Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo

di Adeia Di Elferas
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“Credevo di trovarti ancora in piazza, finita la riunione...” disse Jacopo Salviati, raggiungendo la moglie davanti al camino acceso.

In effetti aveva perso quasi mezz'ora a cercarla tra la folla che ancora si accalcava davanti al palazzo della Signoria, prima di capire che la moglie aveva deciso di andare direttamente a casa senza attenderlo.

Lucrezia, portandosi una mano alla fronte, si accigliò e disse solo: “Ero stanca...”

L'uomo, che non era abituato a vedere la moglie lamentarsi – nemmeno quando ce ne sarebbe stato motivo – si mise accanto a lei e, posandole una mano sulle spalle le chiese, accorato: “Va tutto bene?”

La Medici annuì e poi gli chiese come fosse andata quella prima riunione ufficiale tenuta da Pier Soderini. Lei, come buona parte degli abitanti di Firenze, quel primo giorno di novembre aveva sfidato il cielo grigio e si era presentata puntuale per vedere l'ingresso del nuovo Gonfaloniere a vita e della nuova Signoria, ma, esattamente come gli altri comuni cittadini, non aveva potuto scorgere nulla di più, restando relegata in piazza, mentre solo gli uomini più importanti di Firenze avevano potuto entrare a palazzo e sentire le parole di Soderini.

Jacopo riassunse in modo abbastanza diligente il discorso del Gonfaloniere, astenendosi per il momento dal fare commenti personali, ma si rendeva conto che la moglie non lo stava ascoltando più di tanto.

Come se le sorti della Repubblica non fossero per entrambi quanto di più interessante potesse esserci, l'uomo si sedette nella poltrona accanto a quella della moglie e cambiò discorso: “A quanto ho sentito dire il Marchese di Mantova è davvero ancora nel napoletano, a combattere contro il re di Spagna, per conto del re di Francia...”

Perfino quel commento su Francesco Gonzaga, che pure fino a poco prima avrebbe acceso l'interesse della Medici, cadde nel vuoto...

“Vuoi dirmi che c'è?” chiese di nuovo Jacopo, questa volta in modo più ruvido: “Non stai bene? È meglio che chiami qualcuno per..?”

“Credo di essere incinta.” rispose Lucrezia che, da qualche giorno, non riusciva a pensare ad altro.

Il Salviati ci mise qualche secondo a recepire la notizia. Malgrado avessero già più di un figlio, quella lunga parentesi senza gravidanze gli aveva quasi fatto credere che per qualche motivo la sorte non volesse concedere loro altri bambini. Malgrado si fossero applicati spesso e con il preciso intento di procreare, quell'affermazione estemporanea della moglie lo aveva lasciato senza parole.

La Medici, che si era attesa dal marito il consueto slancio affettuoso e qualche esternazione di gioia, restò immobile a fissarlo: “Non ne saresti felice?” gli chiese, incerta.

“Enormemente.” assicurò lui, senza esitazione: “Ma non mi sembra che la sia tu...”

“Sono solo stanca...” ribadì lei, aprendosi, però, in un largo sorriso: “Con te al mio fianco, però, anche questa volta andrà bene...”

Jacopo, intenerito dall'espressione della moglie, l'abbracciò un momento, accarezzandole la fronte, con fare protettivo. Anche se lui per primo era favorevole ad avere una prole numerosa, ogni volta in cui sua moglie si trovava ad aspettare un nuovo figlio, una strana ansia lo prendeva, per lasciarlo solo dopo la lieta conclusione della gravidanza e del parto. All'inizio si era detto che, con l'esperienza, si sarebbe fatto più scafato e quindi avrebbe saputo razionalizzare meglio quel genere di sentimento... Invece sembrava che ogni volta la sua agitazione si amplificasse.

“A cosa stai pensando?” chiese Lucrezia, vedendo Jacopo estremamente pensieroso.

L'uomo scosse il capo e, sorridendo nel modo più sereno possibile, rispose: “Lo sai... Anche per me è sempre un'emozione fortissima pensare che avremo un altro figlio...”

“Comunque non ne sono del tutto sicura...” prese tempo lei: “Anche se ormai mi conosco bene, potrei anche sbagliarmi... Domani mi farò visitare dalla levatrice.”

“Mi sembra una buona idea.” convenne il marito che, però, in cuor suo aveva già deciso che la Medici aveva ragione a pensarsi incinta.

“Cosa mi stavi dicendo prima, del Gonzaga..?” chiese a quel punto Lucrezia, cambiando discorso non per evitare altri pensieri sui figli, ma solo per far capire al Salviati che andava tutto bene e che, ora che aveva condiviso con lui quel dubbio – quasi una certezza – era pronta a tornare agli argomenti consueti di discussione.

“Dicevo che sembra sia ancora nel napoletano – rispose prontamente egli, con un nuovo entusiasmo – a combattere contro gli spagnoli, per conto di re Luigi...”

 

Bianca Riario era arrivata alla villa di Castello proprio il giorno del suo ventunesimo compleanno. I fratelli, che conoscevano bene la vera identità di Pier Maria, avevano festeggiato lei con affetto e avevano accolto il piccolo con discrezione, ma con grande curiosità.

Il fatto che per i servi presenti quello fosse un figlio di Ottaviano dava loro comunque la possibilità di accoglierlo da nipote, quale era, senza insospettire più di tanto qualche orecchio impiccione. Solo Bernardino, trascinato dall'entusiasmo di avere di nuovo per le mani un bambino piccolo, com'era stato alla nascita di Giovannino, si lasciò sfuggire una frase compromettente.

La Riario aveva ancora in braccio il piccolo, mentre i servi prendevano i suoi pochi bagagli per andarli a sistemare nelle sue stanze, e il Feo aveva commentato: “Guarda, Bianca, ha i capelli biondi come i tuoi... Ma gli occhi non sembrano blu, avrà preso dal padre...”

Per fortuna Caterina, che aveva intercettato lo sguardo interrogativo di uno dei servi, si era affrettata a dire, con gran naturalezza: “Infatti... Credo sia normale che il piccolo assomiglia a sua zia, ma Ottaviano non ha certo gli occhi blu!”

Bernardino, capito l'errore, le aveva dato ragione e poi aveva chiesto di poter tenere il piccolo tra le braccia.

Dopo quel mezzo incidente iniziale, non c'erano stati altri momenti di tensione. Perfino la balia, che si era dimostrata fin da subito molto disponibile e infinitamente discreta, non aveva fatto domande di sorta, né pareva interessata a quale fosse il reale legame di parentela tra la Riario e il piccolo.

La Tigre, in tutto quel delicato quadretto, aveva una posizione privilegiata: era la nonna di Pier Maria, sia che fosse figlio di Bianca, sia che lo fosse, come volevano far credere, di Ottaviano.

Nella sua posizione, quindi, poteva reclamarne la compagnia, prenderlo in braccio e portarlo dove volesse e quando volesse senza che nessuno potesse commentare in alcun modo il suo comportamento. Si stava riscoprendo, in pochi giorni, come stregata da quel neonato che, seppur molto piccolo, dimostrava già un certo carattere. Le piaceva di lui il fatto che non piangesse quasi mai, che fosse di buon appetito, ma che non si lamentasse mai quando veniva staccato dalla nutrice.

Con la scusa di parlare con la figlia di alcune commesse che erano state ordinate loro da Luigi Ciocca, la Leonessa aveva già trovato il modo di ritagliare delle parentesi lunghe ore per permettere a Bianca di stare con Pier Maria senza testimoni scomodi. La Sforza prendeva il piccolo e andava in una delle sale, facendo chiamare la Riario con la sopraddetta scusa e poi chiedeva di non essere disturbata. Dal momento stesso in cui restavano sole, lasciava il De Rossi alla giovane e lei si metteva a leggere o a sonnecchiare, permettendo a madre e figlio di continuare a creare tra loro un legame.

Per esperienza diretta, infatti, sapeva quanto fosse rischioso perdere proprio quei primi momenti di affiatamento. Per vari motivi, era un errore che aveva fatto con tutti i suoi figli, escluso Giovannino, e non voleva per nessun motivo che Bianca facesse altrettanto, per cause indipendenti dalla sua volontà.

Anche quel pomeriggio, approfittando del clima tranquillo che si respirava alla villa, la Sforza aveva fatto in modo di trovarsi sola con la figlia e il nipote in una delle salette più piccole, ma accoglienti della villa. Fuori il cielo era grigio e minacciava pioggia – anche se frate Lauro andava dicendo da due giorni che le sue ossa scricchiolanti preannunciavano addirittura una nevicata – e Pier Maria, sfamato a dovere dalla balia, dormiva beato tra le braccia della madre.

“Ormai è passato un po' di tempo dal parto...” disse Caterina, tenendo gli occhi sul piccolo: “Io credo che dovresti fare una visita, anche solo dalla levatrice, per vedere se va tutto bene...”

“Io credo che sì, vada tutto bene...” fece subito la Riario, che, in effetti, si sentiva in forma e non aveva avuto grossi fastidi negli ultimi giorni: “Comunque, va bene, mi farò dare un'occhiata. È sempre meglio avere prudenza con queste cose... Come facciamo, però? Sarebbe sospetto che una levatrice venisse a visitarmi...”

La Tigre annuì e ribatté, avendo la soluzione pronta: “Ovviamente diremo che è qui per me. Non per problemi di salute, altrimenti ci sarebbe subito qualcuno pronto ad accusarmi di chissà quali baccanali... Dirò che voglio confrontarmi con un'esperta riguardo a certi temi, dato che sto rivedendo il mio ricettario e ho necessità di avere delle conferme su alcune mie ricette per i dolori femminili...”

Bianca fece un cenno con il capo, sicura che quella spiegazione, per quanto abbastanza vaga, sarebbe bastata per la maggior parte dei servi della villa.

“Andrai presto a trovare di nuovo Giovannino?” chiese poi, con un filo di voce per non svegliare Pier Maria.

La Leonessa annuì: “Sì, sì, credo che ci andrò presto... Ma sto rinviando la mia visita per non dover incontrare anche altre persone che al momento non ho voglia di vedere.”

In effetti Caterina aveva pensato subito, nel vedere Fortunati impaziente di farla portare da Giovannino in visita, che quell'occasione sarebbe stata colta al volo da Lucrezia Medici per avere il pretesto di incontrarla e parlarle, malgrado lei rifiutasse per il momento l'idea di farlo.

Abituata a non chiedere mai troppo quando sua madre si mostrava laconica, la Riario sospirò e disse solo: “Spero che presto lo potrai riportare qui... Mi piacerebbe che conoscesse subito suo nipote...”

Quasi sentendosi chiamare in causa, Pier Maria si svegliò di colpo e cominciò a piangere un po', con un miagolio monotono e insensibile alle consolazioni offerte dalla madre. Sia Bianca sia Caterina sapevano che il piccolo non poteva aver fame, ma solo la Tigre, tra le due, seppe riconoscere quel tipo di lamento al primo colpo.

“Deve essere l'inizio di una piccola colica...” spiegò: “Ricordo che anche Sforzino piangeva così, quando aveva un paio di settimane...”

Stranita nel sentire la madre ricordare quasi con tenerezza un dettaglio riguardante uno dei suoi fratelli ancora neonato, Bianca diede un bacio in fronte al figlio e chiese: “E allora come facciamo?”

“Nel mio ricettario ho qualcosa che può essere utile...” soppesò la milanese: “Una pozione che con Giovannino ho usato un paio di volte con buoni risultati... Anche se lui di coliche non ha quasi avute...”

“Se la ricetta è semplice, posso provare a prepararla anche da me...” si propose la Riario, mentre stringeva al seno il figlio, cercando invano di calmarlo.

“Sì, direi che è alla tua portata.” commentò la Leonessa: “Ne sai preparare di più complicate, direi...”

Il pensiero di entrambe corse per un rapido istante alla pozione che la Sforza aveva perfezionato nel corso degli anni e che aveva permesso sia a lei sia a Bianca, quando necessario, di evitare gravidanze indesiderate.

Come a volersi togliere d'impaccio, la giovane sollevò le sopracciglia e disse: “Se volete vado a prendere il vostro ricettario, così mi mostrate la ricetta e mi date qualche consiglio, in modo che prima di sera possa darla a Pier Maria...”

La milanese acconsentì e, dopo aver spiegato brevemente alla figlia dove trovare il piccolo volume manoscritto, si fece consegnare il piccolo De Rossi.

Rimasta sola con il nipote che, forse un po' intimorito da lei – conoscendola ancora poco – riuscì perfino a moderare il pianto, Caterina si domandò se offrendosi di andare a prendere il ricettario Bianca avesse voluto sfilarsi un momento dalla sua compagnia o da quella del bambino dolorante.

Dopotutto la Riario era ancora una ragazza, benché avesse già ventun anni e fosse madre. Per vari motivi, pur avendo affrontato pericoli e catastrofi di ogni sorta, non aveva ancora avuto modo di vivere certi obblighi sociali e familiari che a una donna della sua età erano spesso imposti da anni.

Con un sospiro denso di interrogativi e speranze, la Tigre tornò a concentrarsi sul nipote, che, piano piano, si stava calmando. Aveva il viso arrossato e gli occhi chiari erano concentrati su di lei, come se stesse cercando di capire a fondo chi fosse.

“Chissà come andranno le cose...” sussurrò la donna, accarezzando la guancia ancora umida del nipote: “Magari potresti restare qui con me più di quel che pensiamo...” soggiunse, con un breve sorriso.

In effetti quella era una delle possibilità ventilate anche da Troilo circa il futuro di Pier Maria. Se fosse stato necessario – come pareva – tenerlo lontano da San Secondo per un certo periodo, in modo poi da reintrodurlo come legittimo erede del titolo e delle terre a tempo debito, non sarebbe stata una cattiva idea lasciarlo alle cure attente della Leonessa di Romagna.

Animata da uno slancio che aveva avuto molto di rado coi propri figli, la Sforza diede un bacio carico di affetto al piccolo e proprio in quel momento sentì dei passi avvicinarsi alla porta.

Immaginando che si trattasse di Bianca, fu sul punto di fare un commento sulla bellezza di Pier Maria, cominciando la frase con le pericolose parole 'tuo figlio', ma si fermò subito quando capì dalla qualità dei passi che non era la figlia a essere in arrivo.

Si rilassò subito, tuttavia, quando capì che si trattava di Fortunati.

“Mi avevano detto che eri qui...” disse l'uomo, quasi a volersi scusare per l'intromissione.

“Ti avranno anche detto, allora, che non volevo essere disturbata.” ribatté la donna, senza severità, solo per accertarsi che i servi avessero usato quella prudenza, e in modo, in caso contrario, di riprenderli per la loro mancanza.

“Sì, ma ho creduto che io non rientrassi nella cerchia di quelli che vuoi tenere alla larga...” si permise di dire Francesco, abbozzando un sorriso insicuro.

“Siediti.” fece infatti la Tigre: “Sto aspettando Bianca che è andata in camera mia a prendere una cosa...”

“In camera tua..?” domandò, improvvisamente teso, il piovano.

“Che c'è? Pensi di averci dimenticato qualcosa stanotte?” si informò la milanese.

“Spero di no...” rispose lui, a voce bassa.

Era evidente che Fortunati fosse andato a cercarla per un motivo in particolare, ed era altrettanto evidente che ci fosse qualcosa che lo frenasse e lo portasse a tergiversare. Caterina avrebbe voluto spronarlo a parlare, ma Pier Maria la distrasse, allungando la manina verso di lei e sfiorandole il viso.

Nel periodo passato al convento assieme alla madre, il piccolo De Rossi era rimasto quasi sempre costretto in fasce sì molto morbide, ma anche molto fastidiose e ora che, su ordine della Tigre, veniva lasciato più libero, sembrava desideroso di scoprire a cosa servissero le braccia, le mani, le gambe e i piedi e così non smetteva quasi mai di muoversi.

Mentre la Leonessa sussurrava qualche parola al nipote, Francesco si perse a guardarli. Caterina gli sembrava ancora così giovane da poter essere scambiata senza troppa fatica per la madre del bambino, e i suoi colori chiari e il suo profilo deciso e altero ricordavano molto quelli che già Pier Maria mostrava.

“Ti somiglia...” disse infine l'uomo, senza riuscire a trattenersi.

“Be', è pur sempre il figlio di mia figlia.” fece notare, quasi sulla difensiva, la milanese.

Approfittando dello sguardo orgoglioso che la donna aveva lanciato verso il nipote – il quale aveva risposto con un gorgogliare sommesso – Fortunati decise di prendere il discorso alla lunga e così sorrise ed esclamò: “Visto? Se Giovanni da Casale non avesse dichiarato la resa, quella volta, a Ravaldino, non avresti mai potuto stringere tra le braccia tuo nipote...”

La Sforza si adombrò all'istante e chiese, capendo al volo dove volesse arrivare il suo amante: “Per caso quel verme ha provato di nuovo a scrivermi?”

“Sì ho qui...” cominciò lui, estraendo dalla scarsella una lettera accuratamente sigillata.

La Leonessa si sporse in avanti, ignorando le proteste di Pier Maria, che le si aggrappava come un gattino arruffato, e afferrò la missiva. Riconobbe senza alcuna fatica la grafia di Pirovano, e se in un primo momento trovò stucchevole il fatto che avesse indirizzato quella lettera alla 'Contessa' Sforza, subito dopo lo trovò irritante, fino a diventare insopportabile.

Tenendo il nipote stretto a sé con un braccio, si avvicinò al fuoco e, con un gesto stizzito della mano libera, gettò il messaggio direttamente nel camino acceso, sotto agli occhi attoniti del piovano che, impietrito per quell'ulteriore dimostrazione di collera mai sopita, preferì non provare nemmeno a opporsi.

Caterina era sul punto di ribadire una volta di più a Francesco la sua ferma determinazione a non avere più nulla a che fare con Giovanni Pirovano, quando Bianca rientrò nella sala, portando con sé i Rimedi della madre.

Capendo dall'espressione della ragazza che fosse giunto il momento di togliersi di torno, il piovano si scusò con la Tigre e poi andò alla porta, passando accanto alla Riario e sussurrandole, con sincero trasporto: “Pier Maria è un bambino bellissimo, e si direbbe anche molto intelligente, come la è sua madre, dopotutto.”

Bianca lo ringraziò con un movimento gentile del capo e poi si andò a sedere. Percepiva qualcosa di diverso nella madre che, pur tenendo ancora il piccolo in braccio, aveva lo sguardo distante e il volto più cupo del solito. Il suo umore pessimo era rivelato anche dal modo nervoso in cui di quando in quando si spostava una ciocca di capelli bianchi dal viso e, ancor di più, dal suo silenzio.

La Riario non voleva chiederle per nessun motivo quale fosse la causa di quel repentino cambiamento, dato che immaginava fosse imputabile proprio a Fortunati.

Giusto la sera prima, Bianca si era confrontata con Galeazzo proprio riguardo la Leonessa e il piovano. Entrambi si erano interrogati a lungo, scambiandosi indizi e pareri, su quale fosse la reale natura della relazione che legava i due. Dopo averne parlato a lungo, però, entrambi si erano risolti a dire che una risposta, in fondo, non la volevano, e non perché non apprezzassero Francesco, tutt'altro. Il vero problema, casomai, erano le tragiche esperienze pregresse, legate ad altri amanti della madre, che avevano visto e vissuto in prima persona.

“Hai trovato quello che cercavamo?” chiese, dopo parecchio tempo, la Tigre, come ricordandosi all'improvviso che la figlia era lì con lei e che il nipote le sonnecchiava in braccio.

“Sì.” rispose all'istante la giovane, che, nel frattempo, stava sfogliando il prezioso ricettario: “Io credo che questa vada bene...”

“Leggila.” le ordinò Caterina: “Non la ricordo.” aggiunse, dicendo solo una mezza verità.

Più che voler riportare alla mente la ricetta, la donna voleva che la figlia la rileggesse in modo da aver ancora qualche istante per pensare senza, però, che tra loro ci fosse un silenzio fastidioso. In più era convinta che sentire la voce della Riario calmasse anche Pier Maria, che minacciava di rimettersi a piangere da un momento all'altro.

A guarire dolori colici. Piglia camomilla. Melliloto Centaura Camadreos Camapiteos.” cominciò a leggere, ubbidiente, Bianca: “Comino. Calamento. Siler montano... Manipulo mezzo. Agarico. Colloquintula oncia mezza.

A ogni ingrediente citato, la Tigre annuiva, ma senza prestare attenzione. La figlia, accortasi della distrazione della madre, continuò comunque a leggere, senza fretta.

Tutte le sopraditte cose siano piste grossamente et poste a bollire in tre bochali de acqua tanto che callli la mita, poi piglia della ditta cocitura tanto che basti per una borsetta et piglia cassia sereprica benedetta un'oncia, poi mettici drento oleo de camomilla, olio de ruta, olio de aneto, once due.” più leggeva, più la Riario si rendeva conto che, in effetti, si trattava di una ricetta molto semplice, rispetto ad altre che aveva preparato: “Incorpora omne cosa tepida amministrata al patiente.” concluse.

“Pensi di riuscire a farla da sola?” chiese a quel punto Caterina, accarezzando, intanto, la fronte di Pier Maria, che stava tornando a corrucciarsi.

“Direi di sì...” fece la figlia: “Non mi sembra complicata...”

“La faccio io.” la interruppe bruscamente la madre, porgendo il bambino a Bianca e facendo segno di restituirle il ricettario.

Interdetta, la Riario non si oppose, benché non capisse affatto quella decisione. Era sicura che la madre la ritenesse in grado di preparare la pozione...

La Tigre, che voleva solo un pretesto per starsene sola e tenere le mani occupate, si rese conto di essere stata troppo brusca, così cercò di riparare in parte, proponendo: “Stasera, dopo cena, ti va di cantare per tutti noi come un tempo? Ho sentito Sforzino parlarne con Galeazzo e Bernardino... Io credo che farebbe molto piacere a tutti.”

Sorpresa da una simile richiesta, Bianca non si fece comunque trovare impreparata: “Certo, lo farò volentieri.” e, senza accorgersene quasi, cominciò subito a lambiccarsi su quali canzoni scegliere per l'occasione.

Come se un fulmine le avesse attraversato il pensiero, le tornò in mente di colpo il piacere profondo che aveva provato nel cantare anche per Troilo De Rossi, quando era stato loro ospite la prima volta, ben prima che diventassero amanti.

Il brivido che le corse lungo la schiena, nel ricordare quelle emozioni tanto forti e in parte ancora confuse, la portarono a raggiungere la madre che stava già uscendo dalla sala e a posarle un momento la mano sul braccio, ignorando il miagolio sommesso di Pier Maria, che aveva ricominciato ad avvertire qualche dolorino.

“Credi che rivedrò presto Troilo?” le chiese, quasi senza fiato, come se la prospettiva di sentirsi rispondere di no potesse ucciderla sul colpo.

Caterina, che tutto sommato si era abituata a vedere una Bianca abbastanza rassegnata all'attesa e ottimista nei confronti di un futuro non meglio definito, restò così colpita dalla sua ansia che, per qualche istante, riuscì a dimenticare i propri dissidi interiori: “Se tutto va come deve andare – si azzardò a dire – farò in modo che vi rivediate prima della fine dell'anno.”

La Riario fece un lungo sospiro, lasciò la presa sul braccio della madre e, stringendo a sé il figlio, soffiò un tremante: “Grazie.”

 

Alessandro Bentivoglio si guardava attorno in silenzio. Non gli piaceva quel palazzo, per quanto fosse abbastanza elegante. Nemmeno Imola come città gli piaceva. Si vedeva che era stata di recente tirata a nuovo, che molti palazzi erano stati ristrutturati, che le strade erano state rifatte e che perfino le mura era state rinforzate, eppure quel posto gli dava la sensazione di qualcosa di vecchio, logoro, usurato...

In più, la via lungo cui era stato condotto dagli uomini del Borja per arrivare fino al palazzo del Governatore era stata circondata da guardie, il che gli aveva dato la sensazione non solo di essere sgradito ospite, ma, soprattutto, di essere in pericolo.

Sentiva lo stomaco bruciare e tutto quello a cui riusciva a pensare era che non avrebbe voluto trovarsi lì, in attesa del Valentino, non dopo tutto quello che si erano promessi lui e sua moglie Ippolita. Suo padre Giovanni era stato crudele a voler mandare proprio lui a cercare una accordo tra Bologna e il Duca di Valentinois...

C'era da ammettere, però, che il signore di Bologna aveva avuto i suoi motivi per inviare il figlio che riteneva più intelligente e meno fumantino a parlamentare con il figlio del papa. Innanzitutto il piano dei condottieri ribelli, alla luce degli ultimi accordi, sembrava essere a un passo dal fallimento totale. In secondo luogo, il Borja stava radunando, grazie a Lucio Malvezzi, moltissimi cavalleggeri. Infine, oltre al permesso di reclutare nel fiorentino, il Valentino poteva contare su centocinquanta balestrieri a cavallo del Fracassa. Con tutte quelle sfavorevoli premesse, come poteva Bologna insistere nel difendere la ribellione, in nome, per altro, di un lasso legame di sangue con la Tigre di Forlì, sempre più spesso indicata come meretrice che non come donna di valore?

“Perdonate l'attesa...” la voce del Valentino era liscia come seta e altrettanto scivolosa.

Alessandro scattò in piedi, nel vederselo arrivare davanti e, senza alcun preambolo, gli disse: “Voi sapete perché sono qui.”

Cesare annuì un paio di volte, mostrando al Bentivoglio il suo profilo appiattito, quasi da rettile, e poi sogghignò: “Ecco qui il marito della nostra cara Ippolita Sforza... Ditemi, vostra moglie a letto è vorace come sua zia, la Tigre di Forlì?”

Il bolognese si era atteso quel genere di giochetti, ma non riuscì ugualmente a non irritarsi.

Stringendo i pugni lungo i fianchi, la mente che correva alla sua amata Ippolita, che era rimasta al nord, in attesa del loro terzo figlio, Alessandro disse semplicemente: “Non conosco la Tigre di Forlì di persona. Non so che dirvi.”

“Vi vedo un po' pallido...” riprese il Borja, con aria di un gatto intento a divertirsi con il topo appena catturato: “Scommetto che è colpa di vostra moglie...”

“Non sono qui per parlare di mia moglie.” lo frenò il Bentivoglio, cercando di non trascendere.

“Eppure, da quello che so, è vostra moglie che ha convinto vostro padre a cacciarsi in un bel guaio...” lo punzecchiò Cesare.

“Se sono stato mandato qui – si sforzò di dire l'altro, la bocca impastata e l'animo pesante nel dover recitare una parte che non gli si addiceva – è per riparare alle incomprensioni che sono sorte tra noi nelle ultime settimane...”

Da quel momento in poi, il Valentino ascoltò e basta. Parve valutare con attenzione ogni parola, ogni sfumatura della voce e, ancor di più, ogni espressione del volto di Alessandro.

Alla fine massaggiandosi il mento picchiettato di barba, che cresceva irregolare per via delle cicatrici luetiche, il Duca sospirò: “Vi farò sapere a breve il mio parere. Stanotte sarete mio ospite...” poi, con un sorriso che al Bentivoglio parve quello di un diavolo, Cesare ci tenne ad aggiungere: “Se scriverete alla vostra diletta moglie, stasera, ditele che giusto qualche giorno fa ero a cena a Forlì. Fatele sapere che là solo nominare la Tigre fa piangere le vedove e infuriare i reduci, e che non c'è più nulla, nulla vi dico, di quello che quella lupa ha costruito... Che vostra moglie Ippolita mediti a lungo su questo fatto.”





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