Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo

di Adeia Di Elferas
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Cesare aveva appena finito di leggere un dispaccio tremendo in cui lo si metteva a parte dei movimenti sempre più stringenti dei condottieri ribelli, che stavano marciando verso Urbino, con il chiaro intento di riappropriarsene.

Voci non ufficiali dicevano perfino che Guidobaldo Maria da Montefeltro stesse lasciando Venezia, per andare a guidare trionfalmente i suoi uomini alla riconquista delle sue terre. Sembrava che la sonora sconfitta di Pandolfo Malatesta – deciso a riprendersi Rimini, ma rispedito al Doge ancor prima che si potesse arrivare a una battaglia in campo aperto – non lo avesse minimamente spaventato. Anzi, dicevano che avesse mandato Ottaviano Fregoso a parlare con Oliverotto e il resta della compagnia, in modo da coordinare meglio l'affondo finale a quelli che fino a poco prima erano stati amici...

In tutto questo, Bologna continuava a soffiare su un fuoco che prendeva sempre più vigore e non era da escludere che, prima o poi, i Bentivoglio in persona avrebbero imbracciato le armi per combattere contro il Valentino, nella speranza, magari, di prendersi la loro fetta di Romagna.

Il Borja cercava di non dare a vedere il suo nervosismo, ma la situazione gli sembrava ogni giorno più complicata. Gli era perfino stato riferito come suo padre il papa si stesse trasferendo a Castel Sant'Angelo, temendo una qualche azione militare improvvisa contro Roma.

Anche quella mattina, mentre aspettava di incontrare Machiavelli, arrivato da poco, ma già prodigo di consigli e proposte, il Duca di Valentinois non riusciva a stare fermo. Si arrovellava, chiedendosi come fosse stato possibile che tutto gli fosse sfuggito di mano tanto rapidamente. Si era distratto per qualche settimana, era vero, aveva anteposto la sorella Lucrecia e la sua malattia agli affari di Stato, non voleva negarlo, però...

Quando alle sue spalle la porta si aprì, per lasciar entrare il portavoce fiorentino, Cesare si stava rancorosamente chiedendo se dietro a quel disastro altri non ci fosse se non Caterina Sforza. Poteva immaginare la rabbia e il desiderio di vendetta che quella sgualdrina doveva provare per lui e sapeva che quella donnaccia aveva tentacoli ovunque, parenti, amanti... Non c'era angolo d'Italia che si salvasse dalle sue spire... Poteva davvero essere lei a capo di tutti quei maneggi? Perché non l'aveva ucciso quando ne aveva avuto l'occasione? Magari già a Forlì, nel letto in cui l'aveva fatta sua, in casa di Luffo Numai... O addirittura alla rocca di Ravaldino, la notte in cui si era arresa...

“Mio eccellente signore – salutò Niccolò, vedendo che il Borja non accennava nemmeno a voltarsi verso di lui – buona giornata.”

Il Valentino si girò di scatto, il bel volto ancora trasfigurato da un'espressione di biasimo e ribrezzo, ma quando parlò lo fece con voce suadente e amichevole: “Mio buon amico... Spero abbiate riposato bene, questa notte.”

Machiavelli chinò il capo, in segno di assenso, e poi, guardandosi attorno per suggerire di accomodarsi entrambi, per parlare meglio, esordì: “Ieri abbiamo affrontato i convenevoli, oggi, se volete, potremmo parlare di cose importanti e utili tanto alla mia amata Repubblica, quanto a voi.”

Il Duca fece un sospiro e, chiedendosi se mai sarebbe riuscito a discutere con quell'individuo così sgraziato e mellifluo senza mai tradire la propria angoscia, ribatté: “Va bene. Sedetevi dove preferite, io resto in piedi...”

“Questo era il palazzo del Governatore di Imola, giusto?” chiese il fiorentino, prendendo la sedia che gli pareva più comoda, e sedendovisi sopra con leggerezza: “Quando sono stato inviato negli stati della Leonessa di Romagna come ambasciatore, ero stato a Forlì e non qui...”

“Sì, sì, questo è tutt'ora il palazzo del Governatore...” tagliò corto il Borja: “Certo, adesso è il mio Governatore...”

Niccolò sorrise, mostrando la larga bocca da rana e poi sollevò le sopracciglia, passando finalmente a ciò che interessava a entrambi: “La Repubblica – disse – ora è saldamente guidata da un Gonfaloniere la cui carica durerà a vita.”

“E come sapete – fece eco il Valentino – di questo noi siamo solo felici.”

Machiavelli, facendo un breve cenno d'assenso, riprese: “Confidiamo quindi nel fatto che sarà più semplice avere una linea retta da seguire, senza dover dar più peso a mille e mille richieste che...”

“Arrivate al dunque.” lo interruppe di colpo il Duca, spazientito: “Avevate detto che non era più tempo di convenevoli e ora mi venite a fare un trattato di politica?!”

Il fiorentino rimase un istante immobile. Nello scatto inatteso del Borja c'era più dei fumi del vino, che pur di certo avevano caratterizzato la notte appena trascorsa da Cesare... C'era un che di impalpabile, un'ansia, una paura, una precarietà astiosa che gli fece capire, per la prima volta dal momento del suo arrivo, quanto il Valentino fosse spaventato dagli accadimenti di quell'ultimo periodo.

Così, sfruttando una dote che sentiva di avere fin da ragazzino, Niccolò cavalcò lo stato d'animo del suo interlocutore e, usando parole semplici, ma incisive, gli parlò di come gli Orsini e Vitellozzo avessero cercato di portare dalla loro parte Firenze. Gli precisò come la congiura che si stava sviluppando contro i Borja era molto più articolata e complessa di quanto potesse sembrare e coinvolgeva quasi tutta l'Italia e, forse, anche qualche Stato straniero. Calcò la mano su quanto fosse importante, in un momento così delicato, avere alleati fedeli e pronti a tutto a cui, in ogni caso, offrire un'adeguata ricompensa, stanti i pericoli evidenti di una simile amicizia.

“Non sarebbe stato per Firenze più semplice accettare le proposte del Vitelli?” chiese a quel punto il Duca di Valentinois, stringendo le palpebre, le mani che correvano nervosamente al bordo del suo giubbetto, per tenersi impegnate.

Niccolò non voleva né poteva spiegare l'aura di sospetto che vigeva attorno a Vitellozzo, a Firenze... Da quando la Repubblica aveva giustiziato il di lui fratello Paolo, tutti erano convinti che qualsiasi proposta fosse arrivata da lui avrebbe sottinteso una trappola. Secondo Machiavelli non era quello il caso, anzi, il Vitelli era passato sopra anche ai propri rancori personali, pur di perseguire un bene che riteneva più alto, ma la Signoria non era di così ampie vedute.

“Noi – disse quindi il fiorentino, sfoggiando il suo tono più persuasivo – siamo dell'idea che un amico, quale voi siete sempre stato, vada aiutato nel momento di maggior bisogno e paura.”

Cesare fu sul punto di ribellarsi, di gridare che lui non aveva nessuna paura, ma non ci riuscì: le parole gli morirono in gola, in attesa di sentire la parte finale del discorso di Machiavelli.

“Ricetto e aiuto contro questi nuovi nemici: ecco quello che offre un amico vero.” fece subito l'altro, allargando platealmente le mani: “La guerra si avvicina, e sarà tremenda. Voi siete disarmato e con pochi uomini. Firenze vi potrà fornire quello che vi serve. Questa Lega di Condottieri che vi vuole morto, poco potrà, con la Repubblica al vostro fianco.”

Il Valentino avvertiva una nota fortemente compiaciuta nella voce del diplomatico fiorentino. Non poteva immaginare, però, che fosse dovuta all'intimo giubilo per sentirsi parte egli stesso della Storia. Per Niccolò poter parlare così direttamente con un uomo che, a suo avviso, stava influenzando il presente e il futuro dell'Italia era un piacere così profondo da essere quasi fisico. Il cuore gli batteva rapido, le mani sudavano e i suoi occhi correvano sul profilo attento del Borja quasi a volerselo scolpire a fuoco nella memoria.

“Qual è il prezzo di tanta amicizia?” chiese a quel punto il Duca, incrociando le braccia sul petto.

“La vostra, di amicizia.” ribatté subito Machiavelli.

In realtà chi l'aveva mandato a Imola a parlamentare non aveva quell'idea totalitarista che aveva lui, di fare di Firenze e del Valentino una cosa sola. Stava peccando di personalismo, stava anteponendo il suo sentirsi affascinato fatalmente da un uomo scostante e – per lui – geniale come Cesare, alla ragion di Stato che aveva giurato di perseguire. Non gli importava: lui e solo lui era in quella stanza, e avrebbe tirato le somme come voleva. Se la Repubblica si fosse lamentata, avrebbe addotto come scusa la potenza estremamente superiore del Borja e nessuno avrebbe potuto dargli torto.

Da quel momento in poi Machiavelli navigò su un olio liscio, ma infido. Accordò quasi subito il permesso al Duca di Valentinois di arruolare uomini nelle terre di Firenze, in risposta ai soldati che i bolognesi stavano arruolando in patria e che i veneziani stavano reclutando a Ravenna. Rispose con toni entusiasti alla richiesta di prestiti e garanzie. Si piegò senza troppo sforzo a quasi tutte le pretese del Valentino. In cambio ottenne qualche mezza promessa, qualche mezza parola e tanti mezzi inganni, ma non se ne avvide quasi, tanto era, con l'andare delle ore, affascinato dal suo interlocutore.

Quando Cesare fece portare del vino, per suggellare meglio i loro accordi, il fiorentino si rese conto che ormai era pomeriggio inoltrato. Le ore erano passate in modo così appassionante da non fargli provare il minimo fastidio. Il volto del Duca bastava a fargli scordare ogni incomodo e perfino la fame del mezzogiorno.

A un certo punto, trascinato dal vino e dall'entusiasmo, Niccolò esclamò: “Tutti hanno parlato per anni dell'ascendente della Tigre di Forlì, sostenendo che nessun essere umano potesse accendere l'attenzione altrui quanto lei... Ma io l'ho conosciuta e posso dire che si sbagliavano. Quella donna non è nulla in confronto alla magnificenza vostra!”

Raggelato, nel sentir tirare in ballo la Sforza, così all'improvviso, il figlio del papa si sistemò meglio sulla sedia su cui si era deciso a sedersi solo all'arrivo del vino: “Perché mi nominate quella donna?” chiese, guardingo.

Machiavelli, sorbendo un paio di sorsi, si accigliò e ribatté: “Perché mi sembrava un paragone che vi avrebbe fatto piacere. Voi l'avete battuta e umiliata, ma non perché avevate l'esercito migliore: perché voi siete migliore!”

Con circospezione, abbandonando definitivamente il sorriso che fino a quel momento aveva cercato di mostrare, Cesare cominciò a indagare sulla milanese. Cercò di capire dove fosse, come vivesse, e, soprattutto, quanto potesse aver influito sulla situazione drammatica in cui si trovava.

Niccolò ebbe molta difficoltà a trattenere la lingua, nel parlare della Sforza. Gli bruciava ancora in modo irrazionalmente feroce il modo in cui lei l'aveva preso in giro, nel corso della sua ambasciata a Forlì. Poteva ancora sentirla ridere di lui e fare battutacce volgari davanti ai suoi soldati solo per metterlo in imbarazzo. L'aveva odiata così profondamente che nemmeno l'oggettiva stima che aveva provato verso di lei nel vederla tanto orgogliosa e coraggiosa, nel corso della resistenza all'assedio del dicembre del 1499, aveva lavato via il sentimento malevolo che provava nei suoi confronti.

“Certo, sua nipote è a Bologna, sposa di Alessandro Bentivoglio, e i Bentivoglio sono tra i maggiori fautori di questi disordini...” soppesò a un certo punto Machiavelli: “Ma quella Tigre ormai non ha più artigli, né zanne... Vive come una monaca in una villa sperduta nel nulla. Se pensa di poter avere ancora un ruolo nel mondo, si sbaglia. Capirà, finalmente, che la politica e la guerra sono questioni da uomini e non da donne...”

Poco convinto dal modo in cui l'altro aveva chiuso la questione, il Duca annuì e, troppo assillato dai suoi pensieri, decretò: “Per oggi il nostro incontro può finire qui. Nei prossimi giorni stileremo per iscritto l'accordo da inviare a Firenze. Questa sera vi farò servire una cena abbonante.” e poi aggiunse, mentre si alzava, il calice ancora in mano: “Ve la farò servire nella vostra stanza.”

“Ma...” provò a protestare Niccolò, che invece avrebbe voluto come non mai dividere la tavola con il Borja, per continuare i loro discorsi.

“Non voglio che vi stanchiate: statevene in camera. Domani parleremo di nuovo.” lo zittì invece Cesare e, senza ammettere repliche di sorta, indicò la porta e attese che il fiorentino se ne andasse.

Appena rimasto solo, il Valentino si allacciò le mani dietro la schiena e cominciò a ragionare. Il suo amico Miguel – che tanto si era risentito per l'ordine improvviso – stava già marciando a gran velocità per andare a Cagli, a calmare le acque e per riordinare l'esercito, dato che presto, ne erano tutti sicuri, si sarebbe arrivati a uno scontro in campo aperto. Aveva anche fatto sì che il Corella, assieme a Ramiro de Lorca, punisse Fossombrone e Pergola, sperando che quella rappresaglia esemplare scoraggiasse altri paesi dal ribellarsi al potere pontificio.

Aveva quindi predisposto tutto, anche se l'umore di Michelotto lo preoccupava molto. Era un amico fedele, quasi come un cagnolino scodinzolante, ma anche il segugio più buono, se trattato male, ringhiava e mordeva... Forse avrebbe potuto concedergli qualche ora della sua attenzione, magari una notte da soli, come era capitato in passato, quando aveva più tempo da dedicargli...

Con uno sbuffo, il Borja si massaggiò il collo e si guardò attorno. Quella stanza, tappezzata in modo eccessivo e piena di mobili che non avevano nulla di bello o opulente lo irritavano. Aveva sentito dire che, molti anni prima, era stata la madre di Caterina Sforza – una cortigiana con il gusto inconfondibile delle cortigiane – a risistemare quel posto, così come aveva fatto con la rocca. E dopo di lei ci aveva messo le mani anche una sorella di quel Giacomo Feo per cui la Tigre di Forlì aveva fatto follie, una donna che, per come ne aveva sentito parlare lui, pur non essendolo ufficialmente, era peggio delle peggiori meretrici da bordello...

“Sgualdrine...” sputò Cesare, con una smorfia: “Solo delle donne così avrebbero potuto conciare a questo modo un posto del genere...”

Con rabbia afferrò un punto un po' scollato della tappezzeria e tirò. Strappò, distrusse, ruppe soprammobili, spezzò una sedia gettandola nel camino... Quando attorno a lui ci fu solo confusione e desolazione, fece un cenno soddisfatto e lasciò la stanza.

“Qui va rifatto tutto...” disse al suo paggio: “Vai e chiamami il Governatore... Voglio che prenda nota di come voglio rendere questo palazzo degno di un vero Duca. Non governano più le sottane, su queste terre, ma le brache e tutti se ne dovranno accorgere! Non siamo in un postribolo, ma in un luogo di potere! Qui si fa la guerra e la politica, non si organizzano incontri di mezz'ora tra donnacce e soldataglia!”

 

Bianca si stava rigirando, per quel che riusciva, nel suo lettuccio. Da tutto il giorno aveva caldo, un caldo anomalo, che poco si sposava con l'aria più fresca di quell'ottobre.

Aveva sentito dire da un paio di suore che presto sarebbe arrivata addirittura la neve. Le sembrava un'esagerazione, dato che fino a pochi giorni prima pareva ancora estate, ma non aveva voglia di mettersi a discutere con le implacabili monache che la ospitavano. Rispetto a quelle più altolocate e comprensive del convento delle Murate, quelle che la proteggevano in quel momento erano molto più schive e cupe, più vicine all'idea di monaca che si era fatta fin da bambina. Era lampante che lì dentro non fosse mai arrivata nemmeno l'ombra di uno svago o di uno strappo alla regola. I soldi, in cambio di piccoli favori come l'ospitare lei, li accettavano volentieri, ma li usavano realmente per opere di bene e per il loro sostentamento, a differenza di altre religiose, che ne avrebbero tenuta una parte per saziare anche appetiti meno santi rispetto a quelli della carità e della sopravvivenza.

La Riario stava ancora rimuginando su quanto sarebbe stato più rilassante trascorrere quelle lunghe settimane alle Murate, quando avvertì una fitta al ventre. Fin da metà mattina aveva avuto qualche dolorino, ma quella era una vera e propria contrazione.

La levatrice, che era andata a visitarla sovente, le aveva spiegato cosa aspettarsi, quando fosse venuto il momento del parto, e la giovane era certa che ormai il tempo fosse giunto.

Tenendosi le mani a coppa sul pancione, si alzò a fatica, raggiunse la porta, represse un gemito per una nuova fitta e guardò fuori dalla sua celletta per capire se ci fosse qualcuno pronto a soccorrerla.

Per sua fortuna, su ordine della Superiora, una delle monache era sempre di guardia e, nel momento stesso in cui vide la Riario, capì quello che stava accadendo: “Tornate a letto!” le ordinò, con aria concitata, ma senza alzare la voce, per non attirare l'eventuale attenzione di qualche consorella nei paraggi: “Vado subito a chiamare la levatrice e le altre!”

Bianca, che si sentiva esangue e malferma sulle gambe, eseguì l'ordine e, in uno slancio di previdenza, pensò di spogliarsi, immaginando che l'avrebbe fatto la levatrice al suo arrivo. Sudata e sempre più dolorante, guardò il soffitto e provò a respirare come le era stato consigliato.

Concentrandosi a tal modo su se stessa, la Riario si accorse solo in un secondo momento di non aver fatto una cosa fondamentale: chiedere che sua madre venisse immediatamente informata, così come la Tigre le aveva sempre chiesto di fare.

All'arrivo della levatrice, seguita da un paio di monache in abiti da lavoro – gli stessi, notò la partoriente con una strana ilarità – che usavano per prendersi cura dell'orto, Bianca le chiese, con la voce spezzata: “Manderete a chiamare mia madre? Mi aveva detto di farlo subito... Voglio che sia qui...”

L'altra, con il fare pragmatico di qualcuno che aveva assistito a mille parti e aveva saputo rispondere alle mille esigenze delle gestanti, annuì subito e borbottò qualcosa a una delle due suore, che corse subito fuori dalla cella.

“Avete fatto bene a spogliarvi – disse poi, rivolta alla Riario – mi avete risparmiato tempo... Adesso non pensate più a nulla e ascoltate solo la mia voce. Ora allargate per bene le gambe e fate tutto quello che vi dirò io: vedrete che prima di mezzanotte avrete vostro figlio o vostra figlia tra le braccia!”

 

Maria Giovanna Della Rovere aveva sentito del trambusto e altro non aveva potuto fare se non indossare una vestaglia che coprisse gli abiti da notte e andare a vedere cosa stesse succedendo.

Nel lasciare la camera, con una candela a farle luce, aveva svegliato Porzia, la sua figlia più piccola, ma ne aveva ignorato il pianto, troppo tesa a scoprire se ci fossero novità da fuori Venezia per dar retta ai suoi capricci.

“Ora che Guidobaldo ha ripreso Urbino – stava dicendo sua suocera, con voce ferma – il prossimo passo è liberare Camerino e farci tornare al nostro posto!”

“Potrebbe non essere così semplice.” aveva allora ribattuto uno degli uomini della loro scorta, quello, secondo Maria Giovanna, più addentro alle questioni politiche, oltre che a quelle prettamente militari: “Hanno fatto giustiziare molti fedeli dei Borja, e adesso stanno fornendo sostegno ai condottieri alleati... Ma tutto dipenderà dallo scontro in campo aperto che si sta avvicinando.”

“Ora che mio marito è morto – ribatté fredda Giovanna Malatesta – spetta a Guidobaldo aiutarci e far sì che mio figlio Venanzio possa riprendere ciò che è nostro.”

Maria Giovanna, contro lo stipite della porta, accolse la notizia della morte di Giulio Cesare da Varano trattenendo il fiato.

Quel suono, quasi impercettibile, fece sì che tutti i presenti nella saletta si voltassero verso di lei, accorgendosi del suo arrivo solo in quel momento.

“Mio marito è stato assassinato.” le disse con tono gelido la suocera: “Ma ringrazia Dio che il tuo, di marito, è ancora vivo e, per il momento, quel diavolo del Valentino non gli ha ancora messo le mani addosso... Tornatene in stanza a pregare: se il nostro amico Guidobaldo dovesse non riuscire a rovesciare il Borja una volta per tutte, allora non so che ne sarebbe di noi... E del nostro Venanzio...”

Proprio sul finale, la voce della Malatesta si incrinò appena, ma senza rompersi, mentre la Della Rovere sentì affiorare le lacrime, ma non per la morte del suocero, tanto meno per la paura di perdere Venanzio. Ciò che l'addolorava era solo saperlo ancora vivo e vegeto, ancora salvo...

“Perdonatemi...” sussurrò, singhiozzando, e tornò sui suoi passi, ignorando la suocera che, acida, la scusava con gli altri presenti, dicendo che quella situazione la stava mettendo a dura prova.

“Non hanno più la fibra di una volta, le donne... Ai miei tempi, e mi potete ben vedere, eravamo diverse... Mio marito è morto, sono disparata, ma ho ben la forza di restare qui con voi e discutere del da farsi – disse Giovanna, sempre meno udibile all'orecchio della nuora ormai lontana – lei, invece, con un marito ancora vivo, piange disperata come una vedova...”

La Della Rovere si era messa a camminare tanto in fretta che, complici l'oscurità – non vinta del tutto dalla piccola candela che portava con sé – e gli occhi velati di lacrime, finì per inciampare nei suoi stessi piedi e, per non rovinare in terra, tese in avanti una mano. Trovò a frenarla un braccio saldo e robusto.

Per un istante non capì cosa fosse successo, poi, alla luce della fiammella, riconobbe il profilo di Giovanni Andrea Bravo.

“Mi sembravate molto scossa... Ho preferito seguirvi per essere certo che non...” sussurrò lui, mentre la donna lasciava la presa e si rimetteva dritta, asciugandosi in fretta le lacrime che le rigavano il volto.

“Non vi avevo sentito.” gracchiò lei, guardandosi nervosamente alle spalle, temendo che anche tutti gli altri uomini della loro scorta fossero accorsi per vedere che stava capitando.

Dietro di lei, però, c'era solo il buio fitto di un palazzo veneziano nel cuore di una notte di ottobre.

“Vostro marito – fece di nuovo il veronese, cominciando a camminare lentamente, seguito a ruota da Maria Giovanna – non è morto... Ma vi assicuro che è come se lo fosse.”

La giovane sbatté un paio di volte le palpebre, mentre si avvicinavano inesorabilmente alla camera dove l'attendevano i suoi tre figli: “Non lo conoscete – ribatté, senza trattenere la lingua – quel vile ha più vite di un gatto... Se la caverà anche questa volta.”

“Non si sfugge due volte di fila all'ira del Valentino.” fece presente Bravo, sollevando un sopracciglio, senza far commenti sulla libertà che la sua interlocutrice si era presa nel parlare di Venanzio.

“Non dite a mia suocera che ho detto una cosa simile, vi prego...” lo implorò allora Maria Giovanna, resasi conto del passo falso.

Ormai erano alla porta della camera, ma l'uomo sembrava desideroso di prolungare ancora un po' il discorso: “Perché dovrei? Non vi voglio certo così male da scatenarvi addosso l'ira di Madonna Malatesta...” iniziò a dire, e poi, facendosi più serio, la fissò per un momento e le chiese: “Non avete mai pensato di lasciare vostro marito? È evidente che non lo amate, ma nemmeno lo sopportate... Lo odiate e basta.”

“Lasciare mio marito?” la voce della Della Rovere si era fatta acuta: “Non sono cose che si possano fare...”

“Sì può, invece.” la corresse il soldato, chinando appena il capo verso di lei: “Sceglietevi un amante, uno giovane e forte, e scappate con lui. Di questi tempi, vi daranno per morta o dispersa e potrete vivere come volete e con chi volete...”

“E i miei figli..?” fece la giovane, scuotendo il capo.

Fin da lì si poteva sentire Porzia piagnucolare disperata oltre la porta, e così Giovanni Andrea colse la palla al balzo per ribattere: “I vostri figli? Li lascereste a vostra suocera. Non mi sembra che nemmeno ora ve ne curiate troppo...” scorgendo un'ombra sul viso della donna, il veronese si affrettò ad aggiungere: “E come potreste, essendo figli di quel mostro?”

Maria Giovanna lo guardò per un lungo momento. Erano tanto vicini che poteva sentirne il calore, il suono del respiro e perfino l'odore della pelle. Più lo osservava più si chiedeva cosa fosse quell'interesse che la prendeva tutte le volte in cui se lo trovava accanto. In quel momento avrebbe potuto fare un piccolo movimento e le loro labbra si sarebbero sfiorate... E la cosa che più la sconvolgeva era sentire il proprio corpo pretendere con forza quel contatto, senza capirne però il motivo.

“Un amante...” sbuffò, scuotendo la testa con forza e facendo un passo indietro: “No, non è una cosa che mi interessi ora come ora...”

“Aspetteremo che vostro marito sia morto, allora.” concluse Giovanni Andrea, con un profondo inchino: “Passate una santa notte, Maria...”

La Della Rovere rimase immobile, guardando l'uomo allontanarsi. Era senza parole e il cuore rullava nel suo petto come un tamburo da guerra. La sua impudenza, la sua voce profonda, tutto di lui l'avevano confusa in quei pochi minuti. Avrebbe voluto corrergli dietro, accettare quella proposta appena accennata che le aveva fatto, buttandosi a capofitto in qualcosa di nuovo... Ma come avrebbe potuto? Non poteva e basta, malgrado tutti i bei ragionamenti che aveva sentito...

E poi, si disse, mentre rientrava in camera e andava a vedere come mai Porzia piangesse ancora, che ci avrebbe fatto lei, con un amante? Le era bastato essere sposata per anni a Venanzio per capire che certe cose non erano per lei.

Tuttavia, mentre prendeva con distacco la figlia in braccio per farla riaddormentare, si trovò a chiedersi se con un uomo piacente e gentile come Giovanni Andrea le cose sarebbero state diverse.

In fondo lui era l'unico uomo per cui avesse mai provato interesse, benché, per il momento, non riuscisse a capire né quanto fosse forte, né a cosa l'avrebbe portata...

Con un sospiro profondo, rimise Prozia – ancora paonazza e contrita – nel suo lettino, e si andò a coricare, senza levarsi nemmeno la vestaglia. Con gli occhi spalancati e lo stomaco chiuso, provò a immaginarsi tra le braccia del bel soldato e, con sua meraviglia, si rese conto che quella fantasia era molto più semplice e piacevole di quanto avesse creduto...

 

“Te l'ho detto, per ora è questo, quello che si sa.” stava dicendo Fortunati che, più di ogni altra cosa, avrebbe voluto che Caterina smettesse di tornare sulla questione e si decidesse a dormire, permettendo così anche a lui di riposare: “Machiavelli è andato con delle disposizioni precise, non potrà certo fare di testa sua come pensi tu... Anche se siglasse con il Valentino un accordo per dargli degli aiuti in termini di uomini non...”

“Vedrai!” lo zittì la Tigre, seduta con la schiena contro la testiera del letto e le braccia incrociate sul seno, avvezza, come suo solito, a mostrarsi nuda al piovano con una naturalezza che lo metteva ancora più in difficoltà: “Vedrai se non mi sbaglio... Quell'uomo resterà succube del figlio del papa e gli concederà tutto quello che chiederà! Non ha spina dorsale. Io l'ho conosciuto e ti assicuro che è così.”

“Anche io lo conosco...” provò a ricordarle stancamente Francesco che, coperto fino alle spalle, si chiedeva come facesse la Leonessa a non aver freddo, scoperta com'era, dato che il camino era ormai spento.

“E, purtroppo, ho avuto anche a che fare con il figlio del papa e so bene che tipo è... Il tipo che ha un ascendente fatale su uomini insulsi come Machiavelli!” sbottò Caterina, decisa a non lasciare il punto della questione: “Io trovo che sia stato un errore mandare proprio un debole come lui a parlare con...”

Un bussare rapido alla porta la fece tacere all'istante. Di norma avrebbe chiesto con rabbia chi fosse stato a interromperla a metà frase, ma da giorni ormai attendeva una e una sola notizia e l'attesa era una delle cause della sua difficoltà a prendere sonno quella notte.

“Chi è?” chiese, subito tesa come la corda di un arco.

“Mia signora sono io – disse la voce di Creobola – ci sono notizie urgenti da vostra figlia.”

“Resta qui.” sussurrò la Sforza a Fortunati, non volendo che quell'impicciona della serva lo scoprisse nudo nel suo letto a un paio d'ore dall'alba: “Arrivo!” gridò poi a Creobola.

Vestitasi in tutta fretta, andò alla porta, aprendola e chiudendola tanto rapidamente da rendere impossibile scorgervi qualcosa oltre. Si fece portare dal ragazzo che era stato mandato in tutta fretta a cercarla.

“Madonna Bianca sta partorendo – disse lui, ripetendo esattamente le parole che la Superiora gli aveva detto – e chiede di voi. Se verrete con me vi porterò subito da lei.”

“Andiamo.” ordinò allora Caterina.

“Forse sarebbe meglio che venga anche io...” provò a intervenire Francesco, arrivato al piano di sotto il più in fretta possibile, con il vestone nero da piovano un po' sgualcito.

“Non è necessario.” lo frenò la Tigre: “Tu resta qui con i miei altri figli...”

Creobola, che era rimasta lì, silenziosa testimone di quella scena, cercò di collegare tutti i pezzi, ma ci riuscì solo in parte. Della gravidanza di Madonna Bianca, ormai, sapeva quasi tutto, e quindi non se ne sorprese, ma c'era comunque qualcosa di strano in quella scena...

“Vado a conoscere mio nipote.” soffiò la Leonessa, prendendo per un istante la mano di Fortunati e poi seguendo il ragazzo arrivato dal convento.

L'uomo le assicurò che avrebbe pregato per lei e per il bambino che, le ricordò, poteva essere anche una femmina, e poi andò di persona a chiudere il portone.

Accigliandosi un po', Creobola guardò di sottinsu il piovano e chiese: “Nessun altro ci ha sentiti, eppure voi siete arrivato qui subito... Come avete fatto? Dove eravate?”

L'uomo, sorpreso dal tono inquisitorio della serva, rispose, con una prontezza che lo fece passare per sincero: “Stavo pregando di là nel salone e vi ho sentite passare.”

Convinta dalla naturalezza con cui il fiorentino aveva parlato, la donna allargò un po' le braccia e poi sospirò: “Voi santi... Non avete mai bisogno di dormire...”

Con un sorriso un po' teso, Francesco le fece un cenno di commiato con il capo e si incamminò verso la sua stanza. Si sentiva un impostore, un mentitore e per di più si sentiva in colpa per la nomina da sant'uomo che tutti gli appioppavano...

Preso dai suoi pensieri, inconsciamente, si trovò davanti alla porta della stanza di Caterina. La stava già per aprire, quando si ricordò di dover tornare nella sua, di camera, sia perché la Tigre non c'era, sia per non destare ulteriori sospetti in Creobola. Non resistette alla tentazione, però, di schiudere un attimo l'uscio, e respirare l'aria che ancora portava il sentore della sua donna...

Mentre richiudeva e ricominciava a camminare a passo svelto, si trovò a ripensare alle ore trascorse con la Tigre di Forlì e si ripeté una volta di più che santo, quella notte, come tante altre notti, proprio non si sentiva...

Arrivato finalmente nella sua stanza, la trovò un po' fredda e buia. Con pazienza, accese il camino e qualche candela e poi, prendendo il libro delle Ore che teneva vicino all'inginocchiatoio, si stese sul letto, accavallò le gambe snelle e cominciò a leggere, sicuro che tanto, ormai, non sarebbe più riuscito a prendere sonno: tanto valeva leggere e pregare davvero per la sua Caterina, e per la giovane Bianca e quel figlio, voluto per amore e non per dovere – e proprio per questo così indifeso in quel mondo – che stava vedendo finalmente la luce.





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