Storie di Veglia

di Dira_
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La Giöbia.

 
Le stazioni dei treni sono non luoghi.
Non sono progettate per essere abitate; sono passaggi che ti portano da un luogo di partenza ad uno di arrivo. La stazione di Busto Arstizio non fa eccezione, deve servire ad uno scopo, non deve essere accogliente.
Soprattutto, non lo è quando cala il sole nell'ultimo, freddissimo giovedì di Gennaio.
“Il treno sta partendo!”
Passi concitati, lanciati in una corsa sfrenata mentre il fiato corto si materializza in una nube di condensa.
Chiara ha tredici anni e gli adulti la considerano una giovane donna coscienziosa, ma a lei sembra soltanto di essere costantemente fuori posto. Di certo lo è in quel momento, mentre tenta disperatamente di prendere un treno che partirà anche senza di lei.
“Dai, dai, dai!”
La schiena di suo fratello Riccardo le fa da bussola, mentre attraversano correndo Piazza Volontari della Libertà.
“Non ce la facciamo!” grida il comune amico Leandro con il fiatone di chi sta per arrendersi. “Lasciamo perdere!”
“Ce la facciamo se non rallenti!” lo incalza la ragazzina. “Ilyas è quasi arrivato, terrà le porte aperte!”
Devono prendere quel treno. È l’ultimo per il paese.
Chiara ha ancora nelle narici l’odore delle fiaccole e negli occhi lo spettacolo della giöbia data alle fiamme. Non vuole rimanere a Busto. Non quella notte.
 
“Quello stronzo di capotreno mi ha chiuso le porte in faccia!”
Ilyas si passa una mano tra i dreadlocks, scoccando agli amici uno sguardo di scuse. Sono arrivati alla banchina solo per vedere l’ultimo vagone allontanarsi nella leggera nebbia serale.
Riccardo impreca e rivolge il medio ai fanali di coda del treno.
“Quindi siamo bloccati qui,” borbotta Leandro. Si stringe nel cappotto scuro e aggiunge incattivito: “Ve l’avevo detto che non dovevamo fare tardi.”
“Io volevo il risotto!” protesta Riccardo. “C’era fila, che facevo?”
“Non mangiavi.”
“Ma anche no!”
“Smettetela,” li interrompe Chiara. La banchina è deserta, gli ultimi passeggeri sono scesi e l’illuminazione giallastra e artificiale illumina i volti ancora congestionati dalla corsa. “Abbiamo deciso tutti di rimanere. Non è colpa del Ricky. Ora troviamo una soluzione.”
“Secondo voi ci sono ancora gli autobus?” domanda Ilyas avvicinandosi al tabellone degli orari. “Perché il prossimo treno è alle sei.”
“Non passo la notte in stazione!" esclama Leandro. “Papà ha detto che è piena di tossici. E domani abbiamo scuola!”
Non è quello il punto.
Chiara inspira e guarda il fratello. Quando incrocia il suo sguardo questo le rivolge un’espressione interrogativa.
No, realizza Chiara, non ricorda la storia che nonno raccontava sulla giöbia.
La giöbia è bruciata nel falò più grande di Busto ore prima eppure Chiara ha ancora negli occhi il fantoccio… e la sua espressione vitrea mentre viene divorato dalle fiamme.
Sopra le loro teste i neon della stazione sfarfallano e Chiara sobbalza. “Non resteremo qui,” dice risoluta. “Chiamo il Giova e gli chiedo di venirci a prendere con la macchina.”
“No!” sbotta Riccardo. “Facciamo da soli!”
“Non possiamo, l’ultimo bus per il paese è già passato. Non gli diciamo che abbiamo fatto tardi per colpa tua, tranquillo.”
“Figurati se basta,” Riccardo fa una smorfia ma Ilyas lo distrae dal malumore coinvolgendolo in un’improvvisata partita di calcio con una lattina. Leandro invece si siede imbronciato su una panchina.
Chiara chiama. Dopo qualche momento però allontana il display dall’orecchio e sgrana gli occhi. “Non ho campo.”
“Chiama dal mio,” offre Ilyas sfilando il cellulare dalla tasca della tuta. Poi esita. “... o forse no. Niente rete.”
Leandro non offre il suo ma controlla e poi schiocca le labbra. “Che sta succedendo?”
Riccardo si stringe nelle spalle perché lui il telefono l’ha dimenticato a casa. “Spegni e riaccendi?”
“L’ho fatto, non funziona,” dice Chiara. Cerca di rimanere razionale, c’è una spiegazione e lei si è semplicemente suggestionata. Ovvio. Quindi si morde una pellicina del pollice e proclama: “Usciamo. Fuori prenderà.”
 
Fuori i cellulari non prendono.
E non è la cosa peggiore: fuori dalla stazione non c’è nessuno.
I lampioni illuminano la piazza vuota di una luce fredda e distante. Sembra il cuore della notte e non sono neppure passate le undici.
“Che si fa?” domanda Ilyas. Gli occhi scuri dardeggiano da un lato all’altro della piazza, come se cercassero qualcosa senza trovarlo.
Le persone. Le auto. I rumori. Dove sono?
Anche l’odore di legna nelle narici di Chiara è scomparso e questo spaventa la ragazzina più del silenzio. L’assenza di odori, completa e spiazzante.
“Torniamo in centro e cerchiamo un taxi, lo pago io,” propone Leandro.
“I taxi dovrebbero fermare anche in stazione…”
“Tu li vedi? Io no. Andiamo.”
Chiara manda comunque un messaggio al fratello maggiore, sperando che prima o poi venga recapitato. Poi intasca il cellulare e segue gli amici per le strade deserte.
 
Qualcosa li sta seguendo.
Stanno svoltando via Mameli e un’ombra alta e ricurva e scivola liquida e densa tra le decorazioni dei palazzi, inseguendoli. Il cuore di Chiara batte all’impazzata. È solo suggestione, ripete, solo quello. La storia del nonno non è vera.
“Dove sono finiti tutti?” domanda Ilyas dando voce al pensiero comune.
“Saranno tornati a casa.” Riccardo si stringe nelle spalle, continuando a tirare calci alla lattina che si è portato dalla stazione.
Inconsciamente accelerano il passo, perché pur senza parlarsi cercano tutti la stessa cosa: un segno che non c’è niente di anormale… ma il freddo è più pungente, gli odori e i suoni sono assenti. Ilyas impreca quando dopo l’ennesimo incrocio non trovano nessuno. La città sembra il mondo di un videogioco in cui hanno dimenticato di mettere le persone.
“La vedete anche voi?” mormora Leandro e non ha il solito tono antipatico. È spaventato. “La vedete l’ombra?”
Chiara a quel punto non può più fingere, si volta e la guarda, stavolta sul serio: mani ricurve come uncini, le gambe scheletriche lunghissime e storte in angoli innaturali. È aggrappata al cornicione di un palazzo come un grosso ragno fatto di ombre liquide … ma in tutto quel nero, spicca come un pugno il rosso sangue delle sue calze.
La giöbia, realizza Chiara terrorizzata, è la giöbia. Non hanno bruciato quella giusta.
 
“In piazza bruciano un fantoccio, nani, non quella vera. Bruciano quella sbagliata.
Spera di non incontrarla mai, o ti mangerà in un solo boccone.”
 
“Correte!” grida. Strattona Riccardo tirandoselo dietro e viene tallonata da Leandro. Ilyas li ha superati ma si volta e li incita.
Sono tutti in preda al terrore. L’ombra è veloce solo come può essere qualcosa di incorporeo.
La giöbia che mangia i bambini e può essere sconfitta solo con il fuoco. Qualcosa che non dovrebbe essere vero, ma che invece lo è perché li sta inseguendo.
Il fuoco.
Chiara sa che l’ombra li raggiungerà. È così che funziona nelle fiabe, ma sa che c’è anche una soluzione all’apparente ineluttabile. Fruga nella borsa, che ha preso alla madre, consapevole che vi troverà due cose: una confezione di lacca per capelli da viaggio e un accendino, perché la mamma vuole sempre avere i capelli in ordine e fuma come una ciminiera.
Chiara si volta, chiude gli occhi e fa valere la chimica: lacca per capelli di fronte ad una fiamma viva.
Un urlo le spacca un timpano. È la giöbia, ha avuto paura del suo lanciafiamme improvvisato.
Solo il fuoco la uccide.
“Chiara!”
Non si guarda indietro, le gambe le bruciano per lo sforzo mentre segue la voce degli amici. Una serie di svolte che sembra infinita e precipitano di nuovo in Piazzale dei Volontari.
È come emergere da sotto la superficie dell’acqua e la cacofonia di suoni è quasi assordante: auto che passano, un capannello di ragazzi che ciondola fuori dalla stazione, il lontano rumore di musica proveniente da un locale …
La macchina del Giova è parcheggiata nel posto disabili e vi si dirigono a passo veloce.
“Dove eravate finiti? Muovete il culo, non ho tutta la notte!” li apostrofa il ragazzo sporgendo la testa dal finestrino.
Riccardo e gli altri si stringono nei sedili dietro e Chiara si siede in quello davanti.
Che è successo?
Si è suggestionata, ecco cosa. Le ombre della sera, una città che si è svuotata dopo un evento importante…
Chiara guarda nello specchietto retrovisore, ma i tre compagni sembrano tranquilli: Ilyas si è tuffato nel suo telefono, ora funzionante, per seguire una partita di basket, Riccardo sbadiglia e si infila gli auricolari per ascoltare la musica. Quando però la ragazzina incrocia lo sguardo di Leandro, l’amico lo distoglie per incollarlo al finestrino. Si stringe nel cappotto ma non dice niente.
“Allora com’era il falò?” domanda il Giova. Dalla radio risuonano le note di Light my Fire dei Doors.
Chiara rabbridividisce. “Abbiamo fatto troppo tardi.”
***

Questo racconto, anche se con un titolo diverso, ha vinto il primo premio "Pagine Folk 2022" del festival Busto Folk- Festival Interceltico, con il tema "The fire - il fuoco".
Per maggiori informazioni sulla giöbia, qui.
I personaggi di questa storia non appartengono al ciclo di Malacena, ma sono i personaggi di, spero, un futuro racconto che scriverò, ambientato dalle parti che frequento abitualmente da quando mi sono trasferita a Milano. Qualcuno potrebbe dire: "ma che c'è di creepy nella Monza-Brianza moderna?"
Beh, fidatevi. Magari non ci sono boschi a perdita d'occhio e sentieri abbandonati ... ma anche il cemento può fare paura e il folklore spaventoso non muore mai. Esistono infinite porte per mondi altri ... e ogni tanto ci cadi dentro. ;)
 




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