Pool party in a dream

di Panterah
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L’interno del locale era molto piccolo e, per questo, l’atmosfera era calda e confortevole. Salutai Gianmarco, il barista, e lui ricambiò con un sorriso da sotto la sua lunga e folta barba castana... ormai ero di casa lì, così, lui si permise di farmi l’occhiolino quando vide Shon entrare alle mie spalle. Alzai gli occhi al cielo, divertita, per poi dirigermi sicura verso il mio tavolo preferito. Per quanto conoscessi il pub a memoria, alzai comunque lo sguardo verso il soffitto, tappezzato di sottobicchieri di tutte le marche di birra immaginabili; poi, verso i muri, con appesi poster molto artistici sempre riguardanti la bevanda dorata e, infine, mi sedetti al tavolino di legno scuro in un angolo sul fondo del locale. In inverno, era vicino a una piccola stufa e, in estate, si trovava sotto l’aria condizionata; da quel punto, si vedeva tutta la sala in cui consisteva l’intero luogo e, nel caso fossero venute band a suonare dal vivo, il minuscolo palchetto a loro riservato si trovava giusto nell’angolo opposto.
Lasciai a Shon la sedia che dava sull’interno, e lui si sistemò di fronte a me. Subito Laura, cameriera e fidanzata di Gianmarco, venne a salutarci e ad elencarci le birre del giorno. Quella sera, i suoi capelli erano di color arancione acceso e raccolti in due lunghe trecce, ma ero sicura che in un paio di settimane, come sempre, sarebbero cambiati. Ordinammo, e lei se ne andò soddisfatta e pimpante... il ragazzo davanti a me non era l’unico a bruciare costantemente di un’energia incontenibile.
Spostai l’attenzione su di lui, illuminato dalla soffusa lampada arancione sopra la nostra testa; quella sfumatura di luce mi ricordò il riverbero del fuoco di un accendino quando qualcuno si accende una sigaretta di notte, facendosi schermo con la mano per proteggersi dal vento. Sorrisi, e vidi che lui aveva posato lo sguardo proprio sulla mia bocca. Senza spostarlo, provò a dire qualcosa, ma si interruppe, passandosi poi il pollice sul labbro inferiore.
“Ehm...” si mosse un po’ sulla sedia, e ripeté il gesto... dopo due secondi decise di buttarla sul ridere e, nel tono più sdrammatizzante possibile, disse: “...Hai ancora un po’ del rossetto di Sara...”
Non gli lasciai nemmeno finire la frase, afferrai una salvietta dalla scatolina di legno dove erano riposte (e questa volta erano quelle funzionanti) e, mentre il mio volto andava a fuoco, cercai di ripulirmi il più rapidamente possibile. Abbassai il tessuto, solo un po’, e gli lanciai un’occhiata interrogativa; lui annuì, afferrando poi per me i boccali pieni che Laura ci aveva portato. Grata che ci fosse una distrazione, brindai con lui, che pareva ancora piuttosto divertito. Stava ammirando la tinta ambrata della birra, quando disse, totalmente dal nulla:
“Però non ti è dispiaciuto... eh?” capii subito a cosa si riferiva: sua sorella. Sembrava curioso, un po’ come lo sarebbe stata Alessia se lo fosse venuta a sapere. Per quanto strane, ero abituata a domande sulla mia bisessualità... dovevo aver dato a vedere che, per me, accettare di partecipare a quello scherzo era stato tutt’altro che un problema.
Risposi con tono casuale “Beh... no?” bevendo un sorso.
Lui stabilì un contatto visivo e continuò tranquillamente la conversazione; si era sistemato sulla sedia e, ora, il linguaggio del suo corpo si era rilassato ed aperto, a suo agio come se fossimo stati amici di lunga data.
“Sai, mi piacerebbe molto poterti presentare a mia sorella in modo più... ufficiale” i gomiti appoggiati al tavolo, notai che gesticolava parecchio. Apprezzai subito la mancanza di commenti sul mio orientamento sessuale: l’aveva confermato e poi aveva proceduto a trattarlo come una cosa normalissima, accennando a Sara come si sarebbe parlato di un ragazzo a qualsiasi altra. Mi colse anche di sorpresa, di sicuro la sua proposta era un plot twist inaspettato.
“Ah sì?” ressi il gioco, ero curiosa, e lui sembrava non aver concluso la frase
“Sì.” alzò gli occhi al cielo “Peccato che stia già insieme a quel...” si trattenne, pareva leggermente frustrato, strinse gli occhi per pensare a una parola appropriata, ma presto si arrese con un sospiro “...ah, tecnicamente non posso dire nulla sul suo ragazzo, perché non le ha fatto nulla di male, ma...”
Bevvi un sorso di birra e mi sporsi sul tavolino: la situazione si faceva sempre più bizzarra e interessante. In uno dei luoghi più nascosti del mio immaginario, mi dissi che, se all’entrata avevo incontrato lo Stregatto e il Bianconiglio, lui forse era il Cappellaio Matto.
“...ma non ti convince?” provai a suggerire.
Schioccò le dita “Esatto” sembrava che l’argomento gli stesse molto a cuore, perché il suo tono si era improvvisamente acceso: glielo leggevo nelle iridi azzurre che aveva pensato parecchio a quella questione.
Prese un respiro profondo e provò a spiegarmi meglio.
“È che... non mi sembra per niente...” altro respiro “...sei mai stata veramente innamorata?”
Quella domanda mi colpì in pieno. All’esterno, il mio corpo era tranquillo e non produsse reazioni, perché la risposta più esatta era no. Forse, in alcuni periodi della mia vita, ero stata fermamente convinta del contrario; ma, col senno di poi, e il cuore raffreddato dal tempo, mi ero accorta di essermi sbagliata: erano stati solo abbagli, miraggi in un deserto caldo e secco in cui avevo avuto troppa sete, sete d’amore.
Però, da qualche parte nel mio petto, ben chiuso nella cassa toracica, si risvegliò un felino prima dormiente, ed il suo primo istinto fu quello di scuotere le sbarre della sua prigione con gli artigli, provocando uno scossone violento che mi fece tremare il cuore.
In realtà, proveniente da un abisso nero come la lucente pelliccia del felino, la risposta era anche sì, e io lo sapevo. Ma... come avrei fatto a spiegargli che si trattava solo di un sogno?
“No.” dissi, infine, la voce falsamente noncurante.
Gli lessi nello sguardo una goccia di tristezza alla mia affermazione, e ci mise un secondo di respiro a continuare la sua narrazione, questa volta con la voce un po’ smorzata, concentrandosi sul suo boccale.
“Beh... ecco non credo, anzi sono sicuro che lui non sia davvero innamorato di mia sorella, e si nota da un sacco di piccole cose che sembrano stupide, ma non lo sono. Perché che senso ha stare con una persona che non ti ama davvero? Sara merita di meglio... tutti lo meritiamo.”
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, e mi si strinse il cuore mentre le sue parole si facevano strada dentro di me. Sara era amata davvero, ma non da chiunque fosse il suo ragazzo, piuttosto da suo fratello, il quale aveva d’improvviso uno sguardo che non si addiceva per nulla ai suoi occhi. Era come se il piccolo mare che vi era racchiuso avesse smesso di essere salato come le lacrime per diventare innaturalmente amaro.
“Hai provato a parlarne con lei?” gli chiesi nel modo più cauto e delicato possibile. Forse non lo conoscevo a sufficienza per scendere in discorsi del genere, tuttavia non me la sentivo di tornare su argomenti superficiali, perché mi sarebbe sembrato di minimizzare quello che mi aveva appena confidato. Si passò una mano tra i capelli, disordinandoli più di quanto già non lo fossero
“Una volta, ma non trovavo le parole giuste e lei ha frainteso credendo che fossi iperprotettivo.”
“Quelle che hai usato adesso mi sembrano difficili da fraintendere. Non la conosco, ma penso che ti capirebbe.” continuai a parlare piano, dicendo quello che sentivo e pensavo sinceramente.
E, alla fine, un piccolo sorriso addolcì i suoi lineamenti; anche se poco, la tensione visibile sulle sue spalle si era alleviata.
“Grazie.” mormorò.
Poi, senza neanche darmi il tempo di rispondere, alzò una mano per chiamare Laura, che stava pulendo il tavolino vicino, e le chiese gentilmente un altro giro di birra.
Continuammo la serata parlando di ciò che genericamente ci si dice per conoscersi.
“Allora, questa è la parte dove dovremmo parlare di quello che facciamo nella vita, no?” aveva scherzato lui, per alleggerire l’atmosfera all’arrivo del bere.
Scoprii che sì, frequentava l’Accademia delle Belle Arti nella città vicina e, a differenza di tre quarti dei suoi compagni, aveva l’approvazione della famiglia, in quanto era l’unico percorso di studi che sarebbe stato in grado di continuare grazie alla passione e all’interesse. Senza questi elementi gli era stato difficoltoso anche solo uscire dalle superiori. Ora era all’ultimo anno di cinque e non vedeva l’ora di finire gli studi. Scherzammo distrattamente su come entrambe le nostre facoltà fossero biglietti di sola andata per finire a lavorare al McDonald’s. Avrei voluto chiedergli di più sulla sua arte, ma il discorso era già fluito verso un’altra direzione.
Sara era sua sorella minore di un paio di anni, ovvero io e lei avevamo la stessa età, e lui aveva già dimostrato ampiamente quanto le volesse bene. La loro famiglia viveva lì, nella mia stessa città, mentre lui stava in un piccolo appartamento studentesco vicino alla sua università, tornando una volta ogni tanto e per le occasioni speciali come i compleanni. Quelle settimane, stava rimanendo dai suoi per un po’, prima di trasferirsi di nuovo all’inizio dei corsi.
Stavamo per passare a domande probabilmente più interessanti del nostro curriculum e della parentela, quando Shon spostò all’improvviso l’attenzione verso un punto alle mie spalle. Immaginai volesse chiamare Laura per un’altra birra, ma percepii che qualcuno si stava già avvicinando a noi. Avevo iniziato a girarmi verso il resto del locale, quando al mio fianco arrivò Sara. Ora non portava più il rossetto nero e i suoi capelli erano molto più spettinati di prima, senza le orecchie da Bianconiglio. Sorrideva, e anche lo sguardo del fratello si era illuminato.
“Ciao!” esordì allegra.
Il ragazzo stese una mano verso di me con fare rilassato “Sara, Cris; Cris, Sara.”
La salutai anch’io e lei rispose “Scusa, in effetti non ti abbiamo neanche chiesto come ti chiami quando ti abbiamo fermata prima.”
Sfoggiai la mia migliore espressione per dire no pasa nada, mentre lei si rivolgeva a Shon
“Mi dispiace Shon, ma abbiamo bisogno di te, sto per aprire i regali e c’è la torta che ha preparato Francesca...”
Lui alzò il suo boccale vuoto, rassicurandola “Tranquilla, arrivo subito.” poi, mi guardò con dispiacere “Devo andare...”
“Ma certo, grazie per la serata!”
Mi sorrise, un guizzo nei suoi occhi che prima non c’era e che non riuscii a definire; iniziò ad alzarsi, sistemandosi la leggera camicia bianca che indossava “Grazie a te, anche per la birra.” si spostò il ciuffo dalla fronte, mandando all’aria i capelli e facendolo somigliare ancora di più alla sorella, tutta scarmigliata per gli scherzi, la quale lo stava aspettando qualche passo indietro “Se ti va potremmo vederci ancora finché sono da queste parti.” mi propose.
Senza nemmeno rendermene conto, stavo già annuendo... “Perché no!” esclamai, il tono un po’ troppo acuto rispetto al mio solito. Ora era in piedi vicino alla mia sedia, e mi alzai anch’io per essere al  suo livello, registrando distrattamente che profumava di un non so che, il quale, per qualche motivo, mi ricordava il mare. Ci scambiammo rapidamente i numeri di telefono; poi, lo guardai mentre si allontanava nella soffusa luce arancione del pub, salutandomi con il cenno dei marinai, la sua pervadente energia sottopelle che lo accompagnava anche nel modo di camminare.
Presi un sorso di birra, mi sentivo felice: parlare con lui mi risultava così facile da stupirmi, i nostri incontri erano avvenuti con una leggerezza che difficilmente avevo trovato nelle prime conversazioni con qualcuno. Qualcosa in quel ragazzo mi faceva sembrare tutto così semplice...
Non sapevo ancora che, in realtà, stavo per vivere il mio sogno ricorrente. Il mio incubo.




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