Sacrogral ha una penna in mano V

di sacrogral
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…in cui qualcuno si mostrerà per com’è, qualcun altro meno, ma comunque si segue un piano, che è il non avere alcun piano, e solo deo iuvante – è il caso di dirlo – qualcosa potrà risolversi, ma solo nel futuro, che com’è noto è un’ipotesi.

 
“La prima volta che vedesti Julienne, eh, vecchio?” sorrise il poeta.

“Già!” grugnì l’oste, versando da bere per entrambi, senza guardarlo in faccia.

“E ancora non ti sei deciso a chiederla in moglie?” sbottò Gobemouche “Scommetto che non aspetta altro!”

Nel buio della Disperazione gli occhi di Joss , piccoli e infossati, sembrarono inumidirsi un po’.

“Non son stati tempi da pensare al matrimonio” si giustificò “Il Novantatré è passato come una tempesta. Il prima e il dopo hanno lasciato strascichi”.

“Amico mio, se si ragiona così, non si combina mai nulla. E intanto la vita scorre, e scorre anche la morte, direbbe Sanson” ammonì Gobemouche, serio, e poi “Joss, dov’è Foret?”

L’uomo, che sembrava perso nello sforzo di riflettere sulle parole del giovane poeta, si riscosse.

“Arriverà fra poco. Insieme a Julienne. Se lo è preso a cuore e le fa da aiutante. Adesso fa la cuoca per una famiglia ricca” aggiunse, piuttosto orgoglioso “e la trattano con grande rispetto. E Foret, insomma, Foret a cucinare è bravo!”.

“Ma tu pensa!” rise; poi, con uno di quei cambi d’espressione tipici della sua faccia mobile, Gobemouche si fece pensieroso.

“Ricordo tutto quello che è accaduto nel momento in cui ne parliamo, ma ancora mi pare di aver passato cinque anni – un lustro – in uno stato di nebbia, come se avessi la mente offuscata. Finché una mattina, così, senza nemmeno pensare, ho messo un po’ di roba in un sacco e ho seguito il richiamo di Parigi.
E ora, come se riallacciassi un filo, rivivo tutto, come se lo stessi vivendo la prima volta nel momento in cui ne parliamo. È come se per cinque anni avessi battuto le mani nella nebbia, senza che nessuno mi vedesse, che nessuno mi sentisse, e io fossi incapace di usare la bussola”.

“Son discorsi troppo complicati per me” tagliò corto Joss “Io son solo contento di rivederti, ragazzo”.


 
Come ogni mattina che Dio metteva in terra, il marchese de Sade fu svegliato da Launay, Bernard René Joudan de, nella maniera più brusca possibile, e con Bernardin le Marquis , com’era chiamato non senza ombra di scherno, che sfoggiava fiero e brutale la maschera da mettere sul volto del prigioniero.

Inevitabile che il marchese la odiasse, quella gabbia che raddoppiava la sua prigionia, che gli comprimeva la testa, e gli sembrava a stento di poter respirare; ma non si lasciava sfuggire mai neppure un cenno di disappunto, men che meno di dolore.

Ricordava bene, e lo ricordava anche Launay, il giorno in cui aveva staccato di netto il pollice di una giovane guardia, con un morso, il giorno in cui gli avevano tolto penna, carta  e calamaio,  e la guardia aveva sputato sulle sue pagine già scritte, e Sade, come si suol dire, non ci aveva visto più, aveva lasciato la sua rabbia scorrere a fiumi e si era avventato su quella che ormai era una preda con l’unica arma feroce che aveva, i suoi denti.

Ricordava che per una settimana intera aveva urlato come un pazzo, aveva riempito le mura di parole scritte con un bastone intinto nelle sue feci, merda per scrivere merda, gridava, e il suo vicino di cella, San Giorgio, era diventato furioso, aveva cominciato a latrare, facendo impazzire le guardie – contro di loro, i due pazzi, c’erano stati i secchi di acqua gelata; erano stati legati e imbavagliati, e il pazzo irlandese – o inglese – aveva rischiato di soffocarsi.

Ricordava di non aver mai smesso di gridare, né di giorno né di notte – finché non si fossero ricordati di chi era lui, di cosa era lui. E dopo sette giorni, Launay si era presentato pallido e tetro e con quell’affare sotto braccio, e in mano carta, penna e calamaio.

Lo scambio era chiaro e de Sade lo accettò subito, famelico e con le dita che gli prudevano dal desiderio di buttare fuori i suoi mostri.

“Quel ragazzo non potrà più utilizzare la mano, voi meritereste la stessa cosa!” gli aveva scudisciato in faccia il governatore, a lui che a stento gli aveva prestato attenzione, con la bava alla bocca davanti a quello che desiderava, impaziente di rimanere solo.

Ricordava soprattutto che era stata una punizione senza motivo e senza senso, solo perché Parigi schiumava dalla voglia di leggere le sue pagine contrabbandate – e poi inveire, detestare, gridare allo scandalo e all’immoralità, mentre nella città le sue pagine passavano di mano in mano, e chi non sapeva leggere se le faceva leggere, e chi sapeva disegnare le disegnava, e i preti urlavano più degli altri quando vedevano descritti i loro peccati col filtro dei suoi demoni, di una penna senza pietà e clemenza; e lui godeva amaro pensando alle sue pagine di filosofia insozzate e alle sue pagine erotiche consumate dagli occhi avidi di ruffiani e borghesi, e di nobili che non lo avrebbero ricevuto nemmeno per rispetto al titolo, ma che, in solitudine, con la faccia diversa da quella che presentavano agli amici, e meno vestiti di come si presentavano ai parenti, si buttavano sulle sue pagine.

“Ipocrita lettore, mio simile, mio fratello” pensava fra i denti, allora come in quel preciso momento.

“Che dici, Jerome – iniziò Launay, rivolto alla guardia (mai entrare da soli nella cella di quel prigioniero, aveva stabilito il governatore, tronfio e spaventato, ignorando tutto, tutto!) – glielo raccontiamo, a monsieur le marquis, quello che è successo, per metterlo di buon umore?”

Jerome Cordier, che durante i turni di notte giocava a carte con de Sade, ci beveva insieme il vino che Latour introduceva di soppiatto e ci spezzava il pane, subendo quel fascino mondano che, quando voleva, il gentiluomo sapeva sfoggiare; e un paio di volte Jerome Cordier gli aveva chiesto anche consigli personali, che mai aveva seguito, quindi, tornando al punto, Jerome Cordier non disse niente e guardò altrove.

“ Facciamolo contento, Jerome!” continuò l’inetto Launay, avvitando la maschera di ferro senza nemmeno domandare, quella mattina, se il marchese si fosse sciacquato la faccia – e non se l’era sciacquata, ma non disse niente, ripensava a quella ripugnante testa di cammello, e poi ai baci, al calore del corpo di lei, e ascoltava distratto le parole che gli giungevano opache e sfocate.

“Lo sapete, marchese, sono accaduti grandi eventi ieri notte. Grandi eventi per voi, esperto nel settore. Pensarci metterà a dura prova le cuciture dei suoi pantaloni, ti pare, Jerome?”

Sade, che pensava al calore del corpo di lei che, a occhi chiusi, aveva sentito in modo quasi commovente, registrò con una parte del cervello che Bernardin gli stava parlando in maniera laterale, come si fa quando si ha paura, come si fa quando si teme che l’interlocutore non trovi l’argomento divertente quanto noi. Ma non profferì parola.

“Due ragazze uccise, divin marchese!” esclamò Launay, stringendo una vite della maschera di ferro più del solito “A Parigi, in una sola notte. Uccise e torturate, proprio come piace a voi. Perché – guarda, guarda, Jerome, ecco cosa insegna, cosa ispira lo scrittore, quello qui presente!” asserì di seguito, accennando alle pagine ordinate in una pila, che riportavano l’elegante, inconfondibile grafia “Prendiamone una, una a caso!”

Avevo avuto la sfortuna di – non dico il piacere: la parola sarebbe fuori luogo – di eccitare più vivamente delle altre gli infami desideri di quel sodomita;
ormai aveva voglia di me quasi tutte le notti, già stremato, quella volta ebbe bisogno di artifici. Temendo forse di non farmi male abbastanza con il gladio spaventoso di cui era fornito, escogitò di perforarmi con uno di quegli accessori, cari alle religiose, che la decenza non permette di nominare e che era di una grossezza smisurata: dovetti prestarmi a tutto. Fu lui a far penetrare l’arma nel tempio prediletto; a forza di scossoni essa entrò molto a fondo; io getto grida; il monaco si diverte 2


“Capito, Jerome? Tu la chiameresti letteratura questa pornografia? E cosa credi sia successo a quella fiammiferaia, prima che le fosse tagliata la gola, e le fossero asportati brandelli di carne, come se fosse stata divorata da una bestia? Porcherie come queste… e voi, marchese, se non fossi certo che passate tutte le notti in questa fogna… Vi divertite, vero?”

Sade non disse niente. Guardò dritto in faccia Launay e vetrificò gli occhi, che sotto quella gabbia di ferro sembravano provenire dal Nulla, e il governatore sentì freddo e non riuscì a pronunciare più parola; chiuse e riaprì la bocca un paio di volte, mentre si trovava a sprofondare in due pozzi neri, a sentire voci infantili che gli ricordavano momenti che non voleva rivivere.

“Andiamo, Jerome” riuscì a buttar fuori, dopo lunghi secondi; e la guardia aprì la porta per far passare il governatore, e si voltò rapido verso il divin marchese con molte domande chiuse nella gola, ma incontrando gli occhi di quell’uomo – ci aveva giocato a carte, ci aveva spezzato il pane, gli aveva aperto la porta della cella la sera precedente – non provò neppure a sostenere lo sguardo, figuriamoci a dire qualcosa.

 
Rimasto solo, Sade cominciò a salmodiare. Sussurrava, all’inizio. Bisbigliava.

“Sei stata tu. Quell’infame ha detto divorata. Sei stata tu. Non puoi sedurre più gli uomini, con quella testa di cammello, e ti accanisci con le donne. Le divori. E prima le torturi, perché loro hanno il bel viso che tu non hai più. E mi usi, come sempre!”

Alzò la voce.

“Vieni a dirmelo, dimmelo in faccia! Usi me, i miei abissi, per mandarmi un messaggio, perché son troppo lento per te? Vuoi che ti materializzi il Graal davanti ora, è questo che vuoi? Vuoi farmi sentire un assassino? Io sono uno che scrive, non era la mia mano! Non era la mia mano a sgozzare, non era la mano a infliggere davvero dolore! Non era la mia mano ad ammazzare! Vuoi farmi sentire un criminale, vuoi macchiare la mia anima nera con questo, questo vuoi, farmi sentire ancora più reietto, più pazzo, perché ti ho vista! Ma io sono uno che scrive, solo uno che scrive! Le mie parole sono specchi, non riflettono me, riflettono chi legge. Io sono solo uno che scrive!” cominciò a urlare, e a battere la testa contro il muro, con una rabbia che non riusciva a controllare, desiderando di vederla, e disprezzando la morte, ridendo del dolore come un pazzo.

Lanauy e le due guardie a seguito, con i secchi d’acqua gelata, lo trovarono che ancora gridava: “Io sono solo uno che scrive”; ci volle il suo tempo per calmarlo, e legarlo al letto, con gli occhi vacui sotto la maschera; l’acqua, finita accidentalmente sulle prime pagine della pila, le rese illeggibili.
 


“Dottore!” esplose Gobemouche, al chiuso della carrozza e stretto in un abito per lui fin troppo elegante, e che lo faceva sentire comunque ridicolo, e con gli occhiali tondi sul naso, giusto per aver l’aria di un serio medico alle prime armi, ma che gli davano solo fastidio “Dottore! Io ancora vorrei sapere come faremo a trovare qualcosa che non sappiamo né se esiste né com’è fatto!”

“Se esiste lo troveremo, e quando l’avremo trovato esisterà” disse Foret, infagottato in una giacca elegante che non nascondeva la goffaggine.

Il dottor Lassone osservò, con un sospiro di rassegnazione, quelli che avrebbero dovuto essere i suoi aiutanti e pregò Dio che gliela mandasse buona, e senza vento.

Poi, dopo essersi pulito gli occhiali pulitissimi col fazzoletto di seta, iniziò:

“Da breve ricerca e informazioni prese all’ultimo, sul Graal ho ricavato solo fumo e mistero. Prendiamo per buona l’esistenza del Calice. E prendiamo per vera l’ipotesi del nostro marchese pazzo, ovvero che Filippo il Bello abbia intercettato i disgraziati custodi dell’oggetto e se ne sia impossessato in maniera fraudolenta, lasciando ai posteri il dovere e la necessità di ricamar leggende. E accettiamo ancora l’idea che i sovrani di Francia se lo siano passato in eredità, di generazione in generazione, con o senza adeguati riti, intrecciato o meno alla Massoneria e a cerimonie da iniziati. Restano per la nostra impotente ignoranza due fatti di cui prendere atto: 1) non sappiamo come sia fatto il Graal, e pare che, essendo ciò che è, trasmuti di forma a suo piacimento. Cos’è? Un calice d’oro di  fattura squisita? Un piatto di legno? Una ciotola di rame? Come il Graal protegge se stesso da mani troppo leste? Ciò, ed è il caso di dirlo, solo Dio lo sa. Dio e il sovrano. Quindi è al sovrano che dovremo chiedere, e da lui farcelo consegnare. E poi” alzò la mano, il dottor, per non essere interrotto “e poi, punto non trascurabile, 2) il Graal sceglie. Se si è stufato di proteggere la Monarchia, ci salterà fra le braccia. Se invece vuole stare esattamente dov’è, non ci sarà nulla da fare. E noi ne ricaveremo solo una morte fra sofferenze e torture e l’inferno dei blasfemi che han tentato l’ascesa all’Olimpo”.

“Bella prospettiva!” si lamentò Gobemouche.

Foret, che aveva seguito poco, disse: “Dunque per cui sembra che parli di un bambino, e non di una cosa”.

Il dottore sorrise: “Non hai torto, Foret. In fondo, le decisioni dell’Onnipotente son imperscrutabili. È Lui che ha deciso di incarnarsi in un frugoletto, no?”

“Come no!” gridò Gobemouche “E i padri eterni fanno i figli crocifissi!”

“Piano, piano, poeta dei cenci” invitò il dottore “Se fra Etienne fosse con noi direbbe che sei un miscredente e senzadio, e non è proprio il caso. Il Graal si sceglie le buone compagnie, ama i puri di cuore. Se inizi offendendogli il padre, quello si trincera dietro porte di ferro con davanti uno spiegamento di Guardie Reali, e non si fa trovare. Mostrati puro di cuore, Michel!”

“Segaossa, mi state dicendo che bisogna domandarlo al sovrano. Fatemi indovinare chi è che dovrà domandare a Luigi XVI di Borbone, della dinastia dei Capetingi, sovrano assoluto di Francia, se gentilmente ci consegna ciò che rende il suo potere stabile in eterno?”

“Purtroppo” sospirò con genuino rimpianto il medico “sei la nostra unica carta da giocare. Ti nasconderai nella Reggia, uscirai col favore delle tenebre, penetrerai nei Reali appartamenti, convincerai Sua Maestà a consegnarti il Graal. Se dovessi fallire sarà solo perché il Graal non ti ha scelto. A quel punto, io dirò di essere stato ingannato, Foret fingerà di non averti mai visto e tu raccomanderai a Dio la tua anima, che a Lui volerà entro breve tempo per una ventina di reati commessi in una volta sola”.

“Bella prospettiva!” ripeté Gobemouche, toccandosi il collo senza pensare “L’unica consolazione è l’idea che, dopo che io sarò morto, il divin marchese sarà così infuriato che vi impalerà tutti quanti, e i vostri pezzi più cari se li mangerà, con un piatto di fave e buon rosso!”

“Io so come fare a fingere di non averti conosciuto mai!” disse Foret, candido candido.

“E bravo il nostro ragazzo!” sbottò, il poeta, ma senza rancore.

“Orsù, Gobemouche, un po’ di fatalismo. Potremmo anche riuscire. C’è stata una combinazione di fattori così raffinata nella sua assoluta mancanza di logica che potrebbe essere un segno della divina benevolenza. In un giorno, potremmo fare ciò che non è stato fatto in saecula  saeculorum. O almeno così sostiene il nostro prete, dopo aver parlato con Qualcuno Molto In Alto, non so con chi né in che modo. Fra Etienne nasconde dei misteri, dei misteri e dei segreti: lo hai sentito, quel Latour? Ci provava un gran gusto, a provocare il frate, e mi sembrava di sentire una velata sfumatura di paura…”

“Se volete vedere una paura meno sfumata, non avete che da guardare me ora!”

“Bene” tagliò corto Lassone “Siamo arrivati. Unica raccomandazione: niente stupidaggini. Sangue freddo nelle vene. E tu, Foret, devi parlare il meno possibile. E se dovessi vedere una farfalla, lasciala lì”

Il ragazzo annuì, tutto serio.

 
  1. Purtroppo non mia – ma neppure di  Sade – cfr. C. Baudelaire, Al lettore, l’incipit dei Fiori del male; verrebbe voglia di citarlo tutto, questo fiore.
  2. Justine, p. 567 in D.A.F. de Sade, OPERE, cit.
 
 
 
 
 
 




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