Orizzonte

di Glenda
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Erano tornati in albergo entrambi esausti, per ragioni diverse che non si erano raccontati. Durante la cena, Noam aveva parlato insolitamente poco, ogni tanto si sfilava gli occhiali, si stropicciava gli occhi, sorrideva e ripeteva “Che giornata lunga!”, perciò Adrian tutto si aspettava fuorché sentirsi proporre, solo un paio di ore dopo: “Andiamo a fare un giro: è importante vedere Mòrask di notte”.

Avrebbe voluto rispondere che era stanco, che non c’era nessuna urgenza di fare i turisti, che passeggiare per la città per svago non era una scelta sicura, che quel pomeriggio aveva dovuto sbarazzarsi di una ficcanaso un po’ troppo troppo astuta e non era affatto certo di essersene sbarazzato davvero ed altre cose così… Invece non disse niente, si rimise le scarpe, il cappotto, la sciarpa e via dietro a quell’uomo fatto di vento a cui non era in grado di dire un solo, maledetto no.

Era contagioso, il vento di Noam: anche in quella città sfuggente e sottilmente ostile, la sua energia riempiva tutti gli angoli.

“Ecco, mettiti qua in mezzo: non ti sembra che tutti gli edifici siano piccoli e insignificanti? E pensa quando c’è nebbia!”

(In piedi al centro di piazza Xolk, di fronte all’hotel).

“Il sistema di portici di Mòrask è il più esteso del Kònorrand: qui nevica o piove per nove mesi all’anno e i portici sono la salvezza di quelli come me che perdono sempre gli ombrelli!”

(A passeggio lungo un porticato deserto, odore vitreo, di grotta, tutto intorno).

“Ma di notte diventano la terra di chi ha voglia di passeggiare da solo senza esserlo… ci trovi sempre almeno un gatto randagio, o, a volte, un uomo randagio che ti fa compagnia senza fare domande.”

(C’erano, in effetti, diversi gatti: a caccia di avanzi davanti a locali chiusi o in cerca, anche loro, di compagnia per la serata).

“Questa è Piazza Vittoria, l’ombelico di Mòrask. Prima dell’annessione era il centro della vita civile per eccellenza: quello è il vecchio Palazzo Ducale, questa colonna, invece, il punto da cui partivano le 4 strade principali… solo che una delle quattro non c’è più: ai tempi in cui non esisteva il concetto di piano regolatore, qualcuno ci ha costruito in mezzo…”

La colonna era lunga e stretta, quasi un’antenna che cercava di ricevere segnali da chissà dove: pochi fronzoli, solo marmo scuro e liscio, salvo sul basamento, che era invece decorato con motivi floreali ed animali e riportava un’iscrizione in lingua dar-breuk. Noam si accorse che Adrian stava cercando di leggerla, e intonò una canzonetta in rima, lieve e malinconica, come una ninna nanna.

“I versi scritti là.” spiegò, in risposta allo sguardo interrogativo dell’interlocutore “Una canzone popolare anonima cantata dai montanari… o dagli ubriachi che barcollano a casa dopo una festa a ballo. I bambini di Mòrask ci crescono insieme, la conosciamo tutti.”

“Cosa significa?”

“Questo passaggio nello specifico dice qualcosa del tipo l’incoscienza ti salverà la vita, pur se, anche in questo caso, forse incoscienza è una traduzione imperfetta.”

Sorrise e intonò altri versi, passeggiando attorno alla colonna. Sembrava davvero di ascoltare la nenia di una madre che vuole addormentare il figlio e la voce di Noam era sempre troppo morbida, di una morbidezza a tratti intima, imbarazzante.

“In fondo, questa canzone non è altro che una lista delle cose che l’autore trova salvifiche per gli esseri umani, ma dice parecchio della gente di qua. È culturalmente istruttiva.”

“Me ne traduca qualcuna, così mi istruisco anche io.”

“Beh, andando in ordine nel testo…” fece mente locale “ci salveranno la vita: la resistenza (intesa proprio come resistenza alla fatica), le radici, l’incoscienza, la disobbedienza, l’ironia e la purezza.”

“Lei condivide?”

Noam si strinse nelle spalle e si sedette sul basamento, poco rispettoso dell’iscrizione che andò a coprire con le sue gambe distese in avanti. Buttò il capo all’indietro, il naso verso il cielo.

“Non so. Dipende sempre dal modo in cui vogliamo leggere le cose. I darbrandesi, come è tipico di tutti i popoli poco abituati a ricevere visite, sono un po’ testardi e rischiano di abbracciare dei valori solo affinché siano un appannaggio personale che li distingue dagli altri. Disobbedienza a che o chi, per esempio? Io sono il primo che disobbedisce spesso e volentieri a centomila cose: ma quando la disobbedienza è solo il modo per dire che non ci sta bene nulla, allora diventa in qualche modo il suo contrario. Voglio dire: si è anticonformisti finché il nostro anticonformismo è espressione di una personalità… ma se l’anticonformismo diventa solo un gridare non vogliamo essere come voi, beh, allora tutti gli anticonformisti diventano conformisti a loro volta, e ne nascono i soliti schieramenti, sempre gli stessi: i pro ed i contro, i filo e gli anti. Per questa strada, anche la disobbedienza diventa solo una moda, o un sistema piuttosto infantile di darsi un’identità. E avere radici non sempre ci salva: a volte ci condanna, a volte ci fa pensare che non ce ne potremo andare mai.”

Saltò di nuovo in piedi, spalancò le braccia come se volesse abbracciare qualcosa di troppo grande.

“Ma ironia e purezza, accipicchia, quelle sono due parole meravigliose davvero!”

Il grosso orologio dell’ex Palazzo Ducale batté le una.

Dio, che cosa stavano facendo lì?

Che ci faceva, lui, Adrian Vesna, un uomo ordinario, metodico, razionale, in piedi in mezzo ad una piazza deserta, incantato ad ascoltare una specie di creatura amena che spiegava i versi di una canzone popolare?

Distolse lo sguardo da Noam, lo fece vagare tutto intorno, a cercare Incoscienza, Resistenza, Radici, Disobbedienza, Ironia e Purezza tra le mura delle case, nelle finestre chiuse, per le strade che si diramavano dalla piazza e giù lungo la strada che avrebbe dovuto essere una delle arterie della città ed era stata chiusa, soffocata da qualcuno che un giorno, distrattamente, in un gesto di banale egoismo, ci aveva costruito su… Dov’era, veramente, quella città? Dov’era il cupo cuore di Mòrask, dove erano i pericoli, la ferocia, il terrorismo? Passeggiandoci in mezzo, la sola cosa che Adrian aveva avvertito era un senso di struggente, lenta perdita. Malinconia e solitudine. Assenza. Ma era la città a emanarle, o era Noam?

“È sempre così desolata Mòrask, di notte?”

“Sempre. Per questo ti ho detto che era importante uscire anche se eravamo stanchi. Di notte, Mòrask è il regno del silenzio. Quando vivevo qui, passeggiare a quest’ora mi piaceva tantissimo, perché di giorno Mòrask non è affatto una città di silenzi!”

“Beh, nemmeno lei è un uomo di silenzi!” gli sfuggì.

Noam si mise a ridere di gusto.

“Hai ragione, però mi piacciono le atmosfere in cui si può parlare sottovoce.”

Piacevano anche a lui. E gli piaceva che Noam riuscisse persino a ridere sottovoce.

“E comunque, mentre la Mòrask-visibile-agli-occhi col buio si svuota, si riempie l’altra Mòrask: la Mòrask rovesciata dove ho imparato ad addomesticare il rumore. Vuoi vederla?”

No, Noam: guardati, accidenti, sei sfinito. E domani ti aspetta una giornata più impegnativa di questa. Dovresti andare a dormire. Dovresti fermarti un po’, lasciar calmare il vento, riposare.

“Va bene. Dove mi porta?”

 

***

 

Il vicolo era veramente stretto, veramente squallido, veramente opprimente: la location ideale per un film dell’orrore o per immaginare chissà quali sordide vicende. Al primo piano c’erano moltissime finestre, ma a livello della strada ben poche porte. Noam ne spinse una, e quella si aprì al suo tocco, immettendo su una scala che scendeva nel seminterrato, per fortuna caldamente illuminata.

Precedette Adrian con la sicurezza di chi si trova a casa e lo guidò fino ad un’altra porta, dalla quale provenivano voci e musica.

“Questo è il K-32,” disse, con lo stesso tono con cui aveva presentato al suo interlocutore piazze e monumenti “uno dei posti che frequentavo ai tempi dell’università. Quando le strade si spopolano, si riempiono Le Tane.”

“Eh?”

Non era sicuro di aver capito bene.

“Le Tane” ripeté Noam, mentre un’ondata di calore e di odori non ben distinguibili li travolgeva “Ossia, i locali non ufficialmente tali. Quelli che molti anni fa erano club privati o addirittura abitazioni scelte come luoghi di ritrovo, ma che poi hanno allargato il giro e tutti conoscono. Nessuno di questi posti ha mai ottenuto una licenza per vendere alcolici, per ballare o per suonare, ma nessuno si preoccuperà mai di chiederla, o scoppierà la rivoluzione. Altro che separatismo!”

Oltre la spalla di Noam, Adrian si affacciò su uno stanzone che poteva essere stato una cantina o una taverna, col soffitto basso e concavo e le pietre a vista, tavolini sparsi gremiti di bicchieri attorno a cui grappoli di persone chiacchieravano fitte fitte, strumenti musicali abbandonati qua e là, e, in corrispondenza di una specie di grosso arco, una serie di mensole che esponevano una vasta collezione di bottiglie e un lungo tavolo di legno che faceva da bancone.

“Le tane vengono anche chiamate la Mòrask sotterranea perché quasi tutte sono costruite in spazi come questo. Ma ve ne sono alcune anche ai piani superiori: una delle più popolari sta al terzo piano di un edificio che è occupato da vent’anni, e che ha una vista bellissima sui tetti. Ma il K-32 resta il mio posto preferito.”

Si diresse verso colui che fungeva da barman, chiese una bottiglia, strizzò l’occhio ad Adrian: “Non hai assaggiato l’Artemisia, e stasera non devi guidare”.

Il tizio al banco sembrava un bambino: Adrian si chiese se avesse l’età per berli, gli alcolici, prima che per venderli, ma mentre il ragazzo gli allungava bottiglia, cavatappi e due calici (un sistema decisamente self service!) un altro individuo – forse il padre, a giudicare dalla somiglianza – gli si affiancò dietro il bancone improvvisato e studiò Noam con curiosità.

“Ehi, ma ci conosciamo, io e te?”

“Temo di no. Non sono di qui.”

L’uomo parve non voler approfondire la questione, tuttavia scrollò la mano in un gesto di sufficienza e sfoderò un largo sorriso a cui mancava un dente.

“Sì, come no.” fece, alludendo alla bottiglia “Nessun forestiero ordinerebbe quello! E poi, chi li vede mai i forestieri, qua sotto?”

Noam si limitò a ricambiare il sorriso, pagò il conto e cercò un tavolo libero: ce ne era uno piccolo in un angolo dove l’acustica si faceva migliore e il cicaleccio scomposto di un branco di ragazzetti ubriachi al centro della sala era abbastanza distante.

“Perché ha scelto di mentirgli?” domandò Adrian.

Noam stappò la bottiglia e riempì i calici di entrambi.

“Perché non sono venuto a bere con vecchie conoscenze, sono venuto a bere con te.”

Altra bugia.

“Vino di casa: spensieratezza in forma liquida.” sollevò il bicchiere in alto e ci guardò attraverso, ma non con l’aria di chi sta esaminando il colore del vino, quanto con quella di un bambino assorto nelle proprie fantasie “È una delle cose che a Noravàl mi mancano di più. Alla salute!”

Che quella roba facesse del bene alla loro salute era discutibile: 15 gradi nascosti a meraviglia, che dopo il primo bicchiere si facevano già sentire. Per quanto avesse accettato di fare il turista, Adrian non aveva alcuna intenzione di abbassare la guardia, tanto meno per il piacere di alzare il gomito, così lasciò il suo secondo calice a metà.

Noam no, ma questo già lo sapeva.

Sul suo terzo o quarto bicchiere un ometto prese da terra una fisarmonica ed attaccò a suonare una melodia così struggente che qualcuno dei giovani festaioli lanciò un improperio al suo indirizzo; tuttavia, quella roba smaccatamente languida si intonava bene all’atmosfera di quel posto: un’atmosfera da ritrovo abituale di anarchici spiantati, dove aveva perfettamente senso che chiunque, senza chiedere il permesso di nessuno, potesse prendere uno strumento e mettersi a suonare quel che gli pareva, senza la pretesa o il desiderio di ricevere applausi.

“Senti, Adrian…” Noam riempì il bicchiere di nuovo, ma anziché bere cominciò a far scorrere il dito sul bordo, producendo uno strano suono “Perché non sei venuto con me, oggi?”

Domanda troppo assurda e risposta troppo ovvia: Adrian guardò la bottiglia mezza vuota e si convinse che il suo accompagnatore dovesse proprio smettere.

“Perché non è il mio lavoro.”

“Ma se la prossima volta che devo incontrare il professor Màrna, o qualcun altro, ti chiedessi di accompagnarmi, lo faresti?”

“Me ne dovrebbe spiegare bene la ragione.”

Noam appoggiò le braccia sul tavolo, reclinandoci la testa in mezzo e Adrian si chiese se la sua risposta non fosse stata un po’ troppo brusca.

“Che dice: me la spiega?” chiese, con più dolcezza.

“Tu sei più bravo di me a ascoltare le persone.” mormorò Noam, quasi in cantilena “Tu riesci a ascoltare i loro pensieri. Tu mi aiuteresti a capire le intenzioni di chi ho di fronte.”

Adrian sapeva da tempo di avere a che fare con un uomo molto più insicuro di come voleva apparire, ma l’esibizione nuda e cruda della vulnerabilità lo turbava sempre.

“Ehi, ehi,” provò ad alleggerire “dov’è andato a finire l’uomo che si fida di tutti?”

L’altro sollevò appena la testa dalla posizione in cui l’aveva appoggiata, ma abbastanza per guardalo in viso.

“Di te mi fido di più.” (serissimo)

L’uomo con la fisarmonica aveva smesso di suonare e adesso la banda di compagnoni stava intonando un coro accompagnato alla chitarra. I più grandi tra loro non dovevano avere vent’anni: allegri, caotici, felicemente stupidi come solo a quell’età si può essere. Erano belli nel loro colorato disordine.

“Credo che si sia fatto davvero tardi…”

Noam sollevò il bicchiere e fece per portarlo alle labbra.

“La bottiglia dice di no.”

Adrian intercettò la sua mano a mezz’aria.

“E la persona di cui lei si fida dice di sì.”

 

***

 

La strada per tornare all’hotel, percorsa a notte fonda, senza tappe turistiche e con un compagno di passeggiata molto più ubriaco di quanto non volesse dare a vedere, fu più lunga di quel che Adrian avesse sperato, anche scegliendo il percorso più breve. C’era però una luna pallida in cielo, che ore prima non era visibile e che invadeva la strade di un chiarore soffuso. Noam ogni tanto si divertiva a camminare in equilibrio sulla cornice del marciapiede, per dimostrare di essere perfettamente lucido, ma il modo in cui stendeva le braccia di lato preoccupandosi di rimanere stabile non facevano che rimarcare il contrario. Era freddo, un freddo secco e frizzante, che non dava fastidio: o forse era solo il calore della Tana che gli era rimasto nelle ossa a fargli sembrare quel clima stranamente piacevole.

Adrian non era mai stato una persona di compagnia: locali, bevute tra amici, serate “brave” non avevano fatto parte della sua storia di adolescente misantropo e non avevano trovato un posto nemmeno nella sua attuale routine di uomo saldo e rispettabile, capace di destreggiarsi in occasioni sociali e di ricoprire qualsiasi ruolo gli venisse richiesto. In realtà, ad Adrian le forme di aggregazione della maggior parte degli esseri umani erano scarsamente tollerabili e per fortuna non gli erano capitate molte situazioni in cui ci si fosse trovato incastrato, salvo le odiate circostanze formali, come le feste di laurea o i matrimoni degli amici, da cui aveva iniziato a defilarsi col passare degli anni. Amici, poi. Quali amici? Le poche persone che aveva chiamato così erano sparite dalla sua vita nel momento in cui aveva scelto la strada che lo aveva portato ad essere ciò che era. Scelta stupefacente proprio per loro: il pacifico, insicuro, timoroso Adrian che si iscrive all’accademia di polizia, che decide di imparare ad usare un’arma, di mischiarsi ad una tipologia di persone a cui mai, mai nessuno lo avrebbe avvicinato, e farlo di punto in bianco, inaspettatamente, senza dare spiegazioni. A diciannove anni se ne era andato da casa, e poi, lentamente, con metodica cura, aveva tagliato i pochi ponti che aveva alle spalle uno ad uno. Capiva così bene Noam. Capiva la difficoltà di tornare in un luogo dove forse restava ancora la traccia di una vecchia immagine di sé e dovercisi confrontare: che poi l’immagine fosse amata o odiata non faceva differenza, era ugualmente dolore. Però, lui nella sua città natale non aveva più nessuno: Noam invece aveva ancora una famiglia, degli amici. E forse un fratello di nome Thièl, che non voleva incontrare.

Più volte, durante quel tragitto, Adrian provò il desiderio di fargli delle domande, di rompere una volta per tutte quello strano equilibrio per cui si trovava a essere trattato da lui come la persona più vicina che avesse, ma a ricevere sempre le informazioni importanti in ritardo e quasi per casualità.

Di te mi fido di più”, gli aveva detto, ma la fiducia di Noam, la sua fiducia verso tutti, non aveva nulla a che fare con il permettere agli altri di affacciarsi sulla sua vita, quella “sotterranea e rovesciata”, come le tane di Mòrask. Noam dava per scontata la bontà del genere umano, erano tutti ben intenzionati fino a prova contraria, ma nella sua “tana” non si poteva entrare. La prima volta che si erano incontrati, gli aveva detto che la fiducia comportava una responsabilità, ma lui per primo non permetteva agli altri di prendersi delle responsabilità nei suoi confronti. Non sapeva chiedere aiuto. Non sapeva coltivare rapporti esclusivi. Insomma: gli somigliava.

Sbucarono in piazza Xolk dall’angolo opposto a quello su cui si affacciava l’hotel, e Noam lo precedette tagliandola in diagonale: non si sorprese né si allarmò per la presenza di tre individui che sembravano avere tutta l’aria di aspettare qualcuno.

Adrian sì, ma non fu abbastanza veloce da impedire il lancio di una pietra che Noam scansò per pura fortuna, o per scarsa precisione del lanciatore.

La parole, però, non riuscì a scansarle.

“Tornatene da dove sei venuto, traditore del cazzo!”

Adrian non vide la reazione di Noam: il suo corpo si mosse da solo, seguendo una procedura consolidata. Prima che l’aggressore potesse dire o fare altro, lo afferrò sbattendolo faccia a terra, e con la mano libera estrasse la pistola, che puntò in direzione degli altri due.

Nell’attimo di paralisi generale che seguì quel gesto, ebbe modo di rendersi conto, alla luce degli sparuti lampioni rosati, di avere di fronte due ragazzi che potavano avere forse venticinque anni… quello che aveva immobilizzato, qualcuno di più, ma pure lui doveva essere al massimo un coetaneo di Noam.

“Chi siete.” fece, ma senza alcun punto di domanda e senza alcuna intonazione della voce.

“Fattelo spiegare da lui…!” biascicò il tizio disteso, poi si sforzò di liberarsi, e, quando si rese conto di non esserne in grado, riprese “Per Dio, Noam! Sei diventano proprio un gambemolli di merda! Hai pure bisogno del cane da guardia!” e poi proseguì nella propria lingua, sottolineando in questo modo di aver pronunciato la prima frase apposta perché anche Adrian capisse.

Quest’ultimo gli premette la faccia a terra costringendolo a chiudere la bocca a meno che non volesse mangiarsi la polvere del selciato.

“Ti ho fatto una domanda.”

“Andiamo, volevamo solo parlare, amico…” intervenne uno degli altri due, con un’insicurezza nella voce che lo rendeva tutt’altro che autorevole.

“A me invece è sembrato che foste venuti a cercare una rissa, amico.”

L’altro fece un passo indietro alla ricerca di una via di fuga, ma Adrian lo prevenne.

“Non muoverti di lì. Dovete qualche spiegazione alla polizia.”

Già. La polizia. Perché diavolo Noam non aveva ancora preso il telefono e chiamato qualcuno? Gli sembrava normale essere assalito per la strada? Si aspettava lo facesse lui, con una mano impegnata a bloccare un energumeno e l’altra a tenere sotto tiro i suoi compari? Avrebbe voluto voltarsi, vedere cosa stava facendo, che espressione aveva… ma non poteva allentare la concentrazione.

“Vaffanculo, pure con gli sbirri vai a braccetto adesso!”

Aveva di nuovo parlato in lingua Vàrnava per mettere in difficoltà il suo interlocutore: che stronzo.

“Stai zitto.”

Adrian gli afferrò il braccio e glielo torse dietro la schiena: l’uomo urlò di dolore.

“Adrian!”

La voce di Noam.

Ma non sembrava la solita voce di Noam.

O forse sembrava la stessa di quella notte, quando aveva imprecato conto la pioggia “Dio, perché non può essere tutto così semplice.”

Ecco un’altra cosa che faceva sottovoce: gridare.

“Adrian, ti prego. Non… Non c’è nessun problema.”

Non c’era nessun problema? E quali erano i problemi, se non quelli? Di quali fottutissimi problemi avrebbe dovuto occuparsi lui, se non di quelli? Per che cosa era stato assunto? Per che cosa era lì?

“Li conosco. Siamo…ehm…eravamo… amici. Puoi lasciarlo andare, per favore?”

Era lì per proteggere la sua vita: lo pagavano per questo, e invece era diventato l’uomo che proteggeva quello che Noam voleva proteggere, e senza che lui gli dicesse di che si trattava. Che frustrazione! Allentò la presa, lasciò che il suo “prigioniero” si alzasse in piedi, ma non abbassò la pistola.

“Lei rimanga lì dov’è.” disse a Noam, con una durezza forzata.

Lui non si mosse, in compenso l’uomo appena rimesso in libertà si affiancò ai suoi compagni quasi a serrare le fila: sul volto gli erano rimasti il brutto segno di una sfregatura contro il terreno e una punta di arroganza poco convinta.

“Ciao Marùsz.” (le parole di Noam da dietro le spalle) “C’è qualcos’altro che mi volevi dire, o ti sei sfogato abbastanza?”

Nello sguardo dell’uomo passò un ombra che parve di tristezza, o forse di delusione. Gli altri due, invece, erano visibilmente spiazzati e intimoriti dal contesto.

“Cosa vuoi che ti dica con questo qua che minaccia di spararmi?”

“Non ti sta minacciando, sta facendo il suo lavoro.” (e meno male che almeno questo glielo riconosceva!) “Mentre io sto cercando di fare il mio. Perciò, se hai qualcosa di politicamente dibattibile da dirmi, sono a disposizione…”

“Non c’è nulla da dibattere. Noi combattiamo, non dibattiamo. Men che meno coi leccaculo del governo!”

Adrian sentì Noam dare in una vaga risata, una delle sue, piena di respiro, ma c’era anche tanta amarezza dentro.

“Ehi, vedi che non ti senti poi così minacciato? Sono contento. Andatevene, dai…”

Andatevene dai. Come se non avessero provato a spaccargli la fronte con un sasso!

“Signor Dolbruk, non posso permetterle di ignorare l’accaduto.”

Noam fece alcuni passi e si avvicinò fino a poter appoggiare una mano sul braccio di Adrian ancora sospeso a mezz’aria: teso a puntare una pistola contro niente, perché non si poteva sparare sui fantasmi altrui…

“Ti prego. Non rendermi le cose ancora più dure di quanto lo siano già…”

Più dure, meno dure, ma che cazzo diceva?

Erano altre le cose che avrebbe dovuto dire.

Chi erano.

Perché lo avevano aggredito.

Karima aveva ragione. “Il suo cliente è piuttosto pazzo a non condividere certi dettagli…”.

E pazzo era lui, che abbassò l’arma e rimase fermo a guardare quei tre bastardi sparire nella notte.

 





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