I mille colori dell'amore

di desigra2005
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Ci sono amori che nascono per magia quando gli sguardi si accarezzano e le pelli si sfiorano, che non conoscono limiti, distanze e religioni, amori incondizionati, puri.
Ricordo ancora il profumo di menta che si respirava durante la sagra paesana, i gridolini gioiosi dei bambini sulle giostre, lo sfavillare delle lucciole, anno dopo anno, l’innocenza della fanciullezza dissolversi lungo il tortuoso sentiero della quotidianità.
Questa è la storia di Loredana, giovane fisioterapista, che vive con suo padre, due sorelle e l’adorata nonna nella campagna romana. Un posto fiabesco dove i colori delle stagioni penetrano nella pelle, in estate il calore del sole riscalda le mandrie e fa risplendere le coltivazioni di grano mentre in inverno la neve abbraccia e culla la vallata. Loredana ha sempre amato vivere lì, poter vedere l’alba accompagnare un nuovo giorno, sentire il profumo dei fiori appena raccolti dal padre prima di andare in campagna, salutare affettuosamente la nonna Amelia già intenta a sfornare la sua famosa torta di mele, lamentarsi con le sorelle per il ritardo. Nonostante gli studi prima e il lavoro dopo l’avessero portata a stare tanto tempo in città, Loredana non vedeva l’ora di poter tornare nella sua tanto amata fattoria.
“Sai dovresti scrivere un libro di fiabe, le tue storie sono davvero bellissime”. Nel riaprire gli occhi rimasi prigioniera in quello sguardo profondo “continuerò a raccontarti le favole solo se terminerai tutti i tuoi esercizi”. Le sorrisi dolcemente massaggiando quei piccoli, delicati e gelidi piedini. “Era una nevosa mattina durante le vacanze natalizie e una paffuta bambina, con il naso sulla finestra, attendeva impazientemente il ritorno del suo papà che era andato a scegliere il più bell’albero di natale mai visto. Sua sorella Beatrice, la maggiore delle tre, era così immersa nelle riviste di moda da non accorgersi che la neve aveva smesso di cadere, la piccola Giada invece si divertiva a giocare con le bambole e la nonna Amelia vicino al camino era intenta a cucire le calze che avrebbero appeso per ricevere i doni della befana”.
Un rumore improvviso ci riportò alla realtà. “Pensavo fosse finito il tempo in cui romanzavi la nostra infanzia”. Non c’era bisogno di voltarmi, avrei riconosciuto quel tono mieloso tra milioni: mia sorella Beatrice era poggiata pigramente allo stipite. “Scambio quattro chiacchiere con questa guastafeste e poi riprendiamo da dove siamo state interrotte”. Lasciai la stanza posandole un leggero bacio sulla fronte. “Quale buon vento ti porta qui, Bea? Pensavo fossi a New York impegnata su qualche set fotografico”. Beatrice, perfetta nel suo metro e ottanta mi guardò sorniona “non sei contenta di vedermi? Quest’anno ho lavorato tanto e ho deciso di prendermi qualche mese di vacanza. Vieni qui e fatti abbracciare”. Mi strinse a sé nonostante ci separassero quasi trenta centimetri: le ho sempre invidiato la sua fisicità, la sua sicurezza e l’eleganza che mostrava in ogni circostanza. Alzai le mani in segno di resa “va bene, va bene, per il momento farò finta di crederci. Il mio turno finirà tra un paio di ore perché non fai un giro in centro e poi passi a prendere Giada a scuola? Sarà felice di vederti. Vi aspetto alla stazione dei treni così torniamo a casa tutte insieme come ai vecchi tempi”.
Rimasi ad osservarla mentre lasciava la struttura ancheggiando e ammiccando ai giovani inservienti, che colti in castagna tentavano invano di celare l’imbarazzo abbassando lo sguardo. Erano passati già sette anni dalla sua ultima visita eppure non era cambiata minimamente.




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