Matrix Resistance

di Fragolina84
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Liberata da Amos e Bree,
Raelynn è ora un membro attivo della comunità di Zhaka.
E con la sua nave vuole fare la differenza.
Ma non tutti, a Zhaka, sono dalla sua parte...
Buona lettura!

Quando le porte dell’elevatore si aprirono sul molo numero tre della darsena di Zhaka, Raelynn precedette Calbet fuori dalla cabina e lui non poté fare a meno di notare una nuova baldanza nel passo della sua compagna: anche se aveva passato quelle due settimane a sovrintendere alle riparazioni, stare a terra doveva essere stata una tortura per lei. 
La Livelyan era attraccata al molo. Non era un gigante come la Nabucodonosor, la nave del capitano Morpheus che aveva passato la vita a cercare l’Eletto, ma quello era vero per tutte le navi della loro flotta. Dopo la caduta di Zion e la fuga, non c’erano le risorse per costruire una flotta potente come quella del passato e, cosa ancor più importante, avevano bisogno di hovercraft più piccoli e maneggevoli, in grado di infilarsi negli stretti cunicoli in cui le Sentinelle li avevano costretti a vivere. 
La nave era quindi piccola e compatta, ma armata fino ai denti. Era una delle ultime e più tecnologiche aggiunte alla flotta, costruita cinque anni prima nei cantieri navali di Zhaka e da due sotto il comando di Raelynn. 
Qualcuno mormorava, scontento per quella scelta del Consiglio: assegnare una nave come la Livelyan ad un comandante così giovane, secondo loro, era un azzardo che Zhaka non poteva permettersi. Ma Calbet, che serviva sotto di lei, sapeva che il Consiglio aveva visto giusto e Raelynn, nonostante la giovane età, aveva già avuto modo di distinguersi. 
Vereena e Edjac, due membri dell’equipaggio, erano sul molo e dirigevano alcuni inservienti che stavano caricando le munizioni. Vereena era una ragazza dagli occhi di un azzurro prodigioso e i capelli biondi tagliati corti. Era stata liberata da Matrix giovanissima, ad appena dieci anni, assieme ai suoi genitori. Suo padre era attualmente membro del Consiglio di Zhaka. Da un anno faceva coppia con Thorner, l’operatore della Livelyan. Aveva trentasei anni e aveva rifiutato il comando perché non si sentiva in grado di gestire quella responsabilità, preferendo rimanere al servizio di un comandante molto più giovane di lei. 
Quando vide Raelynn, portò il pugno al petto in segno di saluto, chinando rispettosamente il capo. La donna le aveva detto più volte che non era necessario, che erano una famiglia più che un equipaggio, ma tutti loro ci tenevano, soprattutto quando erano in pubblico. 
Edjac, ventidue anni, era uscita da pochissimo dall’Accademia. Come Thorner, era nata a Zhaka e si era offerta volontaria per prestare servizio sulla nave di Raelynn, che venerava come fosse una dea. 
«Bentornata, capitano» disse infatti, con un enorme sorriso stampato sulle labbra, evidentemente ansiosa di partire. 
«Siamo pronti?» chiese e Vereena annuì. 
«Queste sono le ultime» spiegò, indicando le quattro casse di munizioni che gli inservienti stavano spingendo all’interno del vano di carico. 
«Molto bene» approvò la donna. «Vi aspetto a bordo.» 
Mentre percorreva la passerella di metallo, alzò gli occhi e sorrise, accarezzando con lo sguardo la struttura della Livelyan, di nuovo integra e pronta a prendere il largo. Attraversando il portello alzò la mano e sfiorò il metallo con il palmo. 
«Ciao, Liv» sussurrò, utilizzando il nomignolo con cui chiamavano affettuosamente l’hovercraft. 
Raggiunsero la sala link dove Thorner era già alla sua postazione. Era un gigante che superava i due metri e Raelynn si chiedeva sempre come facesse a far passare la sua mole nei più nascosti meandri della nave. Proprio per il suo fisico possente, tutti a bordo lo chiamavano Thor. I lunghi capelli castani erano raccolti in un codino e gli occhi nocciola erano grandi e luminosi. Era un “umano DOC”, come gli piaceva definirsi, ovvero era nato e cresciuto nel mondo reale e non aveva sul corpo gli spinotti che costellavano le braccia e il petto di tutti coloro che erano stati liberati da Matrix. 
«Capitano» la salutò, con il pugno sul petto. «La Liv è pronta a salpare, tutti i sistemi sono online.» 
«Grazie, Thor. È bello tornare a bordo.» 
Calbet le sfilò dalla spalla la borsa e sparì lungo il corridoio, diretto alla loro cabina. 
Oltre agli umani, il personale di bordo contava due NBO (Non-BiologicalOrganism). Erano macchine senzienti che si erano unite agli umani dopo la Liberazione. La maggior parte di queste, quando le Sentinelle avevano attaccato Zion per la seconda volta, si erano rivoltate contro di loro. Ma molte avevano sviluppato una sorta di attaccamento e avevano combattuto al loro fianco contro le macchine. 
Raelynn salutò Alpha, una macchina grande quanto un grosso scooter, la cui forma ricordava quella di un grosso gamberetto con un carapace di metallo, e Beta, più piccola e compatta, che nelle forme richiamava quelle di un grillo. Si fidava di quelle due macchine come di qualsiasi altro membro della sua nave e non avrebbe esitato ad affidar loro la vita. 
Calbet tornò e prese posto accanto a Thor, mentre Raelynn invece si incamminò dalla parte opposta, verso la cabina di pilotaggio. 
«Capitano» disse Rosius, l’ultimo membro dell’equipaggio, dandole il benvenuto in plancia. 
Aveva un anno meno dei ventisette di Raelynn. Era entrato in Accademia più tardi degli altri ed era al suo primo incarico. Era un bravo pilota e Raelynn si fidava di lui e gli lasciava spesso il timone, eccetto quando erano in piena battaglia. Era di origini miste e la pelle color caffellatte e i capelli neri e ricciuti lo dimostravano. 
«D’accordo. Vediamo di muoverci.» 
Rosius prese posto sul sedile del copilota, lasciandole il comando: sapeva che spettava a lei il compito di portare la nave fuori da Zhaka per quel giro di collaudo dopo le riparazioni. 
«Grazie, Rosius» mormorò riconoscente, sedendo sul sedile e indossando le cuffie. 
«Equipaggio a bordo, portelli chiusi» le disse Thor in cuffia. «La nave è tutta sua, capitano.» 
Raelynn sorrise sentendo la frase che le rivolgeva sempre prima di partire: non c’erano formalità fra loro e quella era l’unica volta in cui le dava del lei. Poi premette un pulsante sulla cloche e si collegò con il centro di comando. 
«Controllo, qui nave Livelyan. Chiediamo il permesso di lasciare l’attracco.» 
Dietro di loro, nel grande complesso della capitaneria di porto, alcuni soggetti erano collegati ad un programma virtuale che permetteva loro di gestire il porto, in costante contatto radio con le navi della flotta e con le unità APU, giganteschi esoscheletri meccanici comandati dagli umani che, pesantemente armati, avevano il compito di difendere la darsena.  
«Nave Livelyan, qui Controllo. Restate in attesa.» 
Mentre attendeva l’ok, Raelynn avviò i potenti motori della nave. Con un sibilo acuto, le piastre ad energia elettromagnetica si accesero una dopo l’altra e Raelynn avvertì il brivido della nave nella cloche, quasi come un purosangue che non attende altro se non lanciarsi in una folle corsa. 
«Nave Livelyan, qui Controllo. Avete il permesso di lasciare l’attracco. Dirigetevi al varco due.» 
Raelynn accusò ricevuta e diede potenza alle piastre. La nave si sollevò da terra e Rosius si affrettò a ritirare il carrello. La donna tirò leggermente a sé la cloche e la Liv alzò appena il muso, librandosi in aria per acquisire spazio di manovra, dato che il varco due era dietro di loro. 
Zion aveva quattro varchi, uno per ogni punto cardinale, e una flotta di decine di navi. Zhaka aveva solo due varchi, uno a nord e l’altro a sud, e oltre alla Livelyan, c’erano solo altre tre navi: la Ninvar, su cui sia Raelynn che Calbet avevano iniziato il loro servizio, la Gariter e la Mayrein, l’ammiraglia della flotta. In quel momento erano tutte all’attracco. 
La Liv ruotò su se stessa e si allineò per l’uscita. Le grandi porte di acciaio si stavano aprendo, cigolando sui rulli, trascinate da pesanti catene collegate ad enormi argani, e la nave rimase in volo stazionario a mezz’aria, in attesa. Sotto di loro, due unità APU presidiavano il varco, le armi puntate all’esterno, verso il condotto buio, pronte ad intervenire in caso di problemi. 
Non appena i battenti furono spalancati, Raelynn spinse la cloche in avanti e la Liv rispose con l’entusiasmo di un cavallo brado, spingendosi all’esterno, nell’oscurità rischiarata solo dal bagliore azzurrino delle piastre e dalla luce dei fari ad alto rendimento che la nave montava sopra la cabina di pilotaggio. 
Non rimase ad attendere che il varco si richiudesse e spinse la nave nel cunicolo. Ormai conosceva a memoria quei passaggi e non aveva bisogno della mappa olografica davanti a sé per guidare la Livelyan. Si infilò nei cunicoli scavati nel corso dei secoli dagli umani fuggiti dalla superficie ormai invivibile, dedicando quei primi minuti a saggiare le reazioni della nave. 
Al suo fianco, Rosius teneva d’occhio gli scanner: non c’erano Sentinelle nei paraggi, il che era senz’altro una buona cosa. Il cunicolo che stavano navigando non era molto più grande della loro nave, perciò Raelynnprocedette con cautela, giocando con la cloche con tocchi delicati, finché arrivarono ad uno snodo da cui si dipartivano diverse gallerie più grandi. 
Gettò un’occhiata agli scanner termici e, non vedendo minacce, spinse avanti la barra di comando con decisione. La Livelyan si infilò nel passaggio, accelerando quando diede più potenza. 
«Thor» chiamò nell’auricolare, «qualcosa non va al posteriore. È pesante sul lato sinistro.» 
«Notato» replicò subito l’altro, che evidentemente aveva già visto l’anomalia sui suoi computer. «Sto verificando.» 
Raelynn era fiera del suo equipaggio proprio per questo motivo: ormai lavoravano a stretto contatto da anni e si era instaurata una sorta di comunicazione non verbale che aveva in sé qualcosa di straordinario. Ognuno sapeva quale fosse il suo posto e lavorava in splendida sinergia con gli altri: non avrebbe voluto nessun altro a bordo. 
Qualche istante dopo, Raelynn sentì cambiare il comportamento della nave, mentre Thorner equilibrava la potenza sulle quattro piastre posteriori. 
«A posto» disse, laconico. 
La nave avanzava nella galleria, sorretta dalle piastre elettromagnetiche. Davanti a loro, distante meno di un chilometro, la mappa olografica mostrava un altro snodo di grandi dimensioni. 
«Va bene. Vediamo se sei ancora agile come prima, Liv» disse Raelynn rivolta alla nave. Accanto a lei, Rosius si strinse meglio le cinture attorno al petto e comunicò agli altri di fare lo stesso. 
«Potenza al settantacinque percento» ordinò, e Rosius batté alcuni comandi sulla tastiera. 
La nave balzò avanti e Raelynn ne controllò la spinta senza problemi. 
«Pronto al mio comando» disse a Rosius. 
La Livelyan sbucò all’improvviso nello snodo, una grande caverna su cui si aprivano diversi tunnel. 
«Ora, novanta percento. Duecentosettanta gradi» ordinò la donna con voce calma. 
Rosius eseguì: Raelynn fece compiere alla nave una rotazione di tre quarti in senso antiorario, fino a trovarsi con la poppa in alto e la prua in basso. Quindi si infilò con la parte posteriore in uno dei tunnel sul soffitto e proseguì verso l’alto in verticale. Le cinture li trattennero al sedile, mentre la forza di gravità li attirava verso il basso, verso il fondo della caverna che videro sparire nell’oscurità. 
«Se mi avessi detto che avevi intenzione di fare manovre di questo genere avrei saltato la colazione stamattina» borbottò Thorner e Raelynn sogghignò. 
La manovra era stata repentina, eppure la Livelyan aveva risposto alla perfezione, segno che le riparazioni erano andate a buon fine. Raelynn aveva bisogno di sapere che tutti i sistemi della nave, in qualsiasi momento ce ne fosse stato bisogno, avrebbero funzionato al cento percento. Non c’era margine di errore quando si era inseguiti da un nugolo di Sentinelle e lei aveva la responsabilità di riportare a casa sana e salva la sua ciurma. 
La Livelyan sbucò in una galleria più ampia e Raelynn la rimise in orizzontale, ordinando a Rosius di ridurre la potenza. Il giovane continuava a tenere d’occhio gli scanner, ma navigavano talmente in profondità che era molto improbabile trovare Sentinelle. E Raelynn non aveva intenzione di portarsi a quota trasmissione. Non quel giorno, almeno. 
«Thor, facciamo esercitare gli artiglieri» disse in cuffia. Poi si rivolse a Rosius: «Trasferisci i comandi a Thorner e vai anche tu.» 
Mentre Thor caricava il programma di addestramento, tutti i membri dell’equipaggio si portarono alle loro postazioni: Calbet, che era capo artigliere, e Edjac alle torrette superiori mentre Rosius e Vereena a quelle posizionate in coda alla nave. 
Mentre Raelynn avrebbe pilotato la nave con l’aiuto di Thorner, gli altri sarebbero stati impegnati in una simulazione di attacco da parte delle Sentinelle. L’addestramento avrebbe avuto effetti anche sulla nave: se non fossero riusciti a fermare le Sentinelle virtuali, il programma avrebbe simulato i danni sulla Livelyan, costringendo Raelynn a governarla in condizioni di emergenza. Era un bell’esercizio per tutti loro. 
Quando tutti furono in posizione, Thor fece partire il programma. Il computer simulò l’arrivo di Sentinelle di fronte e in coda alla Livelyan in contemporanea: era la peggior situazione possibile. Eppure, furono tutti impeccabili: Raelynn impegnò tutta se stessa nel condurre la nave in evoluzioni sempre più complicate, lanciandola in curve strettissime e manovrando con tutta la propria maestria in cunicoli decisamente angusti, mentre gli artiglieri sbaragliavano orde virtuali di nemici con proiettili altrettanto virtuali. 
Non appena la simulazione terminò, Raelynn impostò il pilota automatico per tornare a Zhaka e lasciò la plancia. Raggiunse il centro della nave, dov’era la postazione di Thor, e si complimentò con la ciurma per l’ottimo lavoro. 
«Sono felice che queste settimane a poltrire non vi abbiano rammollito» esclamò. 
«Io non ho poltrito granché» borbottò Calbet. 
«Solo perché sulla Mayrein non te la fai col comandante» scherzò Rosius. 
«Tost non è proprio il mio tipo» replicò Cal, fingendo un brivido e strappando una risata a tutti. 
«Va bene, ora basta» li riprese Raelynn. «Questo non è un picnic, manteniamo una parvenza di disciplina». Poi, rivolta a Rosius: «Riportaci a Zhaka». 
Il giovane, orgoglioso di poter pilotare la nave personalmente fino a casa, scattò verso la plancia. Gli altri si dedicarono a riordinare le scorte e le munizioni, sempre in stato di allerta, pronti ad entrare in azione nel caso avessero incontrato delle Sentinelle. Comunque, non trovarono intoppi e un paio d’ore dopo Rosius annunciò che i cancelli di Zhaka erano in vista. 
Raelynn tornò in plancia ma, quando Rosius fece per cederle il timone nella delicata operazione di attracco, rifiutò. 
«L’hai portata fin qui» disse, calma. «Finisci il lavoro.» 
Rosius, tentando senza riuscirci di mascherare la sua gioia per quella prova di fiducia, contattò il Controllo di Zhaka e prese accordi per il rientro. I sistemi di difesa vennero disattivati e il varco fu aperto davanti a loro. Rosius fece rallentare la nave, in attesa che i battenti si spalancassero abbastanza da farli passare. 
«Cancelli aperti e letti fatti. Bentornati a Zhaka» disse il giovane operatore del Controllo, nella frase tradizionale che già era usata a Zion ogni volta che una nave rientrava in porto. Risentire quelle parole, ogni volta, mandava un brivido lungo la schiena di Raelynn: le ricordava per cosa stavano lottando e perché era fondamentale liberare più persone possibile. 
Rosius manovrò la nave con perizia, dirigendosi con sicurezza verso l’attracco e, con altrettanta padronanza, fece posare la Livelyan al suolo e spense i sistemi. 
Raelynn slacciò le cinture e gli strinse la spalla: «Ottimo lavoro, Rosius». 
Prima di scendere fecero un veloce briefing, analizzando quel giro di collaudo, mettendo in luce quello che non aveva funzionato, valutando ogni decisione e ogni manovra, per essere pronti a tutto in caso di un attacco vero da parte delle Sentinelle. 
«Bene, ragazzi» proclamò infine Raelynn. «Direi che per oggi è abbastanza, potete andare.» 
Scesero dalla nave e Edjac, la sacca in spalla, si fermò di fronte a Raelynn: «Ci vediamo stasera, alla festa?» 
Non fece in tempo a rispondere che qualcuno la chiamò dalla passerella superiore. 
«Capitano Raelynn!» 
Il tono non era per nulla amichevole e la testa di Raelynn scattò verso l’alto. Era il colonnello Linuth e, a giudicare dalla sua faccia, non era portatore di buone notizie. Assieme al generale Velius era uno dei più accaniti sostenitori del fatto che Raelynn fosse troppo giovane per comandare una nave. La donna aveva mantenuto il comando solo perché aveva diverse conoscenze all’interno del Consiglio, persone che la stimavano e che sapevano che era un ottimo capitano. 
«Il generale chiede di vederla immediatamente» aggiunse in tono burbero, come se non fosse abbastanza evidente il motivo per cui si era scomodato a raggiungere la darsena. 
Raelynn allungò la propria borsa a Calbet: «Ci vediamo a casa». 
Salì agilmente la scaletta e seguì Linuth. L’uomo la precedette in silenzio fino al quartier generale, mentre Raelynn gli fissava la nuca e la testa pelata, evitando di girare lo sguardo attorno ma percependo gli occhi di tutti addosso. 
Il colonnello si fermò davanti ad una porta metallica e la colpì una volta con le nocche. Un tonante “avanti” risuonò dall’interno: Linuth fece ruotare la maniglia e si scansò per farla passare. Lei avanzò decisa ed entrò nell’ufficio del generale. 
Come tutte le celle di Zhaka, era arredato in modo semplice e spartano. Una massiccia scrivania metallica occupava quasi tutto lo spazio e dietro di essa, su una poltrona imbottita, stava il generale Velius. Era un ometto piccolo di statura, prematuramente calvo e la scrutava con un paio di occhietti porcini. Non si alzò per accoglierla e non le disse di accomodarsi sull’unica sedia presente, perciò Raelynn rimase in piedi, le mani allacciate dietro la schiena. Linuth rimase un passo dietro di lei, in atteggiamento marziale. 
«Capitano, so che oggi ha effettuato il collaudo della Livelyan» esordì. Niente saluto, niente preamboli, non aveva nemmeno alzato gli occhi su di lei, continuando ad esaminare il documento posato sulla scrivania: il suo astio nei confronti di Raelynn era più che mai manifesto. 
«Sì, signore» replicò, telegrafica. 
«Qualcosa da segnalare?» 
«Nulla, signore.» 
Finalmente sollevò lo sguardo e la fissò, appoggiandosi allo schienale e congiungendo le mani davanti a sé. Raelynn rimase immobile, finché fu lui ad abbassare gli occhi. 
«Mi auguro si renda conto che questo collaudo non sarebbe stato necessario se lei non avesse contravvenuto agli ordini e non avesse ingaggiato battaglia contro uno sciame di Sentinelle.» 
La rabbia per quel commento le bruciò nelle vene, ma cercò di non mostrare alcuna reazione. Sapeva che Velius poteva rovinare la sua carriera e quella del suo equipaggio ed era decisa a far sì che non succedesse. Ma le seccava che il potere militare di Zhaka fosse in mano a tipi come lui, incapaci di spostarsi dalle proprie convinzioni: non pretendeva che le dessero una medaglia per ciò che aveva fatto, ma almeno che riconoscessero che c’erano una cinquantina di Sentinelle in meno là fuori per merito suo. 
«Non ha niente da dire, capitano?» insistette il generale. 
«No, signore» disse, orgogliosa del tono impassibile che riuscì ad imbastire. 
«Spero che abbia ben chiaro che la Livelyan le è solo affidata e non può disporne come le pare e piace. Le navi della flotta di Zhaka sono troppo preziose per essere messe in pericolo come si è permessa di fare.» 
Raelynn aveva la replica sulle labbra, ma le tenne chiuse. Avrebbe voluto chiedergli cos’avrebbe fatto lui in quella situazione. Avrebbe attivato l’EMP, uccidendo tutti quelli collegati a Matrix e mettendo fuori uso due navi? Quello che lei aveva fatto aveva salvato l’equipaggio della Gariter e riportato entrambe le navi al porto.
Avrebbe voluto dire a quel pomposo buffone che le navi della flotta dovevano essere utilizzate per salvare le persone che le macchine tenevano prigioniere di Matrix. E fargli notare che rimanere alla darsena non era una grande strategia: prima o poi le macchine avrebbero scoperto dove si nascondevano – ammesso che già non lo sapessero – e allora sarebbero arrivate per distruggerli. E non ci sarebbe stato scampo per nessuno di loro, come avevano già avuto modo di constatare in passato. 
Eppure, tacque. Rimase zitta senza reagire a quella che non era altro che una provocazione. Pensava alla propria carriera, sì. Ma pensava anche a quella del suo equipaggio: mai avrebbe permesso che loro pagassero per i suoi errori. E sapeva che mettersi contro Velius non aveva alcun senso, né l’avrebbe portata da qualche parte. Lui era nato a Zhaka e, a differenza sua, non sapeva cosa volesse dire vivere in Matrix con la costante percezione che ci fosse qualcosa di sbagliato, né era mai stato sfruttato dalle macchine come fonte di energia. Lei invece veniva da quel mondo e avrebbe fatto di tutto per salvare il resto dell’umanità, a qualunque costo. 
«Le è chiaro, capitano?» le domandò in tono brusco, dato che non aveva replicato alla sua precedente affermazione. 
«Perfettamente chiaro, signore» disse, mettendo un sottile velo di sarcasmo che Velius non percepì ma che, a giudicare da come strusciò i piedi sul pavimento, non sfuggì a Linuth. 
Velius annuì e riportò l’attenzione sul documento ancora posato davanti a sé. 
«Può andare, capitano» la congedò. 
«Grazie, signore» replicò Raelynn, girando sui tacchi e raggiungendo la porta senza degnare Linuth di un’occhiata. Era già con la mano sulla maniglia quando Velius la fermò. 
«Dimenticavo» esordì e, quando lei si volse e vide il viscido sorrisetto sul suo viso, Raelynn capì che non l’aveva dimenticato per niente ma che aveva atteso proprio quel momento. «La sua nave è stata assegnata al servizio di pattuglia dei confini di Zhaka. Non ci saranno sortite a quota trasmissione fino a nuovo mio ordine.» 
Raelynn strinse i pugni con il desiderio impellente di abbatterli sulla faccia di quei due idioti, mentre un fiotto di acida collera le si riversava nello stomaco. Senza presunzione, Raelynn sapeva di essere uno dei migliori capitani di Zhaka: quello che stavano facendo era mera vendetta e tenere lei e il suo equipaggio di pattuglia nei dintorni della colonia era uno spreco di risorse. Ma non poteva permettersi di dare a quei due ulteriori pretesti per avercela con lei. Quindi rilassò le mani e abbassò il capo in un piccolo inchino. 
«Ricevuto, signore.» 
Velius annuì di nuovo, evidentemente soddisfatto della sua resa. Quindi fece un cenno con la mano ad indicare che poteva uscire. 
Appena ebbe richiuso dietro di sé la porta dell’ufficio serrò le palpebre e trasse un profondo respiro, cercando di mettere a tacere la rabbia che le ribolliva in corpo. Poi, recuperata una parvenza di autocontrollo, si avviò verso l’alloggio che condivideva con Calbet. 
Lui l’attendeva lì, stravaccato in poltrona a leggere. Alzò lo sguardo, notò la sua espressione e mise da parte il libro, alzandosi per accoglierla. 
«Qualche novità che dovrei sapere?» chiese, mentre lei sfilava la maglia, scompigliandosi i capelli. 
«Nessuna novità» replicò. «Nulla che già non sapessimo, ossia che non sono la preferita di Velius e se dipendesse da lui mi avrebbe già tolto il comando» concluse, gettando con rabbia la maglia sul pavimento. 
Sedettero al tavolo e lei gli raccontò brevemente quanto era successo. Cal sbatté con rabbia il pugno sul piano di metallo: «Non può tenerci di pattuglia, è uno spreco terribile.» 
«Credi che io non la pensi così? Ma non posso fare nulla, Cal. La mia posizione è già abbastanza precaria: se disobbedisco ad un ordine diretto come quello che mi ha dato, mi metterò ancor più nei guai. E non voglio rovinarmi la carriera, né tantomeno trascinare tutti voi nel fango.» 
«Lynn, sai che tutta la squadra ti seguirebbe senza fiatare» constatò lui. 
«Sì, lo so. Ed è proprio per questo che ti chiedo di aiutarmi a fare in modo che accettino la decisione come ho fatto io. Se dovessi perdere il comando della nave, non avremo più la possibilità di entrare in Matrix e liberare gli umani. E io non posso permettere che accada.» 
Calbet rimase in silenzio. Sapeva che la sua compagna aveva ragione, ma non poteva smettere di pensare al fatto che non era giusto che subisse tali vessazioni. Tutto ciò che aveva fatto, Raelynn l’aveva fatto, mettendo sempre il bene degli altri davanti al suo. Non aveva perso nessuno di quelli che le erano stati affidati e aveva sempre riportato la nave a Zhaka, per quanto danneggiata. 
La mano della donna gli si posò sul braccio e lo strappò ai suoi pensieri: «Posso contare su di te, Cal?» domandò. 
«Certo, Lynn. Non hai bisogno di chiedermi lealtà e fedeltà, sai che farò ciò che mi hai chiesto» replicò. Poi sogghignò: «Anche se avrei voglia di prendere a pugni quella faccia da stronzo di Linuth da che si è presentato sulla darsena come se ne fosse il padrone.» 
«Sapessi io!» confermò la donna, scoppiando a ridere. Quindi si alzò e gli tese la mano: «Andiamo a fare una doccia, che dici?» 
«Con il più grande piacere, donna!» esclamò, e la seguì in bagno.




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