HUMANA
CAPITOLO 1
“9
vite”
Siberia
Fredda e grigia si preannunciava la
giornata. Con il bianco della neve che ti circondava, da qualsiasi
parte tu guardassi. Tutto il suolo ne era pesantemente ricoperto. Gli
alberi, anch’essi bianchi, osservavano silenziosi la natura intorno
a loro. Permettendo difficilmente al sole di posare i propri deboli
raggi per terra. Il suo unico alleato era l’improvviso vento che,
ad intervalli totalmente irregolari, squassava le enormi piante.
Provocando, quasi sempre, la caduta verticale di misere quantità di
neve.
Era questo lo scenario in cui
percorreva i suoi pesanti, dato che in certi punti riusciva a
sprofondare nella neve ben oltre il ginocchio, passi il giovane Igor
Wansa. Nonostante la sua giovane età (all’incirca sugli 11/12
anni) il ragazzino attraversava la foresta in piena tranquillità. In
fondo erano quelli i paesaggi in cui era nato e, relativamente,
cresciuto. Ben lontani dalla capitale Mosca, la sua famiglia era da
decenni che abitava in quella zona impervia della Russia. Dentro una
solida casa in legno con una logora stufa, che veniva alimentata
dallo stesso legno che il piccolo russo stava andando a procurarsi.
Suo padre gli aveva spiegato
chiaramente il luogo in cui aveva abbattuto l’ultimo albero.
Inoltre si fidava ciecamente di suo figlio, sapendo perfettamente
l’elevata conoscenza che il giovane aveva ormai acquisito del
territorio.
Fischiettando un antica filastrocca
sovietica, insegnatagli dalla nonna materna, Igor era finalmente
arrivato nel suddetto luogo. Tentò di caricarsi sulle braccia
piegate più legna possibile, impresa che non era certo facilitata
dall’ingombrante, ma assolutamente necessario, giubba adatta per
mantenere un sufficiente calore corporeo anche a quelle latitudini.
Anche le stesse gambe non erano facilmente piegabili, data l’elevata
rigidità degli stivali che portava ai piedi.
Quando si ritenne comunque soddisfatto
del suo operato, il ragazzino diresse il suo volto, caratterizzato da
capelli di un castano indeciso tra il biondo e il moro e da occhi
verdi scintillanti, verso la direzione di casa, di cui si poteva
anche intravedere leggermente la sagoma, tra la selva. Purtroppo
quello che vide non gli dette la stessa tranquillità che poteva
ricevere con una visione della propria abitazione.
Un enorme sagoma nera si stagliava di
fronte a Wansa. La prima cosa che venne in mente al ragazzo era la
possibilità di trovarsi davanti un orso, dato che non era certo il
primo bambino sbranato da un orso da quelle parti, ma poi si accorse
delle sembianze tipicamente umane dell’essere. Le sue intenzioni
furono però presto rivelate.
Subito l’uomo protese le sue grandi
braccia nel tentativo di afferrare il piccolo siberiano. Ma grazia
proprio alla sua statura minuta, Igor riuscì ad evitare l’attacco
diretto, rischiando quasi di rimanere strozzato dalla propria sciarpa
rossa, ricordo di sua madre, che rimase tra le mani dell’aggressore.
Il ragazzo si liberò immediatamente
del carica di legno che portava con se e cominciò una disperata
corsa verso casa. Purtroppo però le leve dell’uomo erano
nettamente superiori ed in un attimo gli fu nuovamente addosso.
Il ragazzo sì senti pizzicare al collo
e, reso rabbioso da ciò, si liberò dell’oppressione dell’uomo e
ripartì nella sua fuga. Qualcosa però in lui non andava. Aveva
perso completamente il senso dell’orientamento e le gambe si erano
fatte estremamente pesanti. In più le comprensibili lacrime che gli
uscivano dagli occhi non facilitavano di certo la sua visuale.
Percorse qualche metro in direzioni
sparse e poi, d’un tratto, cadde esanime sul suolo ghiacciato.
Londra
Adorava la sua dimora. Ed ancora di più
adorava la sua camera da letto. Difficilmente si sarebbe potuto
trovare in tutta Londra, e perché no anche in tutto il mondo, una
tale poetica unione tra classico e moderno.
Un originale orologio a dondolo del
‘700 che scandiva le ore della giornata, per molti il suo suono era
solo fastidio mentre per Jack era talmente suadente. Il suo enorme
letto matrimoniale, nonostante la sua decisa scelta di stato civile
single, adornato da fiocchi di seta blu e onde di velluto sulle
coperte. Le pareti viola erano riempite da quadri di qualsiasi
misura. Alcuni erano ritratti di parenti antichi quanto la tela su
cui erano raffigurati, altri straordinari scenari campestri con
figure equestri. Librerie in noce con lunghi scaffali occupati da
enormi quantità di libri, la maggior parte di essi rilegati in oro e
provenienti dalla migliore letteratura classica britannica. Sulla sua
scrivania vi si potevano trovare particolari sopramobili come teschi
di cristallo, uno splendido esemplare di topazio, calamaio con penna
d’anatra appartenente alla sua famiglia da generazioni e
generazioni ma, a sorpresa, il suo personal computer, che utilizzava
proprio per acquistare quei particolari utensili di cui andava matto.
Tutto questo scenario era pervaso da un denso odore di rose.
Ora lo stravagante Jack Lincon era
pensieroso con lo sguardo oltre la finestra, che aveva le esatte
sembianze di un oblò da nave da crociera. L’unica pecca di tale
paradiso era proprio quello: ciò che si vedeva oltre il vetro.
La strada era di certo una delle più
aristocratiche della capitale inglese ma anche una delle più noiose
in assoluto, sempre per i particolari gusti di Jack, allietata
soltanto dal canto di qualche uccello canterino.
“Ufff… che tristezza!” dichiarò
il giovane mentre osservava, con aria decisamente disinteressata, un
bobbie che proseguiva la sua ronda sul marciapiede dal suo lato della
strada.
Jack era un bel ragazzo di 25 anni,
nonostante il suo stile di vita o forse proprio grazie ad esso. Era
alto 1 metro e 85, capelli indecisi tra il castano chiaro e lo scuro,
occhi indecisi tra il marrone e il verde e uno stile di vita indeciso
tra la nobiltà e la depravazione. Se c’era una cosa di deciso
nella sua esistenza era la sua passione innata per i vini.
“Una rinfrescatina alla gola mi
sembra alquanto adeguata…” osservò il ragazzo prima di
incamminarsi verso una scala a chiocciola blu che lo portava
direttamente al piano subito inferiore a quello in cui si trovava
finora.
Il giovane inglese indossava una
classica morning cloat di velluto rosso, con pantaloni di eguale
tessuto e colore e delle scarpe in pelle scure. Procedeva lentamente
ma con uno stile elegante discendendo i gradini della scala. Ogni
tanto si beava passandosi la mano tra i capelli lunghi poco oltre le
spalle.
Sceso l’ultimo gradino si trovava
finalmente davanti alla sua meta: La sua personale cantina,
arricchita da una preziosa collezione di vini degna del miglior
sommelier. Mr. Lincon camminava ora, sempre con passo elegante,
davanti ai vari raccoglitori in legno che presentavano in essi varie
bottiglie in vetro. Dalla forma ricordavano tanti castelli medievali.
“Château laFitte… Château
Chasse-Spleen… Gran Vino…” li nominava ad uno ad uno. Sempre
più annoiato anche solo dalla scelta di un vino da sorseggiare. Con
sua enorme sorpresa trovò una bottiglia senza alcun tipo di
etichetta, sopra un tavolo lì vicino. La aprì, sentì che l’aroma
era ottimo e quindi si decise ad assaggiarne un sorso. Recuperò da
un’elegante credenza lì vicino un fine bicchiere di vetro, ne
versò giusto un dito dentro la coppa, lo assaggio inizialmente con
l’olfatto ed, infine, con il gusto.
Poi la stanza cominciò a girare, mai
una così minima quantità alcolica gli aveva fatto quell’effetto.
Tutto si fece più buio e al dandy parse, stranamente, di udire anche
dei passi prima del collasso.
Parigi
Silenzio: quel silenzio assordante, un
attimo prima che parta la musica. Il cuore inizia a battere più
velocemente.
Silenzio di un attimo che sembra interminabile…
ed ecco la prima nota della canzone.
Inginocchiata, la testa
verso il basso sale di scatto, esce verso l’esterno il braccio
destro, poi il sinistro e si uniscono a completare un por de bras,
accompagnando verso l’alto il movimento del corpo che torna poi
nella posizione iniziale.
Con la gamba sinistra che si allunga
lentamente verso dietro, compie una spaccata, porta la gamba destra
verso la sinistra e si spinge lentamente a terra, supina. Si gira
prona e con una spinta sulle braccia, si inginocchia e si alza
lentamente, lo sguardo al pubblico.
La ballerina compie 3 passi avanti,
porta il piede sinistro in cupè sul tallone, altri 3 passi verso
dietro e cupè sul collo del piede. Si sposta verso destra, il piede
sinistro chiude sulla caviglia del piede destro in cupè laterale,
apre morbida in battement alla II e richiude. Braccio destro
accompagna apertura e chiusura della gamba. Compie una piroette, si
ferma, scende quindi in spaccata e ritorna in ginocchio, gira sulle
ginocchia e si rialza.
La musica lentamente finisce e inizia la
risposta del pubblico: applausi. La ballerina inspira, alza il
braccio destro e scende con il busto e il braccio, in un profondo
inchino."
“Li ho resi felici anche stasera…”
pensa la giovane artista mentre ansima silenziosamente nel
riprendersi dalla fatica della sua ultima perfomance.
Si chiude il sipario.
Ancora con i vestiti di scena addosso,
Frédérique Arone, prima ballerina francese con i capelli castani
chiari agghindati in un elegante chignon e gli occhi del medesimo
colore pieni di soddisfazione, si avviava verso il suo camerino
personale. Possederlo non gli era mai piaciuta come idea. Preferiva
molto di più condividere la sua esistenza con i suoi colleghi anche
fuori dal palcoscenico.
Era a poco più di metà del suo
percorso quando ecco che comparve il direttore del teatro che
ospitava la sua compagnia ormai da cinque settimane “Straordinaria
Frédérique! Riesci sempre a farci emozionare tutti! Fantastica,
davvero fantastica!”.
Le parole erano sempre più o meno le
stesse, ma Frédérique sorrideva sempre dolcemente, magari evitando
le mani del suo interlocutore che provavano ogni qual volta a toccare
il suo corpo.
“Grazie a lei messieur Gérard per
l’opportunità che sta dando a me e a tutta la compagnia” rispose
ai soliti complimenti la ballerina.
“Questo e altro per la bella arte!”
s’inchino l’uomo.
“Ora mi scusi ma devo andare a
cambiarmi, grazie ancora messieur Gérard ” si congedò lei.
Finalmente raggiunse la sua meta: il
solitario camerino della prima ballerina.
Il sistema di interfono per ascoltare
quello che succede sul palco, l’armadio corredato di diversi
appendiabiti con annessi vari costumi di scena, il manifesto
dell’opera rappresentata “”, la porta che dava sul suo bagno
personale, lo specchio contornato da due file di lampadine disposte
verticalmente, che poi si riunivano sul lato orizzontale superiore,
che dava direttamente sul tavolo per il trucco. Sopra di esso, oltre
ai vari cosmetici presenti di norma, vi trovava spazio anche un
fastoso mazzo di rose. Non era chiaramente il primo che la donna
riceveva, ma era sempre un piacere trovarne di nuovi in camerino.
Questo però, piuttosto stranamente, non presentava alcun tipo di
biglietto, ma allo stesso tempo questi fiori scarlatti avevano un
così dolce profumo. Frédérique si allungò per afferrarli e
porgerli il più vicino al suo piccolo naso. Lasciò però subito la
presa. Un suo dito cominciava a sanguinare. A quelle rose non era
stata tolta alcuna spina.
“Ma è possibile?” si chiese la
giovane tra sé e sé, mentre con lo sguardo controllava la sua
ferita, poi l’intero camerino cominciò a roteare sempre più
velocemente e tutto si fece buio attorno a lei.
Trento
“Bene figliolo, va e rendimi fiero di
te!”.
Questo era tutto quello che il signor
Alberti aveva da dire a suo figlio, Andrea, mentre si apprestava a
lasciare case per effettuare il servizio militare.
“Come vorrei riuscire a rendere fiero
me stesso invece” pensava il giovane mentre si apprestava a salire
sulla camionetta militare, che di lì a breve lo avrebbe condotto al
campo di addestramento assegnatogli.
Il viaggio ovviamente non presentava
particolari comfort in generale. Inoltre la compagnia presente non
suscitava spontaneamente grande euforia. Tutti fieramente convinti
della scelta di vita che avevano preso. O almeno così doveva
trapelare. In particolare, molti entusiasmavano l’autorità del
loro futuro maggiore, il comandante Rossi.
Il ragazzo, che teneva i suoi capelli
castani chiari, quasi biondi, ben nascosti sotto il berrettino
mimetico, aveva appena socchiuso i suoi occhi altrettanto chiari
quando una buca, presa a quanto pare ad una velocità piuttosto
elevata, lo riporto al triste stato attuale della sua esistenza.
Decise che era decisamente meglio sognare. Tanto qualsiasi cosa
avesse incontrato nel regno di Morfeo, sarebbe stato sicuramente
migliore rispetto a quel grigio ambiente spartano.
Il giardino era quello di casa sua, non
poteva sbagliarsi. Il tempo atmosferico era ben diverso da quello che
aveva lasciato nel mondo reale. Il grigiore di tristi nubi aveva
lasciato il passo allo splendore di un sole abbagliante.
Il ragazzo percepì il sentore di
voltarsi, come capita nei sogni dove ognuno è il regista, per
trovarsi di fronte la propria ragazza. Francesca.
Questa lo accoglie immediatamente con
uno dei suoi ipnotici sorrisi. Gli si avvicina e gli sussurra
qualcosa all’orecchio.
“Non arrenderti”.
Nonostante i sensi siano più attenuati
nel mondo onirico, il giovane comprende perfettamente le parole della
sua amato, purtroppo non decifrandone perfettamente il significato.
“Che cosa stai dicendo amore?”
chiede a lei in attesa di capire.
La donna apre leggermente le proprie
carnose labbra dalle quali però non uscirà alcuna parola.
Andrea spalanca gli occhi. L’ambiente
è tornato ad essere tetro come prima. Questa volta però si presente
completamente sottosopra. L’uomo allora cerca subito di focalizzare
la sua attenzione, notando immediatamente i suoi compagni nella sua
medesima situazione, alcuni ridotti in stato di incoscienza. Poi
cominciano ad arrivare delle voci lontane.
“Non muovetevi…”.
“Vi tiriamo fuori noi…”.
“Fate piano…”.
Ad un certo punto Andrea percepì, in
maniera sempre molto ovattata, di essere trascinato fuori da quella
trappola di lamiere.
“Come ti senti figliolo?”.
“Secondo lei come dovrei sentirmi
dottore?” fu l’unica risposta che il futuribile soldato riuscì
soltanto a pensare.
Purtroppo lo stato di torpore, dovuto
ad un dormiveglia ancora attivo, non gli permetteva di percepire con
esattezza, tramite le sensazioni di dolore, quale punto del suo corpo
era particolarmente lesionato e, soprattutto, di quanto era
lesionato.
D’un tratto cominciò ad essere
circondato da persone avvolte in candidi camici bianchi. Questi, che
sembravano molto più silenziosi rispetto al loro precedente collega,
cominciarono ad applicare sulla sfortunata vittima dell’incidente
dei bendaggi medici.
Il ragazzo accusò inizialmente un
momentaneo senso di sollievo, successivamente la sua condizione
peggiorò. In un attimo la sua testa iniziò a vorticare senza sosta,
portandolo inevitabilmente alla perdita dei sensi.
Columbia Britannica
Tutta la gloria della sua tribù,
proveniente da un radioso passato, era ora racchiusa dentro quel
misero camper, nella zona resa famosa soltanto dalla presunta
presenza della creatura denominata Ogopogo. Geran Giunan, nerboruto
indiano d’America, si trovava proprio dentro di esso, con gli occhi
chiusi per contemplare tutto ciò.
Il suo era il popolo degli Shoshoni,
conosciuti anche come “popolo del serpente”, ed originariamente
erano situati nell’attuale Idaho. Dopo quello che verrà ricordato
come il massacro di Bear River, in un epoca in cui lo stesso Giunan
non era ancora nato, iniziò la loro lunga e faticosa migrazione.
L’odore d’incenso che si espandeva
per tutto l’abitacolo permetteva a Giunan, ormai entrato in stato
di trance, di rivivere quei cruenti momenti. Nonostante le dure
battaglie con altre tribù come i Cheyenne, i Crow, i Lakota ed i
Piedi Neri, niente li avrebbe potuti preparare per quel massacro.
Quel giorno, gli stessi cervi e le loro
amiche marmotte furono sorpresi dal repentino attacco delle truppe
americane, tanto non fare in tempo ad avvisare gli unici che potevano
aiutarli: Gli umani dalla pelle rossa. Quest’ultimi già avevano
perso la loro fiducia verso i bianchi, dopo l’invasione nei loro
territori di caccia, vedendo gran parte della proprio cacciagione
depredata dagli invasori. A comandare i nemici vi era il colonnello
Patrick E. Connor che, nonostante non potesse contare sull’appoggio
dei mormoni, aveva riunito sotto di sé un discreto esercito. Non lo
fermarono nemmeno le potreste di alcuni ufficiali, i quali
consideravano la contea di Franklin facente parte dello stato dello
Utah e non dell’Idaho. Ma gli Shosoni non fuggirono dalla lotta. Lo
dovevano ai loro antenati. Lo dovevano per vendicare l’impiccagione
di Pugweenee. Allo stesso tempo i soldati dovevano, dalla loro,
vendicare quello che viene ricordato come il massacro nei pressi di
Fort Hall. Questa battaglia presentava un particolare significato
anche per l’indiano Acqua Che Scorre, combattere contro quella
stessa razza che lo aveva abbandonato quando era ancora in fasce.
Vicino a quello stesso fiume che avrebbe conservato i corpi di
quattro guerrieri shoshoni per un mancato riscatto. Gli stessi pesci
presenti nel fiume adiacente si ritirarono per lasciare spazio
all’immane tragedia. Tra i Toquashes, la parola che gli shoshoni
utilizzavano per riferirsi ai soldati, vi era stato anche un piccolo
ammutinamento. Quelli rimasti a loro volta furono divisi in due
gruppi, il terzo reggimento fanteria volontari della California e il
secondo reggimento cavalleria volontari della California, per
pattugliare a rotazione le zone di conflitto. I primi ad accorgersi
di loro furono tre compagni che stavano trattando dei sacchi di grano
da un cittadino. Fortunatamente i tre riuscirono a scappare, anche se
furono costretti ad abbandonare i loro rifornimenti per essere più
leggeri nella fuga a cavallo. Capo Orso Cacciatore insieme agli altri
capi shoshoni, tra cui vi era Capo Serpente Pazzo, antenato dello
stesso Geran, erano pronti a difendersi a tutti i costi, compreso
l’uso di armi da fuoco venute in loro possesso. Ciò sorprese i
soldati che furono respinti, nel loro primo attacco frontale, da una
pioggia di piombo. Purtroppo, dopo circa due ore dall’inizio della
battaglia, le munizioni, da parte degli Shoshoni, terminarono. Fu
allora che si scatenò la furia omicida dei Toquashes. Nonostante i
valorosi guerrieri indiani erano armati dei loro fidati tomahawk e di
archi e frecce, nulla poterono contro le bestie che avevano contro.
Purtroppo la loro follia non risparmio le donne ed i bambini. Le
prime furono violentate ed uccise, oppure viceversa. Ai secondi fu
riservato un trattamento anche peggiore: come fossero panni sporchi,
furono afferrati per le caviglie e violentemente sbattuti su tutto
ciò che di solido trovavano nei paraggi. Alla fine di ciò fu dato
fuoco a tutto l’accampamento degli Shoshoni. Un fuoco che sembrava
bruciasse ancora attorno all’indiano.
Di colpo Giunan spalancò gli occhi e
vide che realmente l’ambiente intorno a lui stava bruciando.
D’impulso, l’energumeno scattò verso l’uscita, afferrando la
maniglia della porta. Per un attimo ritrasse la mano sentendola
bruciare a contatto con essa. Poi, con una potente spallata, piombò
all’esterno tossendo anche l’anima, per via del molto fumo nocivo
che aveva respirato all’interno.
“Tranquillo ci siamo noi” la voce
di un uomo prima dello spruzzo su di lui di un estintore. La schiuma
sul suo corpo possente ebbe inizialmente un effetto rinfrescante.
Subito dopo, iniziò a sentirla frizzare sulla sua pelle, per perdere
definitivamente conoscenza.
Pechino
“Benvenuti! Un tavolo per due?”.
La giovane asiatica salutò i clienti
appena entrati nel ristorante come gli era stato insegnato.
Uno dei due, entrambi coperti da un
lungo impermeabile marrone, rispose “Sì, grazie”.
La cameriera li accompagnò al loro
tavolo per poi dirigersi a procurargli il menù del locale.
“Onorevole Chang… Onorevole Chang…”
bisbigliava mentre già aveva in mano ciò che era venuta a cercare.
Una finestrella, situata nella parete
dietro la scrivania della cassa, si aprì di colpo, facendo
fuoriuscire da essa una buffa testa tonda.
“Cosa c’è Nikki? Perché mi
disturbi mentre sto lavorando?” chiese l’ometto che a malapena
arrivava all’apertura.
“Sono appena entrati due tipi
sospetti… secondo me”.
Il cuoco si issò ancora di più per
squadrare meglio i due interessati.
“Sciocchina! A me sembrano apposto.
Sbrigati e porta loro due bicchierini di sakè”.
“Ma è sicuro Onorevole Chang?”.
“Muoviti e non discutere!” e con
questa il proprietario chiuse definitivamente l’argomento, insieme
alla stessa finestrella.
Subito dopo la cinese poggiò davanti
ai due clienti i due aperitivi esclamando “Omaggio del ristorante!
Eccovi anche i menù”.
Questa volta a parlare fu il secondo
uomo “Non occorre signorina, ci porti due porzioni di ravioli al
vapore e altre due di involtini primavera”.
“Bene due ravioli al vapore e due
involtini primavera” ripeteva l’ordinazione la graziosa cameriera
“E da bere?”.
“Ci porti una bottiglia di acqua
naturale”.
“Bene grazie signori!” si ritirò
la donna per andare immediatamente a bussare alla stessa finestrella
di poco prima.
A comparire da essa fu nuovamente lo
stesso buffo ometto di prima “Che c’è ancora?”.
“Ecco l’ordine dei due loschi
figuri Onorevole Chang”.
“Ancora con questa storia! Torna
subito a lavoro!”.
In breve tempo, anche i due nuovi
arrivati furono serviti. Poco dopo però richiamarono l’attenzione
di Nikki Peng.
“Scusi signorina…”.
“Sì ditemi che succede?”.
“Possiamo parlare con il cuoco?”.
“Come mai?” domandò allarmata la
cinesina.
“Questo cibo ha un sapore strano…”
spiegò uno dei due.
In un lampo la morettina andò a
chiamare la persona richiesta. Chang Yu, questo il suo nome,
finalmente mostrava per intero il suo corpo corto e rotondetto.
“Cosa c’è che non va Onorevoli
signori?” chiese agli interessati, mentre si lisciava con le dita i
sottili baffi che presentava sopra il labbro.
“Si tratta di questi ravioli, hanno
un sapore decisamente strano…” iniziò l’individuo più vicino.
Il cinese aveva già molti anni di
esperienza alle spalle, nel campo della ristorazione, e per questo
sapevo come trattare con qualsiasi tipologia di clienti, anche i più
furbi.
Dopo aver assaggiato egli stesso la
pietanza da lui preparata, e non avendo riscontrato alcun tipo di
gusto anomalo, concluse “Non vi preoccupate, Onorevoli signori, vi
preparo subito un'altra portata e, in omaggio, vi porto anche due
biscotti della fortuna!”.
Tornato a brevi ma rapidi passi in
cucina, il cuoco soffocò un inizio di imprecazione per rimettersi
subito ai fornelli, per un’ordinazione di riso alla cantonese.
Poi il buio gli velò la vista sul
lavoro culinario, facendolo cadere a terra come un sacco di patate.
Città del Messico
“Signore e signori siamo finalmente
arrivati al main event della serata!” tornò a parlare l’urlante
ring announcer “E si tratterà niente meno che di un trios match,
tre contro tre, valevole per il Titolo Internazionale Trios” il
pubblico si esalta sempre di più ad ogni parola, nonostante bastasse
leggere i cartelloni della serata per sapere di cosa si trattasse,
“Andiamo ora a presentare i campioni in carica: El Dios!”.
All’annuncio del suo nome, il luchador salutò il pubblico alzando
un braccio in un boato generale. “El Demon!”. Qui invece la
reazione della gente fu totalmente diversa, data la natura di rudo,
ossia di cattivo, di questo lottatore. “Ed infine El Dragon!”.
Mentre in molti ancora mal digerivano l’accostamento tra i due
precedenti atleti, questo giovane ragazzo, proveniente dal Giappone,
stava dimostrando un gran potenziale come tecnico. “Dunque ora
passiamo agli sfidanti…” proseguì l’uomo vestito elegante
mentre, con la mano libera dal microfono, indicava altri tre
luchadores mascherati.
Tra il pubblico quella sera vi era
anche un trentenne messicano, di nome Bernardo Borghi. La sua
occupazione attuale non era ben chiara nemmeno a lui, tranne che per
essa aveva parecchi creditori sparsi per tutta la capitale.
Nonostante ciò, l’unico vizio a cui non voleva assolutamente
rinunciare era una serata di lucha libre. Mentre attendeva il suono
del gong per l’inizio della sfida, l’uomo, dai corti capelli
scuri e con baffetti sottili sul labbro superiore, continuava a
mandare rapide occhiate a tutto l’ambiente intorno a lui.
Purtroppo, mentre El Dios partiva
all’attacco, Bernardo si accorse di essere a sua volta sotto
attacco. Uomini di cui non era a conoscenza del nome, ma di cui
conosceva molto bene le facce, lo stavano cercando in tutta l’arena.
L’unica sua possibilità era la fuga immediata. Nel metterla in
atto, Borghi cercò di rimanere più abbassato possibile, mentre
passava davanti a gente furibonda per la sua temporanea presenza nel
proprio campo visivo. Intanto il fuggitivo continuava a tenere
d’occhio le sue minacce, mentre sul ring El Demon applicava sul suo
avversario una tapatia, conosciuta anche come Romero Special.
Forse proprio distratto da questa mossa
di sottomissione, il messicano batté con il ginocchio contro una
mano che stava afferrando un taco, facendolo ovviamente cadere.
“Figlio di puttana hai visto cos’hai
fatto al mio taco!” s’infuriò lo spettatore offeso.
“Mi scusi signore non vo…”
Bernardo s’interruppe bruscamente appena notò che i suoi
cacciatori lo avevano notato.
Subito si tuffò in una fuga disperata
che, dato l’enorme frastuono del pubblico, passava quasi
inosservata. Finalmente riuscì a raggiungere le scale di fuga,
appena in tempo per accorgersi che, di fronte a sé, stava
sopraggiungendo velocemente un suo possibile assalitore.
Quasi come avesse le ali ai piedi,
saltò quasi un’intera rampa, mentre ancora sentiva provenire dalle
sue spalle le minacce scurrili della gente che lo stava inseguendo.
In un attimo raggiunse l’androne per avviarsi verso l’uscita
principale, mentre El Dragon si apprestava ad effettuare il volo
dalla terza corda per lo schienamento decisivo.
Una volta fuori dall’impianto, Borghi
proseguì la sua fuga senza meta sui marciapiedi della città. Di
colpo si sentì strattonare da una mano e tirare lateralmente. Non
ebbe tempo nemmeno di fiatare che qualcuno gli tappò la bocca.
“Fai silenzio” disse una voce.
Dopo qualche secondo di silenzio,
l’uomo braccato osservò, da dietro quello che gli sembrava un
semplice cespuglio, i suoi aguzzini che correvano veloci verso quella
che doveva essere la sua stessa direzione. Dopo ciò, la mano si levò
dalla bocca.
“Chiunque tu sia, grazie amigo per
avermi aiutato…” ma nuovamente il messicano s’interruppe
quando, voltandosi per conoscere il volto del suo presunto salvatore,
iniziò ad avere la vista offuscata dall’oscurità, notando appena
un guanto nero che stringeva una salvietta bagnata da un liquido
misterioso.
Kinshasa
Ai confini della foresta pluviale, un
giovane del posto cerca di mimetizzarsi il più possibile con
l’oscurità che lo circonda. Tale impresa gli era resa ancora più
semplice dato il colore naturale della sua epidermide. Solo una cosa
stonava visibilmente su di lui: un piccolo vezzo rappresentato da
capelli biondo platino.
“Eccoli quei bastardi!” bisbigliò
tra sé e sé il ragazzo.
Nel suo campo visivo si materializzò
uno degli spettacoli più barbari. Una jeep con a bordo quattro o
cinque uomini stava inseguendo un elefante che, disperato, barriva
nella notte africana. I bracconieri iniziarono a sparare dei colpi
con dei fucili in loro dotazione. La fuga dello sfortunato pachiderma
si arrestò di lì a poco, con il rovinoso crollo a terra
dell’animale. Il nero Juna digrignava i denti dalla rabbia mentre
sentiva gli uomini bianchi complimentarsi a vicenda. Decise di
passare all’azione, purtroppo armato soltanto di furia cieca e
qualche sasso.
“Sporchi demoni bianchi! Avete rubato
i nostri diamanti, non farete altrettanto con il nostro avorio!”
inveiva urlando e lanciando le pietre verso di loro.
Questi ultimi, constatato la realtà
pericolosità del loro avversario, imbracciarono nuovamente le loro
armi da fuoco.
Col primo sparo, la rabbia che
offuscava la mente dell’attentatore svanì. L’uomo appartenente
alla tribù Teke tentò una ritirata disperata, con le pallottole che
gli sibilavano pericolosamente vicine.
“Oh signore ti scongiuro salvami!”
pregava mentre proseguiva la sua corsa.
Preghiere che si realizzarono una volta
raggiunto un fiume lì vicino. Juna, dopo aver dato prova di ottimo
corridore, si ripeté in veste di nuotatore, attraversando in un
attimo il corso d’acqua.
“Anf… grazie a dio… anf… sono
salvo” constatò mentre riprendeva fiato.
Clic.
Un suono talmente singolare che fu
subito riconosciuto dal fuggitivo. Voltato lo sguardo, si trovò di
fronte la fredda canna di una pistola.
“Cosa dicevi del tuo avorio?” gli
chiese sarcastico il suo probabile assassino.
Dopo poco anche gli altri cacciatori
raggiunsero il loro collega e, sorprendendo lo stesso uomo di colore,
decisero di legarlo ad un palo ben conficcato al suolo.
Il prigioniero, nonostante la
situazione disperata, continuava ad opporre resistenza, se non altro
verbale “Io sono nato in questo paese quando ancora si chiamava
Zaire e, vi giuro, il nostro popolo non si sottometterà a voi luridi
uomini bianchi!”.
Dopo questa ennesima ingiuria, uno dei
bracconieri puntò pericolosamente la canna del fucile verso di lui
“Ti conviene stare zitto, muso nero, altrimenti i tuoi parenti fang
dovranno preparare una scatola cilindrica per il tuo cranio!”
minacciò senza mezze misure l’uomo, dimostrando tra l’altro una
certa conoscenza artistica della nazione.
“Dici che possa andare per il capo?”
domandò uno degli altri individui, mentre era disteso sulla sabbia.
“Immagino di sì…” fu la risposta
sbrigativa.
“Allora posso procedere?” chiese un
terzo soggetto, alle spalle di quest’ultimo.
“Certo”.
Detto questo, quello che sembrava il
coordinatore del gruppo, ritirò l’arma dal fuoco dal viso del
giovane e si fece da parte. Dietro di lui, un nuovo cacciatore gettò
una secchiata contro il nero.
“Che cos’è?” interrogò i suoi
carcerieri sulla natura del liquido il prigioniero, dato che non
sembrava affatto acqua.
Ma questi non gli diedero risposta,
dato che la loro attenzione fu attratta da altro.
“Chi è là?”.
“Oh merda! È quel supereroe: è
Black Congo!”.
“Forza figli di puttana sparategli!”
Ma gli echi degli spari erano sempre
più lontani per Juna che aveva infine perso i sensi.
Indianapolis
“… Da quando l’Indianapolis Motor
Speedway è tornato a far parte della rosa dei circuiti per il
mondiale di Formula 1, mai un americano era riuscito a condurre in
testa questa gara sicuramente diversa dalle classiche che si svolgono
qua dentro, su tutte ovviamente la 500 miglia di Indianapolis. Ma
quest’oggi si sta scrivendo la storia grazie al giovane Johnny
Wayne…”.
Nel frattempo, nell’abitacolo della
monoposto in testa, il pilota al volante, appena menzionato con
enfasi dal telecronista, riversava la più assoluta attenzione
all’asfalto che gli scorreva veloce davanti agli occhi.
“Già essere arrivato prima nelle
qualifiche mi sembrava di per sé un mezzo miracolo, ma ora si fa
dannatamente sul serio!” pensava il ragazzo che, all’esordio tra
i grandi, una volta tolto il casco protettivo dalla testa, sfoggiava
una capigliatura caratterizzata quasi totalmente da un biondo acceso.
Fino a metà gara non si erano
verificati particolari incidenti, se non qualche ritiro per guasti
tecnici, ed il Gran Premio degli Stati Uniti si stava svolgendo nel
migliore dei modi. Purtroppo l’imprevisto è sempre dietro
l’angolo. Una delle vetture nelle retrovie, mentre percorreva le
curve 12 e 13, per intenderci le uniche che vedono coinvolto il
famoso ovale utilizzato per la NASCAR o la Indy, perse dell’olio
dal retro del motore, finendo poi in testacoda.
I giudici di gara furono subito pronti
a far entrare in pista la Safety car, comunicandoli immediatamente
alle scuderie ancora in corsa. Purtroppo però l’auricolare che
Johnny aveva in dotazione per parlare con i box era stranamente
silenzioso. Arrivando a tutta velocità nel tratto interessato, si
accorse troppo tardi dei cartelli esposti dai commissari di percorso
con su scritto “SC”.
“Oh cazzo!” furono le sue ultime
parole, quando si accorse della macchia d’olio sul cemento. La
macchina rigirò di colpo su se stessa per poi impennarsi, facendo
leva sul musetto, e rimbalzare pericolosamente su tutto l’anello.
In tutto quello che viene denominato “The racing capital of the
world” il pubblico trattene il fiato, in totale silenzio. La
vettura concluse la sua folle corsa ribaltata.
In pochi secondi, tutte le procedure di
emergenza si attivarono. I medici si precipitarono in pista
accorrendo il pilota, che in quel momento si trovava ancora a testa
in giù. Velocemente lo tirarono fuori dall’abitacolo, sempre con
il rischio che la macchina prendesse fuoco.
“Mi senti figliolo? Sei cosciente?”
domandò una voce indistinta al pilota, mentre gli veniva tolto il
casco che, fortunatamente, aveva retto all’urto.
“C-che… è successo?” biascicava
Wayne mentre tentava di mettere a fuoco, con i suoi occhi castani, il
mondo attorno a lui.
Un’altra voce si fece spazio tra le
altre, mentre la gara era momentaneamente sospesa.
“Lasciate fare a me, questo lo
aiuterà”.
Il biondo si sentì tirare su la manica
della tuta e, successivamente, penetrare la pelle dell’avambraccio
da quella che sembrava una punta di siringa.
“Ehi, aspetta un attimo, ma tu fai
parte dello staff?”.
“Giusto! Dov’è il tuo badge?”.
“Agenti fermate quell’uomo!”.
Tante voci che turbinavano nella testa
del giovane, mentre il mondo si faceva sempre più scuro. Solo
un’ultima frase arrivò alle orecchie della nona vittima, da quella
che gli parse essere una voce femminile.
“Ok
ora basta, raduniamoli tutti!”.
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