolanti si stendeva solo tenebra; alle sue spalle, le risatine mormoranti lo irridevano, solleticando la sua montante paura. Tornare indietro? Non poteva, sarebbe finito tra le braccia dei sicari; avanzare, allora, d’accordo, ma verso dove? Fino a quando? E quell’odore … cosa gli ricordava? Spremendosi le meningi, decise di tornare sui suoi passi quel tanto che bastava ad imboccare il tunnel più ampio, uno delle decine destinate a permettere ai suoi uomini di muoversi senza farsi vedere per tutta la città, molti dei quali sfociavano all’aperto tra le colline circostanti. “Devo ammettere che il tentativo è stato ben pianificato, in un momento in cui questa mia rete è poco frequentata. Tanto di cappello, signori miei! Ma eviterei di vantarmene troppo presto: non mi avrete e, siatene certi, troverò la talpa che vi ha condotti sin qui!” Un passo dopo l’altro, sempre avanti, a tratti incespicando sulle irregolarità del fondo, rare volte scalciando oggetti che rotolavano via nel buio, l’odore ora più debole, ora più intenso nelle narici, odore di stalla ma non una stalla comune, lì non governavano di certo mucche o cavalli. “Che razza di bestia può impestare a questo modo un intero sotterraneo?!” si chiese mentre si fermava ad un bivio che non ricordava: la sua mano tastava oltre l’angolo in cerca di qualche contatto familiare, qualcosa che l’aiutasse a ritrovare l’orientamento, senza risultato. Le risatine salirono di tono, avvicinandosi.
Non posso rimanere qui in eterno!” si disse, procedendo dritto in avanti: dopo pochi passi, ritrovando il muro alla sua sinistra, tirò un sospiro di sollievo e prese ad avanzare più spedito, anche perché gli pareva di non udire più i suoi inseguitori. “Li ho persi! Oppure si sono soltanto fatti più furbi … No! Niente disfattismi: ne uscirò incolume e dopo loro me la pagheranno con gli interessi! Loro e i loro mandanti.”  
Udiva ancora lo scalpiccio degli inseguitori, a volte vicino, altre in distanza, come se fossero stati prossimi a perdere le sue tracce per poi ritrovarle fortunosamente poco dopo e come costante sottofondo il loro mormorare e ridacchiare sommesso e mormorare di nuovo, snervante ed offensivo. “Dannati! Sembra quasi che lo facciano apposta! Si stanno divertendo.
Quel pensiero lo fulminò, costringendolo a fermarsi: si stavano realmente divertendo! Davvero!
Loro erano a caccia e lui era la preda, braccata all’interno della sua stessa casa, un topo che si nasconde al gatto nelle intercapedini dei muri: “No! Io non sono un topo! Non questa volta! Non mi avranno appunto perché questa è casa mia, io so dove sto andando e …” Lo strattone improvviso all’altezza della vita per poco non lo fece capitombolare faccia a terra: “Cosa diamine …
Il borsello di marocchino, assicurato da robusti passanti alla cintura, si era impigliato in un oggetto lungo e sottile, che sporgeva dalla parete, come il manico di una torcia oppure … “Una leva … Ma non è possibile: i passaggi, qua sotto, si aprono solamente con l’apposita chiave, non c’è alcuna stramaledetta leva!
Districatosi dall’intoppo, stava per riprendere il cammino quando un nuovo rumore superò la sua soglia d’attenzione, il suono di passi pesanti e un poco strascicati, accompagnati dal picchiettio ritmato di un bastone ferrato: qualcuno si stava avvicinando, avvolto nel fetore di putrefazione che accompagna gli animali da preda, l’unica differenza essendo che questa volta il predatore aveva gambe e braccia al posto delle zampe.
Lui conosceva quei passi, sin troppo bene: sapeva che era impossibile, ma non aveva alcuna intenzione di rimanere lì a sincerarsene, motivo per cui voltò decisamente le spalle al rumore avanzante e partì di gran carriera, senza badare troppo alla direzione, incespicando sempre più di frequente sul fondo sconnesso coperto di un amalgama di polvere, ragnatele e una fanghiglia viscosa di cui preferiva non immaginare l’origine. Ormai l’idea del sicario prezzolato che si era fatto originariamente si era del tutto sfaldata, sostituita dalla cruda consapevolezza di essere braccato da qualcosa di molto più pericoloso: “È pazzesco, lo so, ma questi tunnel non corrono nei sotterranei della città, nessuna mappa li riporterebbe perché non esistono!
Ansimava, prossimo allo sfinimento, il corpo dolorante per la miriade di piccole contusioni e graffi causati dagli urti con la roccia a malapena sgrossata, in cerca di un passaggio conosciuto che lo riportasse alla realtà, spezzando la morsa dell’incubo che lo inseguiva un passo dopo l’altro, appoggiandosi pesantemente al manico ferrato di un’ascia da battaglia.
L’aria nel frattempo si era fatta più fresca, segno che l’uscita doveva essere vicina: perso com’era nelle sue considerazioni, evidentemente non si era reso conto di aver già percorsa tanta strada.
Ancora un poco! Ce l’ho fatta, dannato bastardo, in barba alle tue aspettative! Ho vinto io, questa volta!” L’enorme sala a cupola in cui sfociava il passaggio che stava percorrendo era tenuamente illuminata da singole colonnine di cristallo incastonate nelle pareti: vide le centinaia, migliaia di ombre assiepate su ogni superficie osservarlo attentamente con occhi invisibili, le udì mormorare, ridacchiare e mormorare di nuovo, muovendosi all’unisono per accoglierlo in mezzo a loro, facendo ala per permettergli di vedere chiaramente il suo ospite staccarsi con grazia dal fregio posto al centro della parete opposta. «Tu!» Quasi un rantolo, strappato a forza dalla gola: il misto di rabbia, odio e timore che provava in quel momento rischiava di stroncarlo lì sui due piedi, bloccandogli il respiro nel petto; si impose di calmarsi, un colpo apoplettico avrebbe unicamente aumentato il divertimento della creatura che lo fronteggiava e del suo folto pubblico – o forse no, forse ne sarebbe rimasta delusa, in quanto le avrebbe impedito di giocare ancora un po’ con lui: «Come hai fatto ad arrivare quaggiù? Le guardie ...» Si morse la lingua: arrivati a quel punto, non era affatto sicuro di trovarsi ancora nei sotterranei della città e se anche così fosse stato, le sue guardie ormai non erano altro che una sequela di cadaveri abbandonati in stanze e corridoi, se non già un cumulo di cenere preda delle correnti d’aria. «Stai cercando me, non è così? Per terminare il lavoro! Ti rode non esserci riuscito la prima volta! Ti rode che io sia riuscito a sopravvivere e prosperare. Sai perché? Unicamente per prendermi il gusto della rivincita! Potrai anche uccidermi, ma io distruggerò te e la tua stramaledetta dimora! Hai capito?! I miei uomini …»
«I tuoi uomini decorano il sentiero che sale al portale, piccolo ladro: graziose aggiunte al paesaggio, niente di più.» Lo scorpione avanzò leggero e aggraziato, le forme confuse in un tremolio appena accennato: il Vecchio rimase impietrito ad osservare la trasformazione di quella gigantesca creatura in un essere umano, un volto che ricordava perfettamente, una persona che era convito l’avesse raggirato e tradito: così era stato infatti, ma in un modo ben più profondo e crudele di quanto avrebbe mai potuto credere.
«Sai, ammetto che ho seguito la tua ascesa con estremo interesse e grande soddisfazione nel corso degli anni – a voler essere del tutto sinceri è un po’ anche merito mio, che ti ho fatto da sprone – e sei libero di non credermi ma mi fa un immenso piacere trovarti in salute, vispo e arzillo nonostante l’età. In fondo, la nostra è un’amicizia davvero di lunga data, sarai d’accordo con me. Strano a dirsi, provo addirittura dell’affetto per te, nonostante tu ti sia comportato in maniera tutto sommato incivile, all’epoca del nostro primo incontro: trattare una signora a quel modo, scarpe sporche, abiti luridi e tutto il resto! Per non parlare del vostro tentativo di furto: non sta bene introdursi in casa d’altri per depredarla, non è per nulla educato.»
Parlando, il golem era giunto ad un passo da lui, circondato dalle ombre viventi che costituivano il suo seguito; affabile, si chinò in avanti ad osservarlo da vicino, una luce di vivo interesse nello sguardo: «Sei un personaggio particolare, sai? Decisamente atipico.»
Gli girò attorno, come se volesse valutare le sue effettive qualità in vista di un acquisto. Non era l’atteggiamento che si era aspettato, assolutamente: «Tu chi sei?» chiese alla figura alta e allampanata alle sue spalle. «Veramente? Sei perspicace, piccolo ladro.» Il suo avversario, tornato a fronteggiarlo, sorrise come un bambino; in effetti, ora era un bambino, una spanna più basso del Vecchio: «La realtà può essere molto diversa da ciò che percepiamo, a volte. Molto, molto diversa …» Un saltello a destra, due subito a sinistra, una piroetta: «Io sono … io.» Alzò una mano a prevenire l’obiezione dell’altro: «Aspetta! Non è facile da spiegare: io sono un guardiano.»
«Lo sapevo!»
«Ma non nel senso che tu intendi: io sono nata per proteggere i segreti del mio signore. Quello che vedi, quello che odii con tutto il tuo essere, è una mera appendice creata allo scopo di permettermi di conoscere meglio il mondo che mi circonda.»
«Impossibile! Saresti …»
«R’Hwethr. Piacere di conoscerti, piccolo ladro. Dimmi, tu sei uno che ama il rischio?»
«Soltanto se conduce alla vendetta.»
 «Monotono, ma comprensibile.»
 
Chiacchiere da taverna, discorsi di gente abituata a spararle davvero grosse, eccitata com’era dal vino o dalla birra: chi raccontava di aver assistito alla partenza dei soldati per il fronte, chi si vantava di averne comandati in gioventù e quelli che si gloriavano di aver scansato l’arruolamento con questa o quella scusa, una più inverosimile dell’altra. C’erano persino coloro i quali giuravano di aver scorto figure furtive sgusciare da pozzi e pertugi nelle mura, dirette in gran segreto chissà dove, verso nord. Gli avventori annuivano, ridevano fragorosamente ubriachi e chiamavano a gran voce le cameriere per un altro giro: fuori faceva freddo, regnava un’atmosfera pesante e, tutto sommato, anche se non dubitavano che sarebbe andata esattamente come tutte le altre volte, la guerra appena iniziata un po’ di timore lo incuteva comunque, così che era molto meglio rimanersene al caldo in compagnia di un boccale, piuttosto che aggirarsi per le vie. Col passare delle ore, alcuni avventori, colmi di vino e birra più delle botti da cui le bevande erano state spillate, presero a farneticare di gruppi di ombre che scivolavano lungo la strada, confondendosi con la nebbiolina che aveva iniziato a nascondere le facciate, esalando quasi trasparente dalle bocche di lupo che bordavano lo zoccolo dei camminamenti pedonali: a quelli che obiettavano trattarsi dell’effetto dei bracieri e delle lanterne che ondeggiavano al vento, veniva risposto tra un biascichio e l’altro che queste ombre erano del tutto straordinarie, perché si permettevano addirittura di sbirciare dalle finestre, sogghignando e indicando a caso le persone all’interno. Al che, le risate crescevano di intensità a tal punto che il soffitto tremava ed era impossibile udirsi a distanza di gomito.
Le ronde lungo i bastioni, sulle porte, le guardie stanziate davanti ai massicci battenti delle dimore dei signori, tutti questi uomini che espletavano il loro dovere notturno, nel frattempo, si stavano rendendo conto che l’aria della città si era fatta più pesante col trascorrere delle ore e non in senso figurato: la visibilità calava rapidamente, mentre un odore curioso, penetrante anche se non del tutto spiacevole, invadeva le strade, avviluppandosi in lunghe, lente spire che parevano vive attorno alle colonne. La nebbia s’infittì e prese a ristagnare lungo la via, trattenuta e incanalata dagli edifici, tanto che nessuno, quella notte ebbe il coraggio di uscire o tornare a casa: poco alla volta gli avventori crollarono, chi sopra chi sotto il tavolo, svenuti, addormentati, la differenza essendo costituita unicamente dalla profondità del respiro; gli osti lasciarono fare e andarono a dormire, avrebbero semplicemente caricato il pernottamento la mattina seguente, al momento di saldare il conto. La mattina, la nebbia era svanita e il sole brillava attraverso le finestre, riflesso dal candore della prima vera gelata autunnale: nelle camere da letto, nelle stanze della servitù, nelle sale comuni delle taverne, la gente cominciò a sbadigliare, a stiracchiarsi, cercando di scacciare il sonno residuo strofinandosi gli occhi, secondo consuetudine; nessuno, in un primo momento, ritenne strano che alcune persone avessero il sonno più profondo degli altri, poteva capitare: presero a scuotere i vicini per svegliarli, dapprima con una certa delicatezza, poi in maniera sempre più rude, fino a rivoltarli. I primi ad urlare furono i bambini che scoprirono di essere rimasti intrappolati nei loro incubi peggiori, seguiti a ruota da quanti avevano perso una persona cara: a caso, in tutta la città, nella notte centinaia di abitanti erano morti, i volti perfetti ma neri e lucidi come ossidiana, l’espressione vagamente stupefatta come a chiedersi “Perché io?
Come sonnambuli, gli abitanti presero a vagare su e giù per la collina, cercando una qualsiasi risposta ai propri interrogativi, uno sfogo all’ira che li pervadeva; come che fu, finirono per gravitare attorno alla punta più alta della collina, assiepati nella grande piazza antistante il palazzo del Vecchio, dove però tutto taceva: non una guardia, un messo frettoloso diretto chissà dove, nulla e nessuno, per ore e ore, solo silenzio e la sensazione che tutto fosse cambiato, se per il meglio o per il peggio lo avrebbero capito in seguito. Quelli che ricoprivano cariche nell’amministrazione, le persone influenti del quartiere commerciale, gente con la testa sulle spalle, compresero che il rimpianto era un lusso che loro, la città al completo, non potevano assolutamente concedersi, non con tutti i predatori che volteggiavano sulle loro teste, soprattutto di fronte alla minaccia di un imminente attacco in forze oltre le Zanne. Corrieri vennero inviati a spron battuto per comunicare alle truppe in marcia di attestarsi ai confini, per ordinare loro di difendere ogni palmo di terreno: dovevano affrettarsi, essere pronti prima che la notizia della catastrofe filtrasse ai loro amati vicini d’oltralpe, a rallentarne la diffusione avrebbero pensato loro, impedendo a chiunque di varcare le mura basse. Non sarebbe stata una passeggiata, ma sarebbero riusciti nel loro intento, ne andava della loro sopravvivenza e a memoria d’uomo, questo aveva sempre costituito un ottimo incentivo.
Nei sotterranei, chiuso dietro una porta di massiccia quercia listata di ferro, un piccolo corpo riccamente abbigliato giaceva rattrappito su di un trono scolpito, lo sguardo fisso alla volta, un ghigno soddisfatto a stirargli le labbra. Curiosamente, i suoi due occhi apparivano diversi, giallastro e venato il destro, l’occhio di un vecchio decrepito, limpido e acuto il sinistro, quasi appartenesse ad un’altra persona, ad un altro tempo …

EPILOGO – LA DANZA FIAMMEGGIANTE

Avvenne durante un fosco pomeriggio d’inverno: un piccolo esercito di un migliaio di uomini pesantemente armati oltrepassò la Via proveniente dal Sud. Non erano del posto: marciavano incuranti lungo la Strada Vecchia.
Schierati su due lunghe colonne, avanzarono al passo sino a portarsi a distanza di sicurezza dalla cinta, facendo da scorta a due alti ufficiali in veste di ambasciatori; le loro richieste erano semplici, quasi banali: le autorità cittadine restituissero immediatamente il manufatto che avevano indebitamente sottratto e loro sarebbero tornati pacificamente al loro paese natio. Ciò detto, rientrarono tra le loro file senza più voltarsi indietro, ordinando agli uomini di accamparsi in modo tale da bloccare accuratamente l’accesso; evidentemente, erano pratici della zona, perché non si presero il disturbo di predisporre sentinelle lungo i bordi della valle, lì le fortificazioni erano state concepite per essere naturalmente inespugnabili: si limitarono ad inviare un corposo distaccamento all’estremità settentrionale, con grande scorno degli abitanti che già speravano di poter usufruire di una comoda via di fuga e rifornimento. Prima del calar del sole, l’assedio era un fatto compiuto, una realtà sgradevole che il Consiglio cittadino, riunitosi nella casa del più benestante tra i suoi membri, doveva affrontare suo malgrado; la faccenda risultava complicata, la difficoltà principale consistendo nel fatto che nessuno di loro, nessuno in città, aveva la benché minima idea di quale fosse il fantomatico oggetto che avrebbero dovuto restituire!
Un rapido sopralluogo presso i numerosi ricettatori non aveva risolto alcunché: tutto quello che era stato acquisito negli ultimi mesi era di provenienza nota, contratti ufficiali oppure occasioni capitate agli agenti accampati fuori città; si trattava quasi esclusivamente di gioielleria, qualche arredo da viaggio, monete ed equipaggiamenti vari predati qua e là, ma niente che potesse far presagire una simile reazione da parte di chiunque. Si trattava dunque di un mero pretesto per rivalersi sulla città, era evidente, magari strappando con la forza qualche concessione commerciale o un diritto di passaggio.
Giunti a questa somma conclusione, i convenuti si strinsero coralmente nelle spalle e decisero di inviare messaggi in codice alle numerose bande di briganti – i summenzionati agenti – che infestavano le colline circostanti: allettati dall’offerta di un congruo compenso e dal miraggio del saccheggio, si sarebbero gettati sugli stranieri come cani su un osso, facendone strage. Fiduciosi nella pronta risoluzione della questione, i maggiorenti si dedicarono con trasporto ai loro svaghi abituali, chi giocando, chi bevendo, in un caos controllato di sottoposti che doveva tra l’altro far comprendere ai disgraziati accampati al freddo fuori le mura che la loro arrogante minaccia, in realtà, non aveva sortito il benché minimo effetto.

Alla fioca luce della prima luna, le ronde sui bastioni imprecavano sommessamente contro la necessità che le obbligava a rimanere lassù a sorvegliare le mosse del nemico, invece di trascorrere la notte nelle loro bettole predilette, tanto più che non c’era molto altro da vedere a parte il brillio delle decine di fuochi da campo che ardevano nella valle. Alcune ore più tardi, una delle sentinelle, guardando distrattamente oltre lo spalto, si accorse che la luce dei falò si era intensificata: numerose deboli luci, come di fiaccole, si avvicinavano dal lato della vecchia stazione di posta, incurvandosi in un lungo arco che copriva buona parte dell’orizzonte meridionale; eccitatissimo, mandò a chiamare un superiore, riferendogli con parole mozze ciò che aveva appena scoperto. Se si aspettava una ricompensa o una lode, però, rimase amaramente deluso: l’ufficiale si limitò a dare a sua volta una lunga occhiata all’orizzonte, prima di scendere dagli spalti per andare a riferire al Consiglio, che nel frattempo si era riunito nel più lussuoso bordello della città; ricevuta la notizia, tutti i membri si fregarono le mani soddisfatti, convinti com’erano che i rinforzi fossero in arrivo ed ordinarono alla maitresse di stappare altre bottiglie del migliore, per festeggiare l’ormai prossima liberazione. Il baccano, già alto al limite della sopportazione umana, crebbe ad un livello impensabile, spargendosi per le vie come un’ondata di piena.
Questo a mezzanotte; due ore più tardi, nel momento previsto per la calata dei predoni sulle retrovie nemiche, tutti quelli che ancora riuscivano a reggersi in piedi si diedero convegno sulle mura, ansiosi di assistere ad una sana, eccitante carneficina: le fiammelle erano giunte al limite esterno dell’accampamento, accostandosi a formare lunghe file in movimento concentrico le une rispetto alle altre; la cosa strana era che non sembravano seguire le consuete traiettorie di una torcia usata da un uomo per appiccare il fuoco ad un oggetto, tutt’altro! Evidentemente, qualcosa non stava andando per il verso giusto: sotto gli sguardi sempre più lucidi e seri degli spettatori, le fiamme, dotate di vita propria, snidarono le vittime dalle loro tende, attecchirono a tutto quanto trovarono sulla loro strada, persino il metallo delle armature, ardendo e bruciando con calore infernale, fondendo tra loro, prima di incenerirli, rocce, uomini, tende e cavalli, crescendo e moltiplicandosi sino a diventare un immenso muro di fuoco che superava in altezza i bastioni; in quel ribollire rosso-dorato, gli uomini videro occhi, gli sguardi terrorizzati e supplichevoli dei soldati, quei pochi che ancora potevano vantare una forma riconoscibile prima di essere spazzati via dalla furia del fuoco. Vennero a riferire che una scena molto simile si stava svolgendo di fronte al bastione settentrionale e che pareva non ci fossero superstiti, non con quella mostruosità che imperversava là fuori: il Consiglio, sebbene un po’ scosso, si gloriò all’unanimità del proprio successo, vantandosi della lungimiranza dimostrata nell’intrattenere stretti rapporti con chi viveva fuori le mura – mai avrebbero ammesso che si trattava della più lurida feccia esistente, gente che loro non si sarebbero abbassati neppure a guardare – e questi ne erano i risultati, sotto gli occhi di tutti!
Arrivarono al punto di dichiarare libera vendita il resto di quella notte ed il giorno successivo, il che stava a significare che chiunque avrebbe potuto bere e divertirsi gratuitamente in qualsiasi locale della città, in un’orgia sfrenata indetta per festeggiare la vittoria, iniziativa cui tutti aderirono col massimo impegno.
Nessuno, tra i presenti, sembrò notare il fatto che le fiamme, invece di scemare poco a poco, continuavano a bruciare altissime tutt’intorno alla valle, nonostante avessero ormai consumato ogni combustibile disponibile; un particolare insignificante, evidentemente, una sinecura che neppure valeva la pena di prendere in considerazione …

All’alba, quei pochi tra gli abitanti che non erano ancora annegati nella birra, preoccupati, iniziarono a cernere i propri averi, raccogliendo in un angolo tutto l’indispensabile e ciò che avevano di maggior valore, decisi ad andarsene: erano passate quattro ore, eppure era risultato difficile per tutti accorgersi del sole che faceva capolino oltre le cime, nel riverbero accecante delle fiamme; non si trattava di superstizione, assolutamente: solo un sano spirito di conservazione spingeva quei disgraziati a  caricare sui carri, a dorso di mulo o, al peggio, sulla schiena di mogli e figli la loro roba. Volevano cambiare aria, ecco tutto: al Crocevia – come chiamavano l’incrocio tra la Via e la Terza Via ormai in disuso da svariati decenni – c’era sempre qualche carovana in transito, diretta verso un luogo molto lontano da lì, e loro vi si sarebbero aggregati, marciando spediti verso una nuova vita. Famiglie, singoli, coppiette cominciarono ad affacciarsi alle soglie delle case, senza neppure preoccuparsi di sprangare le porte alle loro spalle – non c’era più niente che valesse la pena di rubare – e confluirono verso lo spiazzo antistante la porta meridionale, ritrovandosi, salutandosi a mezza voce, formando crocchi sempre più grossi, sempre più numerosi; ovviamente, non c’era alcuna sorveglianza: le guardie, tutte, erano occupatissime a sbronzarsi nelle bettole, così non restava altro che rimuovere il palo, spingere i pesanti battenti rinforzati, tre volte in tutto, ed iniziare il viaggio scendendo verso il Crocevia, semplicemente.
Decine di mani iniziarono a spingere la grossa trave ingrassata che scivolò nelle sue sedi con un gemito: era dannatamente pesante e ci sarebbe voluto del tempo …
Tempo che non avevano.

Una fiammella solitaria da tempo vorticava in un angolo fuori vista della via principale, alimentandosi dei rifiuti che trovava in abbondanza; era una fiammella minuscola, insignificante persino, ma ambiva a diventare grande e calda e fragorosa come le sue sorelle maggiori che stavano macinando ogni cosa fuori le mura. Così, quando un grosso ratto, spaventato dall’odore del fumo, decise di scappare dalla sua tana, lei gli si attaccò come un’amante, gustandone la carne, assaporandone il terrore, il dolore assoluto. Aveva quasi terminato di consumarlo, quando una nuova preda si accorse della sua presenza: era una bambina di cinque o sei anni, sfuggita per un istante alla madre che stava giusto terminando di sistemarsi meglio il carico sulle spalle; incuriosita come ogni bambino da quella luce bellissima, si avvicinò, tendendo la mano per avvertirne il calore, come sempre faceva davanti al camino, in inverno. La fiamma la aggredì, la colse come un frutto maturo, risalendo veloce lungo le dita, la mano, il braccio, vaporizzando in un lampo gli abiti semplici che indossava; in pochi secondi, una creatura lucente si contorceva nella polvere al centro della strada: non urlava – la sua lingua era già scomparsa – però sentiva, provava in ogni fibra di ciò che rimaneva del suo corpo un dolore acuto, inimmaginabile, molto prossimo all’estasi. Alla madre occorse qualche istante per riconoscere la figlia, ne fu sicura soltanto quando scorse i suoi occhi; a quel punto si precipitò inutilmente a soccorrerla: la fiamma si espanse e l’abbracciò, inglobandola, fondendo carne e sangue in uno, ardendo gioiosa e famelica.
Un istante prima di svanire completamente, prima che le sue terminazioni nervose venissero completamente consumate, la piccola provò una sensazione di piacere tanto intensa da farla impazzire del tutto: sperò, pregò che là dove stava andando, quella sensazione potesse durare in eterno.

Il resto è storia: la fiammella crebbe, moltiplicandosi, beandosi di essere l’unica da quel lato della cinta; danzando estatica, raggiunse ogni punto, sfiorò ogni cosa all’interno delle mura, una coreografia che culminò ore dopo, quando si fuse con le sue sorelle, subito prima di sparire nell’aria fina del mese di merthensys.

Le carovane continuano a transitare per il Crocevia, ma nessuno si avventura più tra le alture in direzione delle Braccia, neppure i banditi: la chiazza di roccia vetrificata che occupa il fondo valle, con i resti delle poche canne fumarie rese sbilenche dal calore, costituisce già di per sé un formidabile deterrente anche per i più coraggiosi, ma è la Strada Vecchia a spaventare davvero, correndo dritta verso nord, intonsa come se fosse stata appena costruita …

«Spiegami perché l’abbiamo fatto, stupido ammasso di roccia!»
«Per puro divertimento ti soddisferebbe come risposta?»
«Scherzi, vero? Tu non sei così, ti conosco.» Una pausa carica di timore: «L’altro, forse, avrebbe potuto, ma non tu!»
«È la prima volta che mi fai un complimento! Grazie!»
«Adesso non esagerare: si è trattato di un lapsus …» Imbarazzato? Perché? Lui non …
«Un lapsus, certo. Ma davvero, la tua fiducia in me mi commuove.»
Gongolante. Dei, come la odiava quando si comportava a quel modo!
«Guarda che ti sento comunque, dovresti averlo imparato, ormai.»
«Dannazione! E va bene! Va bene! Finiamola qui, per ora!»
«Come desideri.»
«Comunque non mi hai ancora risposto!»
«Per lo stesso identico motivo di sempre: difesa.»
«I polverosi ricordi di un vecchio?!»
«Quei ricordi non sono polverosi!» Alquanto risentita, adesso. «E, per favore, evita di esprimere giudizi su cose di cui sai meno che nulla!»
«Calma, non agitiamoci! Se tu mi facessi la cortesia di spiegarmi …»
«Ci sono cose, qui, che potrebbero cambiare …»
«Cosa?»
«Tutto! Letteralmente!»
«I nemici di cui favoleggi? Quelli che secondo te, ci avrebbero spinto a penetrare?»
«Ti sembra tanto stupida, come ipotesi? Tanto inconsistente?»
«A pensarci bene, no, affatto! Ma cosa centravano quei tizi? Cosa centravano le persone che hai sterminato quando hai deciso di venirmi a prendere?»
«Tracce. Semi.»
«Spie?! Tutte?»
«Probabile.»
«Sei paranoica!»
«Comico, detto da te …»
«D’accordo, ma cosa starebbero cercando, tutti quanti? Cosa, grandi dei, è così importante da giustificare simili manovre?»
«Il Manufatto.»
«Addirittura con la maiuscola? Deve valere un sacco!»
«Interessato?»
«In quanto ladro, certamente! È qui?»
«No.»
«E dove, allora?»
«Qui.»
«Non prenderti gioco di me, sai?»
«Non lo sto facendo: è qui, in questo mondo.»
«Chiaro. E posso sapere cosa te lo fa credere?»
«Avverto il suo passaggio. Come loro, i nostri avversari. Come lui …»
«Intendi …»
«Sì.»
«Sai …?»
«Chi sia? No, ma dopo tutto questo tempo, lo sospetto, da certi indizi.»
«Immagino che se lo hai accettato, tu lo ritenga fidato …»
«In un certo senso: mi ha aiutato a comprendere alcuni aspetti del mio esistere, per così dire.»
«Sei riluttante, non insisterò oltre.»
«Ti ringrazio.»
«Tornando al nostro discorso, a cosa servirebbe, questo Manufatto?»
«Oh, il suo scopo precipuo ti piacerebbe moltissimo, ne sono convinta!»
«E sarebbe?» Vagamente impaziente.
«Qualcosa che tu hai perseguito per decenni: la vendetta!»
«Ah! Interessante! Parlamene un po’ più in dettaglio.»
«Sarà un discorso lungo …»
«Abbiamo tutto il tempo.»
«Vero. Verissimo. Allora … Tutto cominciò quando il Regno …»




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