Strange 1: Diversi da Loro

di FrancescaPenna
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Capitolo 13 – Vuoti che combaciano

 

Non era aumentata di peso e non le era cresciuto il seno. Le costole e le clavicole erano ancora troppo sporgenti, il girovita sempre troppo stretto, la pancia sempre troppo piatta; le braccia e le gambe erano ancora troppo sottili e il divario tra le cosce non voleva saperne di chiudersi.
Tutto era rimasto invariato dalla settimana precedente e Satèle aveva potuto verificarlo usando un metro da sarta per prendere le misure delle circonferenze degli arti, del girovita, delle spalle e dei fianchi, confrontandole poi con quelle che aveva trascritto un sabato prima su un post-it che aveva attaccato alla cornice dello specchio.
Da quando aveva iniziato a farsi paranoie sul proprio corpo, si era pian piano convinta che tutti i vestiti che aveva sempre indossato senza problemi le stessero male e la facessero sembrare ancora più magra.
Le ragazze che incontrava ogni giorno nello spogliatoio della palestra della scuola avevano indubbiamente contribuito ad alimentare i suoi complessi, rivolgendole frasi come: “Sembri uno scheletro”; “Fai impressione”; “Le vere donne hanno le curve”; “Le ossa lasciamole ai cani”.
Satèle non si era mai preoccupata per il suo fisico esile e non si era mai sottoposta a diete drastiche per ottenerlo. Non aveva mai pensato che un giorno avrebbe potuto minare la sua autostima.
In quel momento si stava guardando allo specchio su cui aveva attaccato il post-it con indosso solo una canottiera e un paio di mutandine. Pensò ad alcune delle sue compagne di scuola che a differenza sua avevano già le mestruazioni, un petto abbastanza prorompente, i fianchi larghi e il sedere tondo e odiò il proprio riflesso. Guardò alle proprie spalle tutti i vestiti che aveva provato, scartato e ammucchiato sul letto e sospirò.
Quel giorno sarebbe andata a casa di Markus per la prima volta e non sapeva proprio cosa mettersi. Fortunatamente aveva ancora tempo per decidere perché si era svegliata presto.
Le si prospettava un sabato diverso dal solito. I suoi genitori erano già usciti per andare al lavoro e sarebbero tornati direttamente per l’orario di cena. Luke e Dia sarebbero passati a prendere Casey all’Hamilton al loro posto, ma non per portarlo a casa: lui e il suo amico Johnnie avevano programmato di fare un giro della città per staccare un po' dalla monotonia del collegio. Dunque Satèle non avrebbe visto neanche lui, o almeno non prima dei suoi genitori.
Lesse l’orario sulla sveglia, poi guardò cos’era rimasto nell’armadio e alla fine riuscì a comporre un outfit con cui si sentiva a proprio agio, abbinandogli come accessorio il choker che le aveva regalato Markus per il compleanno. Si truccò con eyeliner e mascara, infilò le sue scarpe preferite – le Converse alte fino al ginocchio – e, dopo essersi munita di crema solare per proteggere il suo viso bianchissimo dalle scottature, fu pronta per andare.
Stando all’indirizzo che le aveva dato, Markus abitava in un appartamento situato nella zona centrale della città, perciò lei che abitava in una zona più periferica ci avrebbe messo un po' a raggiungerlo.
Mentre camminava, Satèle ripeteva a mente tutte le regole che si era data per fare bella figura con i genitori di Markus.
Sii educata.
Siediti sempre composta.
Mantieni sempre un tono di voce calmo.
Di’ che ti piace studiare e che sei brava a scuola.
Non mostrare le tue insicurezze.
Non mostrare i tuoi difetti.
Non mostrare la vera te: se lo farai, non piacerai a nessuno.
Ce l’avrebbe fatta a rispettarle tutte? Ne dubitava. In fin dei conti, rispettare le regole non era mai stato il suo forte.
Quando si accorse di essere giunta a destinazione, Satèle cercò il cognome Lancaster sul citofono e bussò. Con un po' di stupore da parte sua, rispose una bambina. Realizzò che Markus non le aveva mai detto niente sulla sua famiglia, compreso il fatto che avesse una sorellina.
Il portone del palazzo si aprì e Satèle si diresse verso l’ascensore.
 
Dopo aver raccomandato per l’ennesima volta sia a sua madre che a sua sorella di non mettere a disagio la sua amica per il fatto di essere albina, ottenendo la loro parola, Markus andò ad aprire la porta per far entrare Satèle e le sorrise. Quanto è carina, pensò appena la vide, portandosi una mano al petto.
“Quanto sei carina!”, disse Emily, come se gli avesse letto nel pensiero; anche se definirla carina era riduttivo, perché in realtà era bellissima
“Grazie”, rispose Satèle, leggermente imbarazzata.
La mamma di Markus non l’aveva mai vista prima, eppure l’aveva accolta come se la conoscesse da anni, baciandole le guance e facendole persino un complimento che le era sembrato sincero. “Prego, accomodati pure”, aggiunse. Poi si presentò: “Io sono Emily, invece lei è Lily”. Indicò la bambina accanto a sé e Satèle si piegò alla sua altezza per salutare anche lei. Era identica alla madre: aveva i suoi stessi capelli biondo scuro, i suoi stessi occhi ambrati, lo stesso nasino a patata e le stesse labbra a forma di cuore. Entrambe non assomigliavano affatto a Markus, che nel frattempo era rimasto fermo accanto alla porta. Profumava di acqua di colonia.
“Tesoro, che ne diresti di mostrare a Satèle la casa mentre io vado a cucinare?”, propose Emily.
“Certo”, rispose Markus. Satèle lo seguì in corridoio, dove lui le indicò un attaccapanni su cui posare la giacca; dopodiché le mostrò le stanze.
La casa di Markus era più piccola della sua, ma molto più carina. I genitori di lui avevano optato per un arredamento moderno, invece i suoi conservavano ancora alcuni pezzi di antiquariato che lei, Casey e talvolta anche Coco li avevano supplicati di buttare.
Finito il tour della casa, i due ragazzi raggiunsero Emily e Lily in cucina.
“Ha proprio una bella casa, signora Lancaster”, disse Satèle.
“Ti ringrazio, cara, ma non darmi del lei. Chiamami semplicemente Emily e non sentirti in imbarazzo”, rispose la donna.
“Va bene, Emily”, convenne Satèle.
Era la prima volta che sentiva di aver fatto una buona impressione su una persona adulta.
Forse, pensò, non ho considerato la possibilità che esistano genitori dolci, affettuosi e simpatici sia con i propri figli che con i loro amici – l’opposto dei miei, insomma.
Doveva essere sicuramente così, perché la mamma di Markus era la rappresentazione vivente di tutte quelle qualità. “Posso offrirti qualcosa da bere?”, le chiese.
“Solo un po' d’acqua, grazie”, rispose Satèle.
Mentre le riempiva il bicchiere, Emily notò che la ragazza aveva al collo il choker che le aveva regalato suo figlio. “Ti sta davvero bene”, commentò. “Markus aveva ragione: il colore della pietra al centro è identico a quello dei tuoi occhi.”
“Inizialmente volevo regalarti una di quelle collanine con il nome in acciaio, poi mi sono ricordato che ti piacciono i choker perché ho pensato che una collana con su scritto ‘Satèle’ sarebbe stata alquanto difficile da trovare”, rivelò Markus.
“Vero”, concordò Emily, “è la prima volta che lo sento. Markus mi ha detto che sei irlandese, perciò presumo che anche il tuo nome lo sia.”
“Non proprio”, rispose Satèle. Allora spiegò che il suo nome, in realtà, non figurava in nessun elenco in quanto non era altro che la storpiatura in italiano del nome francese Satheene, coniata dai suoi nonni materni che furono i primi a chiamarla così, lasciando poi che l’abitudine si estendesse al resto della famiglia.
Markus fu sorpreso di scoprirlo, aveva sempre creduto che Satèle si chiamasse veramente così. Le chiese come mai i suoi genitori avessero scelto di darle proprio un nome francese e lei gli raccontò un po' la storia della sua famiglia.
Sua madre, Hannah, era nata e cresciuta a Dublino da madre italiana, di origini francesi da parte del padre, e padre irlandese originario di una Gaeltacht (ossia una regione dove si parla la lingua gaelica irlandese come prima lingua) situata nella contea di Galway, il quale dopo il diploma si era trasferito nella capitale e vi era rimasto fino a quando l’azienda in cui lavorava si era spostata negli Stati Uniti, a Rockford; così, per non rinunciarvi, aveva deciso di andare a vivere lì con la moglie – ovvero sua nonna – e  le figlie – cioè sua madre e sua zia, che all’epoca avevano rispettivamente quasi diciotto e quattordici anni.
La madre di Satèle, quindi, aveva frequentato l’ultimo anno di liceo a Rockford, e fra i banchi di scuola aveva conosciuto Brad, il suo futuro marito. Dopo il matrimonio i genitori di Satèle erano rimasti a Rockford, dove nel ’98 era nata sua sorella Coco, invece i suoi nonni erano andati in Italia e si erano trasferiti definitivamente a Napoli – la città in cui aveva vissuto sua nonna prima di stabilirsi a Dublino – e sua zia – che intanto si era anche lei sposata – era andata a vivere in Irlanda con il marito, ma per poco tempo, perché dopo un po' erano tornati a Rockford.
Tuttavia, dopo il ritorno della sorella negli Stati Uniti, Hannah si era recata a Dublino con Brad per concludere un affare. Era il 1999 e lei era all’ottavo mese di gravidanza, infatti il viaggio era terminato con una corsa in ospedale e la nascita di Satèle, che all’anagrafe venne registrata come Satheene in onore di un’omonima parente francese di sua nonna che era morta il giorno prima.
A sua nonna, però, quel gesto diede quasi fastidio e chiese a sua madre di trovarle uno “pseudonimo,” perché non voleva chiamare sua nipote con un nome che la rattristava pronunciare; e in più si univa il fatto che a suo nonno suonava ostico perché non era mai riuscito a imparare il francese. Fu così, allora, che venne fuori ‘Satèle’.
Markus ascoltò con interesse, proprio come fecero anche sua madre e la piccola Lily.
“Che bello, deve averti arricchito molto crescere fra quattro culture diverse”, commentò Emily.
“È vero”, rispose Satèle, “anche se direi tre. In America ci vivo, in Irlanda ci sono nata e ci vado ogni anno per le vacanze e vado spesso anche in Italia. In Francia, invece, non ci sono mai stata, conosco solo la lingua.”
“Davvero parli il francese?”, chiese Markus.
Oui”, rispose Satèle. “Parlo anche l’italiano e, anche se non perfettamente, il gaelico irlandese.”
Markus sgranò gli occhi. Quella ragazza non finiva mai di stupirlo con le sue doti, eppure era lei stessa a sminuirle.
Lui e sua madre si complimentarono quando gli diede prova della sua padronanza di tutte e quattro le lingue, ma lei disse che non si trattava di né di bravura né di propensione, bensì del semplice fatto che le aveva imparate quasi contemporaneamente all’inglese quando era ancora piccola e che per di più le erano serviti anni per raggiungere lo stesso livello di un madrelingua.
“Non per dire, ma pur essendo riuscita a imparare altre tre lingue non sono ancora capace di parlare la mia lingua madre con un accento americano”, scherzò Satèle, ma si giustificò dicendo che era stata principalmente sua madre con il suo forte accento di Dublino a insegnarle a parlare, perciò era impossibile che non lo ereditasse anche lei.
“Non preoccuparti, l’accento è irrilevante se consideriamo che c’è gente che non conosce nemmeno la grammatica della propria lingua”, la rassicurò Markus, alludendo chiaramente ai loro compagni di classe.
Satèle fu contenta di scoprire che anche a casa, in presenza di sua madre, manteneva il suo carattere irruente e schietto; significava che era sé stesso sempre e comunque.
Del resto anche lei, dopo aver appurato di non correre alcun pericolo, aveva deciso di comportarsi analogamente; e su richiesta di Emily parlò finalmente di sé.
Esordì dicendo che la musica era la sua più grande passione, che coltivava da quando aveva cinque anni prendendo lezioni di canto e pianoforte, e che il suo più grande sogno era formare una rockband e diventarne la cantante principale.
“Ci riuscirai sicuramente”, le garantì Markus. “Ha una voce pazzesca”, disse a sua madre e Lily.
“Mi canti una canzone?”, chiese entusiasta la piccola.
“Certo!”, sorrise Satèle. “Cosa vuoi sentire?”
“La canzone di Titanic!”
Allora Satèle intonò a cappella l’ultima strofa di My Heart Will Go On sotto gli sguardi sbalorditi di mamma e figlia.
“Ma sei un fenomeno!”, esclamò Emily. “C’è qualcosa che una come te non sa fare?”
“In realtà sì: andare in bicicletta e soprattutto andare bene a scuola”, ammise Satèle, ridendoci su. “È Markus il genio tra noi due.”
“Tranquilla, nella vita non si può essere bravi in tutto”, la rassicurò Emily. Confessò che pure lei non era mai stata una cima in tutte le discipline, specialmente in quelle scientifiche, infatti quando andava al liceo aveva un’amica che le faceva copiare tutte le risposte ai test di matematica, scienze e fisica, mentre lei che era più portata per le discipline umanistiche faceva copiare all’amica i test di letteratura e storia.
“Menomale che tu non hai problemi in nessuna materia”, disse Satèle a Markus, “perché io e te non potremmo mai farlo.”
“Però Markus potrebbe aiutarti a studiare, se ti facesse piacere”, propose Emily, cercando l’approvazione del figlio.
“Assolutamente sì”, ribadì Markus, “quando vuoi.”
“Non te l’ha mai chiesto prima perché si fa sempre milleuno problemi quando si tratta di fare il primo passo”, spiegò Emily. “Tu lo vedi così spavaldo, ma sotto sotto è insicuro persino quando deve scegliere quale paio di calzini mettersi, infatti li porta sempre spaiati.”
Per dimostrarglielo, Markus sollevò la gamba destra e arrotolò i jeans fino a lasciare intravedere un calzino rosso; poi sollevò la sinistra e fece lo stesso, lasciando intravedere un calzino blu e mugugnando qualcosa riguardo alle persone che non sapevano distinguere l’indecisione dallo stile.
Satèle non riuscì a trattenere una risata bonaria.
Il tempo era letteralmente volato da quando era arrivata, in men che non si dica si era fatta già ora di pranzo. Emily aveva preparato il pollo, uno dei cibi preferiti di Satèle. Visto che Markus lo sapeva, doveva essere stato sicuramente lui a darle il suggerimento.
Mentre mangiavano, Satèle scambiò altre chiacchiere con la mamma del suo amico, che le chiese quale lavoro facessero i suoi genitori. Lei disse che lavoravano entrambi per un’azienda che produceva accessori e ricambi per le auto, ma non le parlò del rapporto che aveva con loro. Dopotutto non era quello che le aveva chiesto, ma, anche se l’avesse fatto, lei si sarebbe limitata a farle capire che i suoi erano più dediti alla carriera che alla famiglia. Allo stesso tempo ebbe modo di conoscere meglio Emily. Scoprì che aveva trentasei anni come sua madre e che lavorava all’ufficio postale, ma non la sentì accennare nemmeno una volta a suo marito. In effetti, il padre di Markus e Lily non si era ancora visto in giro.
Satèle aveva semplicemente pensato che stesse lavorando e che sarebbe rincasato più tardi, ma quando osservò le mani di Emily e notò che non portava la fede al dito iniziò a porsi delle domande.
Forse era rimasta vedova, o forse non si era mai sposata e attualmente era single. Un’altra ipotesi che prese in considerazione fu che avesse avuto Markus e Lily da due uomini diversi, vista la somiglianza pressoché inesistente tra loro due.
A causa dell’assenza di foto che ritraessero Markus da bambino o comunque in tempi più recenti, pensò anche che Lily fosse la figlia biologica di Emily, visto che dei due era l’unica ad aver preso da lei, e che Markus, invece, fosse stato adottato da non molto tempo. Il fatto che Emily non le avesse raccontato alcun aneddoto sulla sua infanzia la rendeva un’ipotesi plausibile.
L’unica certezza che Satèle aveva, era che non avrebbe mai conosciuto il padre di Markus. Ammesso che lui per primo ne avesse avuto il piacere.
 
Dopo essersi rimpinzati quasi fino a scoppiare, Markus e Satèle ringraziarono Emily per il pranzo e filarono dritti in camera per passare finalmente un po' di tempo da soli.
Quando l’aveva vista per la prima volta, Satèle aveva faticato a credere che quella fosse davvero la stanza di Markus. Se l’era immaginata molto simile alla sua, dai toni scuri e tappezzata di poster in ogni angolo, invece si ritrovata in un ambiente luminoso e alquanto spoglio.
Markus aveva detto che la condivideva con sua sorella, allora lei aveva capito il motivo della scelta di usare colori neutri per non lasciare che i gusti dell’uno prevalessero su quelli dell’altra, infatti le pareti erano bianche e i mobili di legno chiaro laccato.
La parte di stanza di Markus era identificabile grazie a un letto coperto da una trapunta con il logo dell’Hard Rock Cafe di Londra posizionato in verticale davanti alla parete parallela alla porta, una gigantesca libreria che quasi toccava il soffitto e una batteria situata in un angolo che sembrava essere stata appena lucidata.
“Wow, che meraviglia!”, esclamò Satèle. “Finalmente vedo la tua batteria.”
“Vuoi sentire un assolo?”, chiese Markus.
“Certo! Chi è il tuo batterista preferito?”
“Travis Barker.”
“Allora fammi un assolo in stile Travis Barker!”
Markus si sedette alla batteria, afferrò le bacchette e suonò la intro di Feeling This dei blink-182. Satèle lo ricompensò con un applauso e lui fece una sorta di inchino.
La ragazza continuò a guardarsi intorno e vide che sulla parete opposta c’erano dei disegni che raffiguravano quasi alla perfezione diversi personaggi dei cartoni animati.
“Li hai fatti tu?”, domandò a Markus.
“No, li ha fatti Lily”, rispose lui.
Satèle sgranò gli occhi. “Davvero? Caspita! Se tua sorella disegna già così bene a cinque anni, non oso immaginare quanto sarà brava da grande. Tua madre deve essere così fiera di aver dato alla luce due piccoli geni.”
“L’unico genio, qui, è Lily. Io sono più il tipo che è bravo in tutto ma non eccelle in nulla”, ribatté Markus.
“Spero tu stia scherzando”, disse Satèle. “Sei lo studente più intelligente della nostra scuola! Se non fossi un genio, come riusciresti a leggere tutti quei libri?”, gli chiese, puntando la libreria.
Markus fece un risolino. “Non bisogna per forza essere dei geni per leggere tanti libri”.
“Okay, hai ragione”, ammise Satèle, “ma adesso dimmelo seriamente: come trovi il tempo per leggere così tanto?”
Markus fece spallucce. “Non è difficile. Fino a settembre, prima di conoscere te e Angel, non avevo amici. A scuola passavo sempre la ricreazione da solo, in biblioteca, e leggevo tutto quello che mi capitava tra le mani. Raramente riuscivo a finire i libri che iniziavo, perciò li prendevo in prestito per portarli a casa e il pomeriggio finivo presto i compiti e mi rimettevo subito a leggere. Inizialmente lo facevo per scacciare la noia, ma presto divenne la mia passione… e, allo stesso tempo, la mia salvezza.”
Satèle lo vide abbassare lo sguardo come se fosse stato assalito da un ricordo spiacevole, e chissà se quel ricordo non avesse a che fare proprio con suo padre. Pensò che fosse giunto il momento di togliersi ogni dubbio.
“Markus”, lo chiamò timidamente, “posso chiederti una cosa?”
“Certo.”
“Tuo padre non vive qui, non è vero?”
Markus abbozzò un sorriso e scosse lentamente la testa.
“Cosa c’è?”, chiese Satèle, un po' sconcertata dalla sua reazione. Credeva di avergli fatto una domanda più che lecita.
“Ero sicuro che prima o poi me l’avresti chiesto, sapevo che avresti notato qualcosa che te l’avrebbe fatto pensare”, spiegò Markus. “Mio padre non vive qui. Non più.”
“Come mai? Se posso saperlo.”
Si pentì subito di aver parlato perché Markus, di colpo, cambiò totalmente espressione. Il suo volto si rabbuiò, si morse leggermente il labbro inferiore quando esso cominciò a tremare e i suoi occhi divennero improvvisamente lucidi come se stesse per piangere. Sembrava distrutto. Non sembrava nemmeno Markus.
Sospirò, disse: “Odio parlare di mio padre.”
“Non devi se…”
“Ma lo farò perché di te mi fido.”
Satèle gli concesse un attimo per riprendersi. Quando fu pronto, Markus si sedette sul letto e la invitò a sedersi accanto a lui, poi riprese parola.
“I miei genitori si sono separati quattro anni fa. Non l’avrei mai voluto e non me lo sarei mai aspettato, perché eravamo una famiglia felice, unita. Perfetta.
Mio padre era il padre migliore che potessi desiderare, il marito migliore che mia madre potesse desiderare. Poi, quando avevo cinque anni, alcune cose iniziarono a cambiare.
Mio padre divenne pian piano sempre più irrequieto, ma si giustificava dicendo che il lavoro lo stressava. Inizialmente gli credevamo. A volte lui e mia madre discutevano, ma si riappacificavano subito. Si amavano ancora e pensavano che un altro figlio li avrebbe uniti di più e che soprattutto li avrebbe aiutati a superare quel piccolo momento di crisi, infatti dopo un po' nacque Lily. Quando mia madre mi disse che avrei avuto una sorellina, io ne fui felicissimo. Pensai che, avendo finalmente qualcuno con cui giocare, la mia vita sarebbe migliorata. Invece mi sbagliavo, perché mio padre cambiò drasticamente.
Iniziò a litigare con mia madre sempre più spesso, stavolta per davvero. Le sbraitava contro, la accusava di cose che lei non aveva mai fatto, per esempio di averlo tradito. Un giorno origliai una conversazione tra loro due e scoprii che era convinto che non fossi suo figlio perché non gli somigliavo per niente. Tutto ciò non aveva minimamente senso, perché io ho la stessa faccia di quel bastardo. Ad ogni modo, mia madre mi fece fare persino un test del DNA per dimostrargli che ero suo figlio, ma lui non volle sentire ragioni. Ormai mi odiava e…”
Markus si fermò e fece un respiro profondo. Appena sentì i dotti lacrimali riempirsi, sbatté le palpebre ripetutamente per ricacciare indietro le lacrime. Odiava piangere, specialmente davanti alle persone.
Satèle lo vide letteralmente sbiancare e non se la sentì di invitarlo a continuare. Sapeva benissimo quanto fosse difficile raccontare un evento doloroso, tuttavia Markus lo fece.
“Divenne violento. Cominciò a picchiarmi a sangue ogni giorno appena tornava dal lavoro, senza che mia madre potesse vederlo perché avevano orari diversi. Quando lei non era a casa, c’era lui. L’avevano deciso per non lasciare me e mia sorella con degli sconosciuti.
All’inizio mia madre non aveva paura di lasciarmi solo con mio padre, perché era convinta che lui ce l’avesse soltanto con lei e che non si sarebbe mai azzardato a fare del male a me che, in entrambi i casi, non avevo alcuna colpa. Ovviamente si sbagliava.
Appena lei usciva di casa, mio padre mi riempiva di calci, pugni e schiaffi e mi minacciava di non dirglielo se non volevo pagarne le conseguenze. Quando riuscivo a nascondere le ferite non le dicevo nulla, ma quando non potevo mi inventavo che erano stati dei miei compagni di scuola a picchiarmi, oppure che ero caduto. Spesso andavo a scuola con il volto pieno di lividi e graffi; in prima elementare mi ruppe entrambe le braccia a distanza di pochi mesi.
I miei compagni cominciarono a evitarmi e a prendermi in giro, dicendo che ero cattivo semplicemente perché ero sempre sulla difensiva, ma io lo facevo solo perché avevo paura di farmi mettere le mani addosso. Loro non sapevano cosa subivo.
Intanto i miei genitori continuavano a litigare. Mia madre era sempre più disperata e voleva lasciare mio padre, ma lui non glielo permetteva e minacciava di portarle via me e Lily per sempre se l’avesse fatto.
Quella situazione era diventata invivibile per me, eppure mi ostinavo a nascondere la verità. Se non fosse stato per i miei libri e per la mia sorellina che si era affezionata tanto a me, avrei chiesto a mio padre di uccidermi. Dopotutto era quello che voleva. E un giorno ci riuscì quasi.”
Fu a quel punto della storia che Markus proruppe in lacrime.
Satèle non poté credere ai suoi occhi: Markus – lo stesso Markus che a scuola faceva tremare i corridoi quando passava, lo stesso Markus che riusciva a zittire persino i professori con la sua lingua affilata e le sue risposte saccenti – stava piangendo a dirotto.
Capì di essersi sbagliata sul suo conto: il vero Markus non era il ragazzino arrogante e un po' misantropo che aveva conosciuto a scuola, ma il ragazzino che in quel momento, tramite il racconto della sua infanzia burrascosa, le stava mostrando il suo lato più sensibile e umano.
“Oh, Markus, mi dispiace così tanto”, lo compatì Satèle, piangendo insieme a lui.
Lui elargì un sorriso riconoscente tra le lacrime. Anche se si stava facendo del male, sentiva il bisogno di arrivare alla fine della storia. “Quel giorno mi ruppe quattro costole”, disse, “ma per fortuna mia madre lo scoprì perché tornò prima dal lavoro. Mi trovò a terra, privo di sensi, con mio padre inginocchiato di fianco a me con i pugni serrati.
Stando al suo racconto, gli tirò un calcio nello stomaco e lo cacciò di casa ordinandogli di andare all’inferno; fatto ciò chiamò un’ambulanza. Arrivai in ospedale in condizioni critiche perché avevo perso molto sangue, ma i medici riuscirono a salvarmi.
Passai due mesi a letto, completamente immobile. Le uniche cose che potevo fare erano guardare la tivù, ascoltare la musica e leggere, che era ciò che mi dava più conforto.
Quando finalmente guarii, però, mi accorsi che non sarebbe stato del tutto possibile tornare alla normalità. Ormai la famiglia in cui avevo sempre creduto si era sfasciata; i miei genitori si erano separati e io, mia madre e Lily eravamo stati ripudiati da tutti i parenti di mio padre.”
“Davvero?”, chiese Satèle.
Markus annuì. “I miei nonni paterni hanno preferito appoggiare quella carogna del figlio anziché me e mia madre. Anche i nostri zii hanno preferito tagliare i ponti, vietando anche ai nostri cugini di mantenere i rapporti con me e Lily. L’unico che li ha mantenuti è stato Ray, perché non si è lasciato manipolare dai genitori. Non ha mai avuto un bel rapporto con loro, infatti è per questo che subito dopo il diploma si è trasferito a Londra. Ci sentiamo spesso per telefono e in estate andiamo a trovarlo per qualche giorno, ma il più delle volte è lui a venire da noi per potersi incontrare anche con il fratello di Angel e un altro loro amico.”
“E i parenti di tua madre, invece?”
“Mia madre è figlia unica, perciò io e Lily non abbiamo né zii né cugini da parte sua. Abbiamo solo la nonna; il nonno è morto qualche mese prima che io nascessi per complicanze dovute a una malattia autoimmune. Di lui mi resta soltanto il nome, così come della mia famiglia mi restano soltanto mia madre, mia sorella, mia nonna e mio cugino Ray. Non vedo mio padre da anni. Non so nemmeno che fine abbia fatto.”
Fu così che il racconto di Markus si concluse: con un fiume di lacrime e una confessione falsa. Markus sapeva benissimo che fine avesse fatto suo padre: era in carcere, ma aveva preferito non dirlo a Satèle, non ancora. Anche se avesse voluto farlo, in quel momento non ne aveva la forza. La sua corazza di spavalderia e arroganza era crollata e con essa anche lui.
“Sei forte, Markus”, disse Satèle.
Il ragazzo si accigliò. “Cosa?”
“Ho detto che sei forte”, ripeté Satèle, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. “Molto forte. Dico sul serio. Non è da tutti portare sulle spalle il peso di una famiglia in crisi come hai fatto tu, provando a tenere insieme i pezzi pur sapendo che era destinata a sfasciarsi.”
“La verità è che io non pensavo che un giorno si sarebbe sfasciata”, replicò Markus. “Dentro di me nutrivo sempre quella speranza che prima o poi si sarebbe sistemato tutto, che mio padre avrebbe smesso di litigare con mia madre e di accusarla di aver avuto un figlio da un altro. Credevo addirittura che avrebbe smesso di picchiarmi, che sarebbe tornato a volermi bene come prima. Solo adesso mi rendo conto di quanto sia stato stupido. Ho nascosto la verità a mia madre per non farla soffrire, invece l’ho solo fatta soffrire più a lungo.”
Satèle gli accarezzò delicatamente una spalla. “Non sei stato affatto stupido. Eri soltanto un bambino e stavi affrontando una situazione più grande di te.”
Markus scosse la testa. “Ho sbagliato. Se avessi avuto il coraggio di confessare, mia madre avrebbe preso subito la palla al balzo per lasciare quell’essere e io non mi sarei ritrovato a letto con quattro costole rotte. Io ho ferito lei proprio come mio padre ha ferito me, se non anche di più. Ma sai che ti dico? Forse me le sono meritate, quelle quattro costole rotte; me li sono meritati, quei due mesi a letto. E sai perché? Perché la genetica non mente, Satèle, e lo stesso veleno che circola nel corpo di mio padre circola anche nel mio. Avevano ragione i miei compagni delle elementari: sono cattivo.”
“Non è vero”, ribatté Satèle, suonando forse un po' dura alle orecchie di Markus. Non era sua intenzione rimproverarlo, al contrario: voleva che quel povero ragazzo la smettesse di tormentarsi. Addolcì il tono e disse: “Non sei cattivo, te lo leggo negli occhi. Quello che provi non è altro che il riflesso del dolore che ti è stato inflitto.”
Markus alzò le spalle. “Forse è come dici tu, ma la gente si limita alla facciata, non le interessa sapere che c’è dietro. Quindi chi mi capirebbe?”
Satèle esitò. Markus si era aperto con lei nonostante trovasse difficile fare il primo passo e le aveva raccontato un capitolo dolorosissimo della sua vita perché si fidava di lei, perché la riteneva un’amica. La sua prima amica. Anche per lei Markus era stato il primo amico in assoluto, perciò voleva dimostrargli che si fidava di lui ricambiando le confessioni che lui le aveva fatto. Glielo doveva. Fece un respiro profondo e rispose: “Io. Io ti capisco benissimo, perché anch’io non ho un buon rapporto con mio padre e nemmeno con mia madre, a dire il vero. Anch’io credo che il mio comportamento abbia ferito una persona.”
“Chi?”
“Mio fratello gemello.”
Markus sussultò. “Hai un fratello gemello?”, chiese incredulo.
Credeva che la sua unica sorella fosse Coco, quella smorfiosa che il primo giorno di scuola si era avvicinata al loro tavolo, il Tavolo Degli Sfigati. Satèle non gli aveva mai detto di avere un fratello gemello, non l’aveva nominato neanche quando aveva parlato della sua famiglia.
Satèle annuì ed estrasse il cellulare dalla tasca, lo accese e gli mostrò la foto che appariva sulla schermata di blocco. Raffigurava lei in primo piano e Casey che la abbracciava da dietro. Entrambi sorridevano. “È nato cinque minuti prima di me”, spiegò. “Si chiama Casey.”
Markus osservò attentamente il ragazzo. Di solito i gemelli eterozigoti si somigliavano poco o non si somigliavano affatto, invece lui e Satèle erano identici, lei la versione femminile di lui e lui la versione maschile di lei. “Perché non me ne hai mai parlato?”, domandò.
Satèle divenne scura in volto, proprio come lo era diventato lui prima. “È difficile da spiegare”, premise. “Io amo mio fratello, è la persona a cui tengo di più al mondo, ma ultimamente mi rattrista parlare di lui.”
“Perché?”, chiese Markus, restio come uno che sapeva di star toccando un tasto dolente.
“Perché non lo vedo quasi mai.”
“C’entrano i vostri genitori? Col fatto che non lo vedi quasi mai, intendo.”
Satèle annuì. “I nostri genitori odiavano il legame che avevamo e non volevano farci frequentare le medie insieme, per questo hanno deciso di dividerci e l’hanno iscritto all’Hamilton.”
Quell’Hamilton? Il collegio?”
“Sì.”
“Ma è terribile!”, esclamò Markus. “Cosa può aver mai fatto per finire in un posto simile?”
Satèle abbassò la testa e iniziò a piangere. Markus la accarezzò e la attirò a sé, poi la abbracciò. Per la prima volta da quando si erano conosciuti.
Markus odiava il contatto fisico per ovvie ragioni, perciò la colse totalmente di sorpresa. Aveva le mani gelate, ma il suo abbraccio riuscì comunque a infonderle tutto il calore che per tanto tempo le era mancato e le diede la forza necessaria per continuare.
“Lui non ha fatto niente”, disse Satèle, “è tutta colpa mia. Sai, mio fratello è completamente diverso da me: è dolce, tranquillo, rispetta le regole, non si caccia mai nei guai, è bravo a scuola… Io avevo una cattiva influenza su di lui.”
“Chi ti ha detto una cosa del genere?”, domandò Markus, leggermente irritato.
“Me l’hanno detto i miei genitori. Inizialmente avrebbero voluto iscrivere me all’Hamilton, perché fra noi due sono io la buona a nulla a cui servirebbe una bella strigliata, ma erano certi che io non sarei durata neanche un giorno e alla fine hanno preferito mandarci lui. Ormai lo vedo solo il sabato e la domenica, gli unici giorni in cui gli è concesso tornare a casa perché le lezioni sono sospese. Sempre per colpa mia.”
“Sai, Satèle, penso che io e te abbiamo lo stesso problema”, disse Markus. “Entrambi ci diamo la colpa per qualcosa che abbiamo indirettamente fatto, ma grazie a te ho capito una cosa: è quasi impossibile far ragionare dei genitori tossici. Sono certo che loro vi avrebbero divisi a prescindere dal tuo comportamento, e sono certo che pure tuo fratello la pensi come me.” Fece scivolare una mano sul cellulare di Satèle, accendendolo, e osservò nuovamente la foto che raffigurava i due gemelli. “Si vede che ti vuole molto bene,” commentò.
Voleva”, rettificò lei.
“Che significa?”
Satèle volle confessargli un timore che si portava dentro da un po' di tempo e di cui non aveva ancora parlato con nessuno, nemmeno con sua zia. “Ho l’impressione che il rapporto che avevamo si sia in qualche modo incrinato. Ultimamente lo sento un po' distante, come se tra noi ci fosse qualcosa di non detto, un muro.”
“E tu non hai provato ad abbatterlo?”
“Non ci riesco. Ogni volta che faccio un passo verso di lui, lui ne fa uno indietro. Non si confida più con me, è come se non volesse rendermi partecipe della sua vita.”
“Forse crede che non lo capiresti, visto che state vivendo due situazioni diverse”, ipotizzò Markus.
“Io invece penso che ce l’abbia con me”, tagliò corto Satèle. “Odio questa sensazione, come posso fare? Non voglio perdere mio fratello, lui e i miei zii sono le uniche persone che considero la mia famiglia. I miei genitori non sono quasi mai a casa, e quando ci sono mi trattano sempre male. Dicono tutti che i figli risentono dell’assenza dei genitori, ma nel mio caso non è proprio così. Certo, mi piacerebbe che fossero più presenti, ma se essere presenti per loro significa rimproverarmi per ogni cosa e farmi sentire una nullità, allora preferisco che non ci siano. E sai cos’è che mi fa più male? Che cercano di ridurre i miei sogni in frantumi in tutti i modi possibili. E io non ce la faccio più. Io e Casey abbiamo sempre sopportato tutto quanto insieme, ma adesso sono sola.”
Appena Satèle ricominciò a piangere, Markus le strofinò la schiena e la strinse più forte. “Non devi mai pensare che sei sola”, la rassicurò dolcemente. “Mi troverai sempre al momento del bisogno, ti darò il mio aiuto ogni volta che vorrai, perché tu sei la mia migliore amica.”
Satèle sciolse l’abbraccio e drizzò la schiena. “Davvero?”, chiese commossa.
Vedendo il suo broncio trasformarsi in un sorriso luminoso, Markus sorrise di rimando e disse: “Davvero. Tu sei la prima persona che mi ha accettato per quello che sono, senza provare a cambiarmi, in più mi ascolti e mi capisci come solo tu sai fare e questo mi rende molto felice. Sai, penso che i nostri ‘vuoti’ in un certo senso combacino. Forse è per questo che ci capiamo, non trovi?”
“Sono perfettamente d’accordo, migliore amico”, convenne Satèle. Provò a ricambiare l’abbracciò che le aveva dato, e sorprendentemente Markus non si sottrasse come aveva fatto in passato. “Mi ci voleva, sai?”, ammise. “È una bella sensazione, dopotutto.”
“Allora ti prometto che ti darò un abbraccio ogni volta che lo vorrai”, gli assicurò Satèle.
“Okay”, accettò Markus, “ma in cambio tu devi promettermi due cose.”
“Quali?”
“Che parlerai a tuo fratello di come ti senti e che dirai ai tuoi genitori che il professor Davis ti vuole nel glee club. L’hai detto tu che ‘cercano di ridurre in frantumi i tuoi sogni’, quindi presumo che sia per colpa loro che hai rifiutato la sua proposta.”
Satèle annuì. “Non saprei da dove partire in entrambi i casi.”
“Devi semplicemente cogliere l’occasione giusta. Con tuo fratello potresti parlare oggi stesso quando torni a casa, invece con i tuoi potresti approfittare di un momento in cui ti sembreranno più tranquilli, così sarai sicura che proveranno almeno ad ascoltarti anziché dirti categoricamente di no. L’importante è essere schietta. Di’ loro tutto quello che pensi, senza nascondere niente. Non fare lo stesso errore che ho fatto io, perché a volte tacere peggiora solo la situazione. Non tenerti tutto dentro, Satèle.”
“Sat”, suggerì lei. “Dalle persone a cui tengo mi faccio chiamare Sat.”
“Va bene, Sat”, ammiccò Markus. “Adesso, però, parliamo di cose più allegre. Mi ha fatto piacere sfogarmi e lasciarti sfogare, ma non vorrei che il nostro pomeriggio insieme si trasformasse in un dramma da teatro”, rise.
“Hai decisamente ragione”, concordò lei.
Provò ad alzarsi per andare a posare il cellulare sulla scrivania di Markus, ma inciampò perché non si era accorta di avere i lacci delle scarpe sciolti.
“Attenta!”, gridò allarmato il ragazzo. Provò ad afferrarla per impedirle di schiantarsi, ma finì a cavalcioni su di lei, che atterrò di schiena.
Udendo il tonfo sordo del suo corpo che cadeva a terra, Markus chiuse istintivamente gli occhi e quando li riaprì il suo volto era a pochi centimetri da quello di Satèle. I suoi occhi di ghiaccio sembravano ancora più belli visti da così vicino, erano gli occhi azzurri più belli che avesse mai visto. Tutto di lei era ciò che di più bello avesse mai visto, e solo in quel momento ebbe il coraggio di ammetterlo a sé stesso, di ammettere che quello che provava per Satèle andava ben oltre l’affetto che un ragazzino poteva provare nei confronti di una migliore amica.
Era da tempo che pensava che i sentimenti che nutriva nei suoi confronti si fossero evoluti, ma quel giorno, appena l’aveva vista varcare l’ingresso di casa sua, trovandola più carina del solito nonostante lei non avesse nulla di diverso dal solito, ne aveva avuto la conferma definitiva.
Markus pensò a tutte le volte che arrossiva vedendola semplicemente sorridere, a tutte le volte in cui si sentiva geloso quando la vedeva ricevere attenzioni da altri ragazzi e non ebbe più alcun dubbio: si era innamorato di lei.
Non l’avrebbe mai creduto possibile per uno come lui, che aveva imparato ad anteporre la ragione ai sentimenti per mostrarsi invulnerabile, invece era successo.
Markus si era innamorato di Satèle semplicemente perché era Satèle, e quella era l’unica spiegazione che riusciva a darsi. Non avrebbe saputo stilare un elenco di tutte le cose che amava di lei e nemmeno una classifica di quelle che gli piacevano di più, perché tutto di lei gli piaceva. Gli piacevano i suoi occhi, il suo nasino all’insù, le sue labbra rosee, i suoi capelli candidi e setosi, la sua pelle diafana e il profumo che emanava. Gli piacevano le sue gambe lunghe e affusolate, le sue braccia sottili, il suo vitino di vespa e i suoi fianchi stretti.
Era da un po' di tempo che Satèle si faceva paranoie sul suo corpo, lo sapeva in quanto chiedeva spesso a lui e a Angel se la trovassero troppo magra, perché a detta di alcune ragazze lo era. Loro le dicevano semplicemente di non fissarsi troppo, ma Markus sarebbe stato disposto a gridarle che era perfetta così com’era pur di vederla sorridere, perché gli piaceva.
Gli piaceva il suo sorriso, il suono della sua risata, il suono della sua voce e non solo quando cantava. Gli piaceva quando aggrottava la fronte, gli piaceva quando si mordeva le labbra, gli piaceva quando si sedeva scomposta e quando faceva i palloncini con la gomma da masticare in classe, senza che i professori se ne accorgessero. Gli piaceva il fatto che avesse la propria personalità, le proprie idee, il proprio modo di fare, il fatto che lo capisse come se lui fosse un libro aperto che non lasciava spazio alle interpretazioni.
Gli piaceva e l’aveva confessato a sé stesso, ma avrebbe mai trovato il coraggio di confessarlo a lei?
Quell’interrogativo rimase senza risposta, in quanto il flusso dei suoi pensieri venne interrotto da sua madre che aprì la porta della stanza senza preavviso e li vide in quella posizione piuttosto... ambigua.
In preda al panico, i due ragazzi si rimisero in piedi con uno scatto fulmineo e finsero che non fosse successo nulla, assumendo delle pose perfettamente rilassate.
“Si stavano baciando?”, chiese la piccola Lily alla mamma.
Markus e Satèle divennero il ritratto della vergogna, avrebbero voluto sprofondare.
Prima che Emily potesse avanzare qualche ipotesi, Satèle si affrettò a spiegare che le si erano sciolti i lacci delle scarpe e che questi avevano fatto inciampare entrambi, mentre Markus negò energicamente che si stessero baciando.
“Tranquilli, ragazzi, sono solo venuta a chiedervi se vi andasse di fare merenda”, li rassicurò Emily.
Markus e Satèle tirarono un sospiro di sollievo e pensarono che fosse un’ottima idea. La giornata stava per volgere al termine e volevano sfruttare al meglio tutto il tempo che gli era rimasto insieme.
 
“C’è ancora una cosa che vorrei chiederti”, disse Satèle mentre radunava le proprie cose per prepararsi a tornare a casa.
Stava per fare buio e i due avevano da poco finito di mangiare i muffins che aveva preparato Emily in camera di Markus, che rispose: “Vai.”
“Io ti ho detto che da grande vorrei fare la cantante, ma non so ancora che vorresti fare tu. Come mai? Io ti vedrei molto come scrittore, sai”, dichiarò Satèle. “Insomma, i tuoi temi in classe sono sempre i migliori e ho visto che la fantasia non ti manca. Voglio dire, ti sei inventato nomi come Dan Geruss e Genny Tull per rincoglionire un bidello…”
“Magari un giorno mi verrà davvero in mente di scrivere un libro, chissà”, fece Markus. Sul suo volto si dipinse un sorriso sbilenco, beffardo, di cui solo lui conosceva il significato, proprio come del libro che stava già scrivendo.
 
Ricordati di mantenere le promesse”, le aveva raccomandato Markus prima che lei se ne andasse.
Satèle era appena arrivata e vide che Casey era già fuori la porta ad aspettare che lei l’aprisse visto che, essendo uscita di casa per ultima, aveva portato con sé le chiavi.
“È da molto tempo che aspetti?”, gli chiese.
“No, sono arrivato solo cinque minuti fa”, disse Casey. Sembrava un po' stanco e aveva le guance lievemente arrossate, forse lui e il suo amico avevano camminato sotto il sole.
“Capisco. Vi siete divertiti?”
“Puoi scommetterci, siamo andati dappertutto!”, disse lui. “Tu, invece? Sei stata bene a casa di Markus?”
“Sì, siamo stati bene”, rispose lei, “e abbiamo parlato molto”.
Ricordati di mantenere le promesse, le aveva detto Markus.
Non c’era da temere, perché Satèle ne stava mantenendo una proprio in quel momento. “Però”, aggiunse infatti, “penso che anche noi due abbiamo qualcosa da dirci.”





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