I'll stay with you
Titolo: I'll stay with you
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons
Tipologia: One-shot [ 1722 parole fiumidiparole
]
Personaggi: Damian Wayne, Jonathan
Samuel Kent
Rating: Giallo
Genere: Generale, Malinconico
Avvertimenti: What if?,
Razzismo, Slash
Writeptember: 3. X rimane
chiuso dentro qualcosa || Immagine: Persona che tocca uno scheletro
BATMAN
© 1939Bob Kane/DC. All Rights Reserved.
Damian
si tirò su il cappuccio della felpa e nascose la faccia al di sotto di
esso, ficcandosi le mani nelle tasche mentre, con lo sguardo perso nel
vuoto, fissava il campo da football che poteva vedere benissimo dal
tetto dell’edificio scolastico.
Quella che suo padre aveva chiamato
“socializzazione” era andata peggio di quanto avesse creduto al
principio. Proveniente da anni e anni di indottrinamento della Lega
degli Assassini e studi privati eseguiti a casa quando era andato in
seguito a vivere con suo padre a Gotham, Damian non era mai stato così
bravo a “socializzare” come tutti gli altri ragazzi della sua età, ma
aveva comunque provato ad integrarsi e nel corso degli anni, complice
anche la vicinanza della famiglia e l’aiuto di Jon, era riuscito a
mettere da parte la sua arroganza e alterigia per mostrarsi più umile e
fare davvero amicizia, cosa che alla scuola di Belle Reve era servita a
fargli fare almeno degli amici come Sidney. La parte difficile era
venuta dopo, quando aveva compiuto sedici anni e aveva cominciato a
frequentare il liceo.
Come di consuetudine, suo padre gli aveva
consigliato di essere se stesso ma di non trattare tutti con
sufficienza, e Damian aveva ironicamente ribattuto che ormai era
cresciuto e che non avrebbe dovuto preoccuparsi di quello, poiché ormai
sapeva come comportarsi e come fare buon viso a cattivo gioco. Ciò che
non aveva previsto, però, era stato il comportamento dei ragazzi
stessi. Quel primo giorno si era visto con Jon, si erano separati per
andare in classi diverse e aveva persino fatto amicizia con qualcuno –
o quanto meno si erano scambiati qualche parola cordiale – e per Damian
la giornata si era svolta con molta più naturalezza di quanto avesse
creduto… almeno fin quando non si era trovato dinanzi ad un episodio di
bullismo e non era intervenuto. Avrebbe dovuto essere una cosa
semplice, veloce, allontanare quel gruppo di ragazzetti idioti che si
credevano professionisti di football e farli smettere di tormentare il
povero ragazzo che avevano preso di mira, ma la situazione gli si era
ritorta contro in modi che non aveva creduto.
Non si era andato a cercare la rissa, davvero. Era
semplicemente entrato in bagno, aveva sentito qualcuno gridare di
essere rimasto chiuso dentro e aveva semplicemente forzato la serratura
per farlo uscire, e nello scambiarsi qualche veloce convenevole e
qualche ringraziamento, erano stati raggiunti da quel gruppetto che si
era preso il merito di averlo chiuso lì e spinto via Damian, insistendo
che non avrebbe dovuto immischiarsi in affari che riguardavano solo la
squadra; Damian aveva fatto affidamento su tutto il suo autocontrollo –
ed era sempre stato risaputo che ne avesse poco – e aveva accennato
loro, con tutta la calma del mondo, di lasciar stare quel ragazzo e di
farlo tornare in classe, ma uno dei ragazzi del gruppo l’aveva
afferrato per il bavero della giacca, stretto la presa e, sputandogli
in faccia un “Fatti gli affari tuoi e tornatene al tuo paese, arabo di
merda”, l’aveva spinto con la schiena contro il muro ed era tornato ad
occuparsi del povero malcapitato insieme ai suoi amichetti.
Damian aveva letteralmente visto rosso. Non aveva
capito perché, in un primo momento il suo cervello si era completamente
disconnesso, ma aveva mandato all’aria i buoni propositi; aveva sentito
una strana rabbia farlo fremere, scorrere nelle sue vene come sangue
avvelenato e aveva stretto i pugni prima di rimettersi in piedi e
chiedere ancora “gentilmente” di smetterla… ma uno di loro gli aveva
colpito una guancia con un pugno, l’aveva pesantemente insultato
continuando a chiamarlo arabo e da lì era scoppiato letteralmente
l’inferno. Scroccando il collo, Damian aveva reagito alla violenza con
altra violenza. Un comportamento sbagliato che suo padre non avrebbe
sicuramente approvato, ma che qualcosa dentro di lui aveva reclamato a
gran voce finché quegli idioti non erano finiti ai suoi piedi come la
feccia che erano, piagnucolanti e imploranti. Ci aveva rimediato a sua
volta un labbro spaccato e un occhio nero per l’essere stato colto alla
sprovvista, ma era stato lo sguardo spaventato del ragazzo che aveva
aiutato a fargli più male.
Era uscito dal bagno prima ancora che il ragazzo
potesse dire qualcosa, rifugiandosi sul tetto su cui si trovava
tuttora. E, a mente fresca e col vento pomeridiano che gli scompigliava
i capelli, aveva realizzato di essere stato vittima e carnefice al
tempo stesso. Quei ragazzi non lo avevano attaccato solo perché si era
intromesso nel loro “gioco”… si erano soffermati soprattutto sul colore
della sua pelle. Avrebbe dovuto farsi scivolare addosso ogni cosa,
ignorare quel branco di idioti e andare avanti come aveva sempre fatto,
eppure qualcosa, un piccolo seme che fino ad allora non era mai
spuntato nel suo petto, aveva cominciato a crescere e intrecciare i
suoi rami intorno al suo cuore, stringendolo in una morsa. Ad occhi
altrui era sempre stato un ragazzo che non si era mai curato delle
persone, di ciò che pensavano di lui gli estranei né di ciò che gli
accadeva intorno, ma la verità era che era sempre stato troppo
empatico. Esattamente come Jason. E odiava essere come Jason, in quei
frangenti.
La scena di quanto accaduto corse nuovamente davanti
ai suoi occhi e Damian imprecò, dando un pugno sul pavimento e
pentendosene subito qualche momento dopo, massaggiandosi le nocche già
scorticate a causa dei pugni che aveva dato; si trattenne anche dal
mordersi il labbro, per quanto avesse sfiorato il taglio con la lingua
e avesse sibilato, e nascose meglio l’occhio al di sotto del cappuccio,
stringendosi le gambe al petto. Non voleva rimuginare su quelle parole,
non voleva pensare a ciò che era successo, non riusciva a capacitarsi
di essere diventato una vittima e per un secondo incolpò persino se
stesso, annaspando nello sgranare gli occhi umidi di lacrime. Perché si
stava incolpando? Lui non aveva fatto niente, aveva solo cercato di
aiutare un ragazzo. Aveva reagito con eccesso di violenza, ma se lo
erano meritato… giusto?
«D?»
Al suono della voce di Jon, Damian si strofinò
furente la manica della felpa sugli occhi, pentendosene solo quando il
bruciore gli ricordò il livido che si era procurato e si nascose
meglio, grugnendo un saluto senza aggiungere altro; non si voltò, ma
sentì i passi leggeri di Jon mentre si avvicinava, la tensione del suo
corpo è i movimenti calcolati che compiva per contenere in ogni istante
la sua forza, finché non si sedette sul condotto di aereazione accanto
a lui, in silenzio, con le mani sulle ginocchia e lo sguardo fisso a
sua volta verso il campo da football. La notizia aveva fatto il giro
della scuola, Damian non si sarebbe meravigliato se anche Jon lo avesse
saputo; molto probabilmente avevano sentito solo le campane della
squadra e non del ragazzo che aveva salvato da loro, probabilmente
troppo spaventato di poter essere preso di nuovo di mira per parlare,
quindi Damian avrebbe dovuto aspettarsi una nota disciplinare o quelle
stronzate lì solo perché aveva reagito ad un’ingiustizia. Ma non gli
importava. Non sarebbe riuscito a stare lì a guardare, eppure… eppure
quelle parole facevano male e le sentiva ormai marchiate a fuoco nel
suo cuore e sulla sua pelle, violandolo. Perché diavolo si sentiva
così? Lui era un Al Ghul, un Wayne, ma innanzitutto Damian, una
persona. E non c’era alcuna vergogna nell’essere chi era. Se chiudeva
gli occhi e si guardava indietro, poteva vedere dinanzi a sé lo
scheletro del ragazzo che era stato gli orrori che aveva provato e la
redenzione che aveva affrontato, e ogni più piccolo osso di
quell’ammasso di peccati si frantumava fra le sue dita al minimo tocco,
lasciando solo polvere. Aveva lottato fin troppo per sentirsi
finalmente in grado di meritarsi la vita che aveva, chi erano quegli
idioti per farlo sentire in quel modo?
«Qualunque cosa stiano dicendo, non sono stato io a
cominciare», soffiò a mezza bocca dopo lunghi attimi di silenzio, ma
Jon, senza dire una parola, gli cinse le spalle con un braccio e lo
attirò a sé, facendogli poggiare la testa contro la sua scapola.
«Non ho creduto nemmeno per un momento che fossi
stato tu», sussurrò semplicemente senza fare pressioni, e forse fu
proprio questo a spingere Damian a raccontargli tutto ciò che era
successo, ciò che aveva provato nel sentire quelle parole e il senso di
disagio e colpa che esse avevano scavato dentro fino a farlo reagire in
maniera spropositata, col cappuccio ancora calato sul viso e le parole
che sgorgavano dalla sua bocca come un fiume in piena che non riusciva
ad arginare dietro la diga di compostezza che aveva sempre alzato
davanti a sé nel corso degli anni.
Stanco, stretto nell’abbraccio del suo migliore
amico e col calore del suo corpo che lo faceva sentire stranamente al
sicuro, Damian si lasciò completamente andare finché non si accasciò
contro di lui, grato di quel conforto emotivo di cui non si era reso
conto di aver bisogno; nemmeno quando gli aveva raccontato del suo
passato su era sentito così, ma anche in quei momenti Jon non lo aveva
mai incolpato di niente, lo aveva compreso esattamente come lo stava
comprendendo in quel momento. E Jon lo strinse maggiormente a sé,
poggiando il mento sul suo capo.
«Non hai nulla di cui rimproverarti, D», affermò e,
voltandosi verso di lui, gli sfiorò delicatamente la guancia destra con
una mano. «Quegli idioti se lo meritavano».
«Mio padre non la penserà esattamente così».
«Forse, ma scommetto che lui e i tuoi fratelli non
reagiranno bene quando sapranno il vero motivo per cui hai un occhio
nero».
Damian non avrebbe voluto, ma un po’ rise. «Sei
diabolico».
«Non so proprio di cosa stai parlando». Jon fece
finta di nulla, sciogliendosi dall’abbraccio solo per porgergli una
mano. «Vieni, ti accompagno in infermeria».
Seppur indugiando per un istante, Damian allungò il
braccio e intrecciò le dita con quelle di Jon, alzandosi da quel
condotto per poter tornare di sotto insieme a Jon. E, quando
raggiunsero l’infermiera, Damian si meravigliò di trovare lì il ragazzo
che aveva aiutato e sgranò gli occhi nel sentirsi abbracciare,
scoprendo che aveva raccontato tutto al preside e che lo ringraziava
con tutto il cuore.
Forse non tutte le buone azioni finivano per nuocere
come aveva sempre creduto.
_Note inconcludenti dell'autrice
Scritta per il ventiduesimo giorno del #writeptember sul
gruppo facebook Hurt/comfort
Italia
Sì, sono
terribilmente inritardo con il postare questa storia, ma ormai si sa
che io non seguo uno schema e... niente, le cose alla fin fine vanno
così, una storia dietro l'altra scritta anche secoli prima. A parte
questo
Qui affrontiamo un tema un po' spinoso, ovvero il fatto che Damian sia
stato preso di mira da ragazzi che sono ricordi al razzismo, puntando
sul suo lato arabo (tra l'altro è anche in parte cinese e un po'
scozzese, sto ragazzo è un mondo su due gambe). E cosa succede? Beh...
Damian reagisce all'attacco di quei bulli senza nemmeno rendersene
subito conto, salvo poi capire che, nonostante ciò che ha fatto,
quell'atto è servito ad aiutare qualcuno. E chi, oltre al suo amico
Jon, può consolarlo?
P.s. Sidney è un ragazzo no-binary che compare in una delle recenti
storie dei Super Sons
Commenti
e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
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