Cigno nero

di Hermil
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Era bello. Era una verità che si faceva sempre più evidente mentre si guardava allo specchio, odiava la falsa modestia, affermare il contrario sarebbe stato stupido.

Ghignando pensò che se non era bello lui, la maggior parte dell’umanità sarebbe vissuta con un volto come il culo.

Bello e simpatico.

Continuando ad ammirare i suoi occhi neri, ci tenne a precisare a se stesso, o a qualche divinità che avendo buon gusto, lo stava fissando, che non si diceva da solo di essere particolarmente affascinante e di spirito, ma era una conferma che riceveva giornalmente.

Tutte le cameriere della villa in cui viveva glielo ripetevano in continuazione, avrebbero venduto il marito per far sì che lui degnasse di uno sguardo le loro figlie, o loro, stupide femmine, ghignò.

He Tian amava essere ammirato e provava un enorme piacere a sottolineare la differenza che c’era tra lui e il personale.

Il destino, un dio, qualcosa l’aveva reso un privilegiato, non capiva perché non sottolineare l’ovvio. Si rallegrava nel crogiolarsi nella sua magnanimità, trattare gli inferiori da pari sarebbe stato ancora più crudele.

Ognuno in questa vita deve provare ad accettare il suo posto, nel modo più dignitoso possibile e per tanto, i suoi cari e dignitosissimi sottoposti dovevano levarsi dalle palle.

Alzando lo sguardo dallo specchio notò un ghigno di disprezzo, non amava come gli vestiva quell’espressione, gli ricordava il padre.

Per quanto la sensazione di fastidio misto ad irritazione gli fosse familiare, cercava quantomeno di dissimularla, anche se a volte falliva.

Scrollò le spalle, neanche Dio è perfetto, doveva solo cercare di nascondere sul suo volto tale sentimento, c’è chi nasconde di essere un assassino, quanto poteva essere difficile.

Bello è colui che nella sua superiorità non se ne compiace, altrimenti si sfocia nella volgarità.

Fin da bambino aveva maturato la consapevolezza che uno splendido viso può essere distrutto da un grido di dolore: la bocca si digrigna, i denti sembrano troppo grandi, gli occhi si arrossano. Sua madre aveva rovinato molti capi di alta moda con un viso depresso.

Niente è più bello di un sorriso pensò e gustandosi per l’ultima volta la sua immagine allo specchio, sorrise con i suoi perfetti denti bianchi.

Percorse il lungo corridoio del secondo piano e scese le scale, cercò di uscire da quella casa il più velocemente possibile. Non conosceva il motivo della sua fretta, ma la sua splendida residenza gli sembrò sporca.

Gli venne il voltastomaco, com’era possibile avere un numero imprecisato di domestici e una residenza putrida, ovviamente lo sporco non era visibile, ma lui lo sentiva. Che schifo, aveva toccato delle maniglie, l’unico modo per scrollarsi di dosso quella sporcizia era scarnificarsi le mani.

Iniziò a grattarsele convulsamente, avrebbe dato la colpa al freddo. Le sue belle dita rovinate da quegli incompetenti.

Ogni volta che pensava a sua madre la casa gli sembrava un tugurio: i mobili marci, muffa in tutti gli angoli.

Sicuramente ciò era dovuto alla poca fermezza con cui trattava quegli scansafatica fin troppo pagati.

Avrebbe potuto farsi accompagnare, godersi gli sguardi ammirati di quei pezzenti dei suoi compagni, nel constatare che lui oltre ad essere bello era anche ricco, ma non lo fece.

Lo colse un’insensata voglia di correre, di allontanarsi il più possibile dalla sua casa, dal suo quartiere, da sua madre.

Arrivato alla metro pensò che era davvero una strana mattina, si sentiva già stanco, sudato, come se dovesse a tutti i costi nascondere qualcosa, ma cosa.

Fu un attimo, un immenso momento di fragilità e sperò che nessuno l’avesse visto, fu in quel momento che notò degli occhi chiari che lo fissavano.

Aveva già visto quegli occhi, appartenevano ad un giovane con i capelli rossi che frequentava la sua scuola.

Il suo sguardo lo fece rabbrividire, era triste e vacuo, gli rovinava quello che poteva essere un bel viso.

Si irritò, conosceva quel giovane, sapeva che era povero, delinquente ed anche scemo, come aveva osato lanciargli uno sguardo in quel momento. Una frase aveva iniziato a perforargli la testa: il re è nudo!.

Iniziò a sentirsi il vento, stava arrivando il treno, doveva ricomporsi, rialzò la schiena e sorrise.

Ora il mondo, gli dei potevano e dovevano ammirarlo.

Le porte del vagone si aprirono e salì, cercò con lo sguardo il rosso, doveva dimostrargli che aveva avuto un svista, lui era bello, composto, sicuro si sé e sopratutto solare, ma non lo vide.

Il panico si impadronì del bel giovane dai capelli corvini, il rosso avrebbe detto a tutti delle sue debolezze, delle sue crepe.

Doveva riparare all’errore, doveva trovare quel pezzente e fargli vedere le sue splendide vesti di sicurezza e ricchezza.





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