THE NAME OF JESUS

di SkysCadet
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...Un mese prima del suo ritorno

 

Il sole che cala placidamente dietro le colline di Filadelfia, dipinge il cielo di colori pastello che vanno dall'arancione al rosa e dall'azzurro al blu. Osservo questo spettacolo della creazione, inspirando a pieni polmoni l'aria che grazie al cielo inizia a rinfrescarsi, placando la strana calura di questo fine marzo.

A Filadelfia è così: gli inverni sono miti, ma quando sta per arrivare la primavera, possono capitare giornate così calde. Per questo mi trovo qui con una maglia a maniche corte di cotone dentro dei pantaloncini di jeans con ai piedi delle sneakers bianche.

Sono affacciata all'ampia finestra del corridoio dell'infermeria con i gomiti poggiati sul davanzale, alla ricerca di Caleb, come mi capita di fare da un po' di tempo ormai.

Nell'ultimo anno sono successe cose così straordinarie da lasciarmi avvolta in sensazioni contrastanti. Tutto quello che mi ha portata fin qui sembra un brutto sogno e la mia vita sembra essere talmente diversa da quella giovane ingenua che frequentava il primo anno di Università, che a volte stento a riconoscermi. Adesso niente e nessuno può mettermi alcun dubbio sulla mia fede, adesso che ho scelto la mia strada che combacia con la Sua.

C'è solo una cosa da sistemare: il mio cuore. Quel muscolo fratturato dalla mancanza di qualcosa e di qualcuno...

Inspiro gonfiando la cassa toracica per riempirmi di qualcosa di inconsistente come il sentimento che agita i miei pensieri.

Dopo che Acab mi aveva confidato di non aver mai provato a manipolarmi dopo la festa al Dark Lithium, stare vicino a Caleb era diventato un combattimento giornaliero.

Non riuscivo a stargli vicino, ma lo osservavo, da lontano, ora giocare con i bambini, ora parlare e testimoniare della sua esperienza a giovani appena arrivati al Centro.

Sì, era soprattutto in quei momenti che mi sentivo incredibilmente sbagliata. Lo osservavo passarsi una mano tra i capelli neri e sorridere per poi ridere di gusto. Immaginavo si fosse pian piano dimenticato di quel che aveva provato per me. Così, quando capitava di doverci incontrare per qualche motivo - anche perché viviamo sotto lo stesso tetto - diventavo come una lastra di ghiaccio, con un muscolo involontario che bussava contro una porta chiusa a chiave.

Sospiro ancora al vento, quando sento dei passi alle mie spalle mi volto di scatto e mi raddrizzo prontamente. Il respiro irregolare davanti alla sua figura.

«Perdonami, non volevo spaventarti.»

«Non preoccuparti, non è niente. Immersa nei pensieri non ti avevo sentito arrivare.» ispiro involontariamente quel suo profumo agrodolce mentre mi sorride placido, pizzicandomi una guancia con fare fraterno.

«Ti cercavo. » mi dice, poggiando i palmi sul davanzale e quando si sporge, sento l'ansia attraversarmi gli arti come scariche elettriche. Quindi gli stringo il braccio con una mano, chiudendo gli occhi e solo quando avverto i suoi passi allontanarsi, posso nuovamente riprendere a respirare aprendo gli occhi.

Tiro un lungo sospiro, cancellando la sua immagine in piedi su quel davanzale.

«Perché mi cercavi?» incrocio le braccia al petto socchiudendo gli occhi. Lui mette le mani dentro le tasche dei bermuda di jeans e dopo aver guardato il pavimento sfugge al mio sguardo indagatore e poi soffia aria dalla bocca:«Perché sono stanco.» adesso sono i suoi occhi a scrutare i miei, trafiggendomi con la sua voce grave.

Deglutisco saliva e gli volto le spalle. Pessima mossa, Ariel... mi dico, stringendo le palpebre in una smorfia di disapprovazione a me stessa. Quindi mi rigiro verso di lui che ha nascosto le labbra in una linea sottile. Così, dopo un po' di esitazione: «Perché sei stanco?» chiedo.

«Del tuo comportamento.»

Devo avere un'espressione davvero insolita in questo momento, perché lui mi si avvicina con le braccia strette al petto serrando la mascella. «Non credo di aver fatto nulla...» sto per continuare ma la sua vicinanza mi destabilizza a tal punto che devo portare le mani in avanti per spingerlo leggermente indietro e sgattaiolare nella parete opposta.

Lui si gratta la nuca per poi passare la mano a scompigliarsi i capelli esasperato quando l'altra è ancora sul fianco. «Vedi, Ariel,» inizia «è proprio questo il problema.» le mani giunte sulle labbra. «Non fai nulla, sai solo scappare.» poi si porta tre dita a massaggiare la tempia in una smorfia di dolore e, non so perché, quel gesto mi inquieta e, a quanto pare, stranisce pure lui.

Mi volta le spalle, sbuffando aria dalla bocca; si avvicina alla finestra e le sue mani stringono il telaio inferiore. Faccio qualche passo verso di lui e noto la sua tensione negli arti tesi, mentre le mani mostrano le nocche bianche.

«Tu lo amavi, non è così?» mi guarda come se volesse cavarmi subito una risposta, ma io non so di chi stia parlando. Quindi inarco le sopracciglia e mi poggio con la spalla sinistra al muro adiacente a braccia conserte. «A chi ti stai riferendo?» gli domando quando lui alza il viso per rivolgermi il muso duro.

Se dovessi giurarlo, lo farei: in questo momento pare proprio il volto corrucciato di Acab.

In fondo, Acab è stato il suo involucro per gran parte della sua vita. A suo dire, nei ricordi che da qualche tempo sono vividi e chiari, avevano abusato di lui in modi così indicibili che gli risulta difficile anche dormire la notte. Quando vede una ferita, preferisce allontanarsi.

Non ha più i capelli lunghi, ma corti alla nuca in un taglio ordinato e ben definito: vuole essere Caleb, a tutti i costi. Ora odia il nero e i luoghi bui, si sveglia all'alba e cammina lungo il cortile del Centro, solitario. Spesso, l'ho visto parlare da solo, o -sarebbe meglio dire- pregare, perché è a Gesù Cristo che si rivolge.

Travolta dai pensieri, non mi accorgo di non aver ancora risposto.

«Come mai dici questo?» chiedo nuovamente e lui sembra non voler più parlare.

Mi avvicino ancora per poi poggiare gomiti sul telaio con gli occhi verso il cortile interno, accanto a lui. Poi, avverto il suo sguardo su di me e il respiro pesante.

«Perché non ti capisco, Ariel.» mi prende per il braccio, delicatamente, ma vuole che mi volti e lo assecondo. Lo fisso, le braccia conserte a preservare qualcosa che lui non possa vedere «Pensi che non mi sia accorto di come segui i miei passi, di come da lontano mi scruti, cercando di studiare i miei movimenti?» il suo tono è duro e tagliente.

E ha ragione. Ne ha da vendere. Da quando abbiamo scoperto quello che gli hanno fatto, ho sempre temuto che tutto quello che era successo-compresa la rivelazione della sua vera natura-non fosse altro che un modo di nascondere le reali intenzioni dei Lucifer. Quindi mi ritrovavo spesso a pensare che le sensazioni che provavo in sua presenza fossero ancora frutto di una sorta di manipolazione mentale.

Ma non era così. Lui non era più Acab; era Caleb, un ragazzo dai modi gentili con tutti, a volte estremamente dolce, tanto da ricordarmi, per certi versi, i tratti caratteriali di Joshua...

Come quel pomeriggio che, mentre mi trovavo a raccogliere i giochi dei bambini nella sala ludica, mi si era avvicinato per aiutarmi, intuendo, solo dal mio pallore, la mia condizione fisica naturale; per non parlare di quando, per rincorrere un bambino che era uscito fuori dalla mensa, durante una giornata di pioggia, mi aveva raggiunta e, superandomi, l'aveva preso di peso e portato dentro. Quello che non mi sarei mai aspettata era che, una volta fatto entrare il bambino, aveva atteso sull'uscio mentre mi avvicinavo alla porta tutta zuppa d'acqua e levandosi la felpa, me l'aveva messa addosso, rimanendo in canottiera.

Ecco perché lo pensa... considero.

«A volte penso che tu stia cercando di capire se puoi innamorarti di me dato che non hai potuto farlo con Joshua.» raddrizza le spalle e cerca i miei occhi. Tuttavia a quell'affermazione avverto l'orgoglio bruciarmi lo sterno.

«Ti sbagli.» gli dico convinta. «Non amo nessuno.» e la lieve flessione nella mia voce tradisce il mio intento.

«Davvero?» nel chiedermelo si avvicina di qualche passo e io inizio a indietreggiare con un martello pneumatico al posto del cuore.

«Queste sono solo delle tue deduzioni.»

Gli volto le spalle e me ne vado con un nodo in gola.

«Adesso perché scappi?» mi urla «Ariel!»

Ormai sto salendo le scale verso la mia stanza e purtroppo lui è abbastanza veloce per raggiungermi. Allora mi fermo sull'ultimo gradino e mi volto, stringendo la mano alla ringhiera. «Vuoi la verità?»

Lui non mostra esitazione. «Sì.»

Si ferma e, ansante, si regge dal corrimano.

«Forse sì, mi piaceva.» incrocio le braccia al petto, ingoio il nodo aggrovigliato in gola e continuo. «Ma tu...» l'indice contro la sua spalla «Tu mi stai facendo qualcosa. Tu hai ancora qualche potere manipolatore.»

Il suo sguardo si fa scuro di rabbia, le sopracciglia aggrottate quasi diventano un'unica linea ostile e, a questo punto, penso di aver osato troppo nel dire quello che penso.

«Quindi tu provi qualcosa per me ed è così che lo spieghi?»

Rabbrividisco.

«Io sono Caleb:» la mano sul petto «quello che ti ha lasciata andare non appena è uscito dal Lithium insieme al padre; quello che al Dark Lithium ti stringeva a sé senza lasciare che i demoni sortissero alcun effetto sulle tue sensazioni; sono quello che per far sì che mio padre non scoprisse che ti avevo liberata, ha iniziato a baciarti dentro la cella, anche se tu non volevi; sono quello che ha ucciso...» non lo lascio finire.

Gli prendo il viso tra le mani per posare le mie labbra alle sue, riconoscendo che, in ogni episodio, era il mio cuore che batteva, ogni volta, come lo sta facendo adesso. 

 





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