Gente
mia,
ecco
che torno a sfracellarvi le gonadi con una storia di guerra. Siamo sul
fronte
orientale, durante l’Operazione Barbarossa, chiaramente il mio punto di
vista è
quello tedesco.
Se
qualcuno ha voglia di leggere o magari di commentare mi fa un gran
piacere, se
no grazie lo stesso e alla prossima!^^
Capitolo
1
I
colpi di mortaio si susseguivano ininterrotti: un lungo fischio
stridulo,
l’esplosione del proiettile e il rotolio cupo dei muri che crollavano.
Seguiva
qualche secondo di un silenzio irreale, quindi di nuovo un fischio, poi
un'esplosione e altri muri si sbriciolavano sotto l'impatto.
Una
vettura abbandonata scomparve in un geyser di fuoco, lasciando sul
selciato un
buco fumante; una casa di legno con le
finestre decorate fu abbattuta come da una poderosa manata e si
disgregò in un
mucchio di vecchie travi. Due figure, appena vaghe ombre nella
caligine, se ne
allontanarono di corsa.
Una
facciata vetusta, con l’intonaco scrostato e una falce e martello che
sostituiva vecchie insegne imperiali, colpita in pieno si coprì di
crepe, parve
gonfiarsi come una pagnotta nel forno, quindi deflagrò in una nube di
polvere
grigiastra, proiettando tutt’intorno pietre e calcinacci.
La
gragnola si abbatté anche sullo spezzone di muro che dava
un’approssimativa
copertura a un plotone di Waffen-SS. Alcuni mattoni rotolarono a terra,
raffiche di mitragliatrice pesante fecero schizzare via da altri rosate
di
frammenti.
I
soldati, che sedevano o stavano accosciati con le armi in pugno, non si
mossero
nemmeno. Solo qualcuna delle reclute più giovani si limitò a ritirare
appena la
testa fra le spalle, ma venne subito redarguita dai più anziani.
“Fate
attenzione, ragazzi,” brontolò il capitano
Schultz, spazzolandosi via la polvere che gli imbiancava l’uniforme,
“le
schegge di pietra sono peggio dei proiettili. Vi entrano in corpo e si
frantumano, e con l’apparecchio radiografico non si riescono nemmeno a
vedere.”
Cercò
di sporgersi appena dal riparo, ma un’altra raffica lo costrinse ad
abbassare
precipitosamente la testa. “Maledizione,” ringhiò. Consultò la mappa,
si
protese per quel che poteva a osservare la strada, quindi senza
staccare gli
occhi da essa chiamò: “Weber!”
Si
fece avanti un tenente alto, dalle spalle larghe, che nonostante
un'evidente
giovane età aveva il petto coperto di decorazioni. “Signore?” chiese.
“Weber, prenda
lei il comando della sezione. Mandi un
portaordini al resto della compagnia: Lange, Plank e von Auberg
porteranno qui
i loro plotoni il più rapidamente possibile, evitando di impegnare il
nemico.”
L’altro
si limitò ad annuire calmo. “Sissignore,” rispose semplicemente. “E
lei,
signore?”
Di
nuovo si udì un sibilo lacerante, seguito da un'esplosione. Il capitano
fece un
cenno della testa in quella direzione e disse: “Questi sono mortai
leggeri, quindi
non possono essere lontani. Ora io mi prendo un paio di squadre e un
telemetro
e vado a stanarli, poi trasmetteremo le coordinate all'artiglieria e ci
penseranno loro.”
A
quelle parole, una voce esclamò: “A rapporto, signor capitano.”
Schultz
si voltò, incrociando lo sguardo chiaro di un sottufficiale
giovanissimo,
appena un po' più basso del tenente Weber, ma ugualmente robusto e col
suo
stesso numero di decorazioni sulla giubba. “Che c’è, sergente Hofmann?”
gli
chiese.
“Mi offro
volontario, signor capitano.”
L'ufficiale
sorrise e rispose: “Perfetto, prenda una squadra e andiamo.”
Il
sergente rimase interdetto. “Ma, signore...”
Schultz
lo fissò. “Sì?”
“Ecco… io
intendevo al posto suo, signore.”
Il
capitano scosse la testa in un teatrale diniego e replicò: “Ah no,
Hofmann. Le
vuole tutte lei le decorazioni del Reich? Qualcuna me la dovrò pur
guadagnare
anch’io, non le pare?”
Un
nuovo colpo di mortaio, vicinissimo all’improvvisato rifugio, troncò il
breve
scambio. “È meglio che andiamo,” disse Schultz facendosi di nuovo
serio. Si
rivolse al tenente: “Weber, difenda la posizione e quando gli altri
plotoni
arriveranno, prenda il comando della compagnia in mia assenza.”
“Sissignore,”
rispose il giovane ufficiale.
Il
capitano Schultz si mise un MP40 ad armacollo, poi raccolse un
tascapane e ci
infilò dentro alcuni caricatori di ricambio e tutte le granate a mano
che
riuscì a farci stare. Infine con aria di ostentata solennità proclamò:
“E
ricordiamoci sempre che non sono i miti e i neutrali a fare la Storia,
ma solo
gli uomini che decidono di combattere.”
“Sissignore,”
rispose Hofmann, che stava a sua volta
preparandosi per la missione.
“Allora
andiamo, sergente. Mi stia dietro.”
Tenendosi
a ridosso dello spezzone di muro, il capitano prese ad avanzare
cautamente.
L'ennesimo sibilo lacerò l'aria, e subito dopo un'esplosione scagliò
ovunque
frammenti di pietra. L’ufficiale si immobilizzò e dal punto in cui si
trovava
osservò attento i dintorni: dalle macerie del palazzo entro cui lui e
la
squadra erano in copertura si vedeva quel che restava di una piccola
piazza,
con edifici diroccati sui quattro lati. Lente colonne di fumo si
levavano
laddove le bombe avevano innescato focolai di incendio e le fiamme
baluginavano
dietro le finestre sventrate, consumando ciò che era rimasto nelle
case. Una
strada era ostruita da un autocarro civile con le ruote all’aria,
cadaveri di
russi e tedeschi erano disseminati un po’ dappertutto.
In
particolare Schultz osservò quello di un ufficiale che era lungo
disteso sulla
schiena e con le braccia aperte. La sua espressione appariva stupita,
ma non
spaventata né contratta dal dolore. Data la posizione della testa, gli
occhi
spenti erano rivolti verso il cielo. Aveva un unico foro di proiettile
sul
petto, proprio sopra la croce di ferro di prima classe; il poco sangue
che ne
era sgorgato faceva capire che l’uomo era arrivato a terra già morto.
Alle
spalle del capitano, Hofmann considerò: “Non se n’è nemmeno accorto.”
Questi
annuì grave. “Che cosa le suggerisce?” chiese poi.
La
risposta fu immediata: “Cecchini.”
I
due si scambiarono uno sguardo, poi Schultz ordinò: “Fumogeni.”
Un
paio di soldati si sfilarono dal cinturone delle granate a manico
contrassegnate da una striscia bianca, le decapsularono e le lanciarono
al
centro della piazza. I due ordigni esplosero con un rumore sordo e
cominciarono
a fumigare, creando in breve una fitta nebbia.
Ci
furono un nuovo sibilo e uno schianto, l’angolo di un palazzo andò in
frantumi,
pezzi di intonaco e mattoni rotolarono fino ai loro piedi.
Il
capitano si voltò verso il sergente e disse: “Questi hanno già fatto
abbastanza
danni, per i miei gusti. Andiamo.”
Senza
attendere risposta si inoltrò risolutamente attraverso la densa
cortina.
Le
sagome scure di due edifici gli si pararono davanti, separate da quello
che
sembrava essere un vicolo angusto. Egli vi si diresse, ansioso di
sottrarre sé
e la squadra ai fucili dei tiratori scelti. Si appiattì contro un muro
e attese
che gli uomini lo raggiungessero.
Corrugò
la fronte infastidito dal caldo torrido che rendeva l'aria ancora più
irrespirabile.
Il
caldo di metà luglio rende le strade di Altona soffocanti. Il selciato
è
rovente, l’aria è immobile e gravata dell’odore salmastro dei canali. È
domenica, ma in giro non c’è nessuno. Sui marciapiedi ci sono solo due
lunghe
file di poliziotti silenziosi. Cominciano a farsi sentire clamori cupi,
che si
fanno via via più forti. Si odono grida, spezzoni di canti e
l’incalzante
calpestare di molti piedi.
Hermann
Schultz, ventiduenne Scharführer delle SA, punta sul fondo della via lo
sguardo
chiaro e acuto. “Occhi aperti, camerati,” raccomanda a coloro che gli
stanno
intorno. Si gira fugacemente verso il suo uomo migliore, Franz Wolff,
che
sorregge il labaro della Sezione. Nello stesso momento, anche lui si
volta a incontrare
il suo sguardo e si scambiano un fugace sorriso.
Un
istante dopo si scatena l’inferno: un ordigno esplode davanti al gruppo
di SA
in marcia, i comunisti dilagano nella strada, si ode qualche
detonazione, il
crepitare delle fiamme. Una macchina viene rovesciata, vetrine vanno in
frantumi, il fumo denso degli incendi si diffonde ovunque, facendo
lacrimare
gli occhi e tossire. Volano manganellate e pugni.
Un
comunista si avventa sulla bandiera, Wolff si fa indietro, lo allontana
con una
gomitata, ma altri due lo incalzano. Schultz accorre, prende per le
spalle il
più vicino di coloro che si assiepano intorno al labaro, lo strappa via
e lo
manda a rotolare sul selciato, allontana il successivo con un pugno, e
poi gli
altri, in una mischia sanguinosa fatta di urla e colpi, una calca
frenetica
nella quale riesce a distinguere i suoi solo dal colore dell’uniforme.
E
poi, d’un tratto, echeggia un colpo di pistola. È vicinissimo, quasi
gli fa
fischiare l’orecchio.
Il
labaro trema, si accascia lento come un abete tagliato. I comunisti, un
attimo
prima così ansiosi di conquistarlo, ora si fanno indietro con l’aria di
non
volerci avere più nulla a che fare. Si ode il clangore sordo di una
pistola che
rimbalza sul selciato, Schultz coglie le spalle magre di un uomo che si
allontana rapido.
È
quello che ha gettato l'arma, e forse con uno scatto potrebbe ancora
prenderlo,
ma un lamento lo trattiene: Franz Wolff è a terra, il petto coperto di
sangue,
un rivolo rosso che dall’angolo della bocca gli scorre lungo il mento.
Gli
occhi socchiusi sono lucidi di dolore, il volto sta assumendo un
pallore
mortale.
Dimentico
di qualsiasi cosa, Schultz si butta in ginocchio accanto a lui.
“Franzl!”
esclama angosciato. Pone una mano sulla ferita, da cui il sangue sgorga
a
fiotti. Prende quello che ha, il fazzoletto, un lembo della propria
camicia
bruna, nel vano tentativo di arrestare l’emorragia. “Franzl,” ripete.
Deglutisce, cercando di mantenere ferma la voce. “Franzl, starai bene,
non
preoccuparti.”
Gli
passa il braccio libero dietro le spalle, lo stringe a sé. “Starai
bene,”
ripete. Alza lo sguardo su un gendarme. “Qualcuno chiami un dottore!”
invoca,
ma l’uomo non si muove. “Un dottore!” ripete allora Schultz a voce più
alta,
poi si fa udire un gemito dell’amico. Egli si china su di lui.
“Franzl,” dice
piano. Cerca di premere più forte la medicazione di fortuna, ma il
sangue gli
scorre fra le dita come acqua.
“Hermann...” mormora
l’altro con
voce flebile. “La bandiera… è salva?”
Schultz
getta uno sguardo sul labaro, che giace ancora dov’è caduto, come se
nessuno
osasse avvicinarglisi. “È salva,” conferma.
“Custodiscila tu.”
“Tu la custodirai,
Franzl,” risponde
Schultz, stringendosi l’amico al petto, “non voglio nessun altro a
portare il
labaro della mia squadra. Tu guarirai e...” Deve interrompersi: il
respiro
stentato del camerata Wolff ha lasciato il posto a un gran silenzio.
Egli
alza di nuovo la testa e tutt’intorno vede solo volti dall’espressione
grave.
Le SA salutano a braccio teso. Chi tra i comunisti ha il cappello se lo
toglie
con gesto solenne.
Una
detonazione particolarmente vicina riportò il capitano alla realtà
contingente.
Volse lo sguardo al fondo del vicolo e vide al di là un edificio che
svettava
sugli altri. Fece qualche passo in quella direzione, cercando di
raggiungere un
punto di osservazione migliore: era un via di mezzo fra un campanile e
una
torre, dal pennone che si trovava sulla sua sommità pendeva un
brandello rosso
che avrebbe potuto appartenere sia alla bandiera del Reich che a quella
sovietica. Tirò fuori la mappa e seguì col dito la strada che avevano
percorso
fino a quel momento, poi disse: “Ragazzi, quella è la torre del
municipio. È al
limite della linea del fronte, per cui non sappiamo se quando ci
saliremo sopra
troveremo ad aspettarci i nostri o i rossi.” Stava ancora parlando
quando si
udì un ululato cupo. Subito dopo un'esplosione mandò in frantumi la
facciata di
un edificio che si trovava dall'altra parte della piazza su cui sorgeva
il
municipio.
“Questo non era
il solito mortaio,” disse uno dei
soldati.
“Artiglieria
pesante,” confermò Schultz. Un secondo
ululato, poi il colpo impattò e l'esplosione sollevò una fontana di
terra e
detriti dal selciato. “E sta aggiustando il tiro.” Si voltò verso la
squadra e
soggiunse: “Non abbiamo molto tempo, prima che il nostro punto di
osservazione
finisca in briciole. Hofmann, mi copra le spalle.”
“Ma signore...”
cominciò il sergente. Il tono era di
nuovo costernato.
Schultz
fece un breve sorriso e disse. “Io combattevo per le strade quando lei
andava ancora
in giro con i calzoni corti, Hofmann. Stia qui a tenere a bada i russi
mentre
io vado a dare un'occhiata.”
“Sissignore,”
rispose il sergente.
Il
capitano si limitò ad annuire, quindi si accertò che l'MP40 fosse
carico e si
gettò di corsa attraverso lo spiazzo. Appena dietro di lui, una raffica
di
mitragliatrice pesante fece schizzare dall'impiantito schegge di
pietra, ma un
istante dopo udì un rimbalzo metallico e un paio di secondi dopo il
tipico
scoppio di una granata tedesca. La mitragliatrice tacque.
Schultz
raggiunse l'edificio, si appiattì contro un muro. Di nuovo si udì un
ululato
profondo, lugubre, che sembrava un cupo lamento d'animale.
Istintivamente il
capitano ritirò la testa fra le spalle e un attimo dopo il proiettile
esplose
contro un edificio, facendone crollare i piani più alti. Travi, mattoni
e
calcinacci rotolarono al suolo con un fragore da fine del mondo, si
sollevò una
nube di polvere acre, che gli bruciò la gola e gli fece lacrimare gli
occhi.
L'ufficiale
si spostò lungo il muro fino a che non raggiunse una breccia. Azzardò
una cauta
occhiata all'interno, ma vide solo macerie e qualche mobile sfondato.
In un
angolo c’era una scala di legno che portava verso l’alto.
Entrò
cauto, ragionando fra sé e sé che i russi dovevano in ogni caso averlo
abbandonato, dal momento che si trovava sotto il tiro della loro
artiglieria
pesante.
Come
se l'avesse evocato con quel pensiero, un istante dopo giunse ululando
un altro
obice, che esplose contro un fianco del municipio, scuotendolo fino
alle fondamenta.
Dal soffitto piovve una grandinata di calcinacci, tutta la struttura
scricchiolò e gemette.
“Merda,”
imprecò fra i denti il capitano, quindi corse
verso le scale, augurandosi che fossero ancora abbastanza solide da
reggere il
suo peso.
Un
altro ululato, un altro colpo che fece vibrare ogni muro del vecchio
palazzo.
Sulle pareti comparvero crepe larghe un dito, intere porzioni
d’intonaco si
staccarono e si frantumarono al suolo.
Il
primo piano era disseminato di quel che rimaneva dei mobili, qua e là
c’erano
cadaveri di russi e tedeschi, segno che si era combattuto per il
possesso di
quella torre.
Schultz
valutò che i russi probabilmente avevano preferito distruggerla,
piuttosto che
rischiare di lasciare ai tedeschi un punto d’osservazione così
importante.
Proseguì
la sua salita con tutta la velocità che le gambe gli consentivano,
facendo i
gradini quattro per volta. Individuò una porticina che pendeva
miseramente dai
cardini, e dietro di essa la scala a chiocciola che portava alla torre.
Vi si
infilò rapido e riprese a salire più veloce che poteva. Nel frattempo
stava
arrivando l’ululato di un nuovo obice, che in quello spazio angusto si
riverberava in migliaia di echi, coprendo addirittura il rumore pesante
delle
sue suole chiodate sui vecchi gradini di legno.
Di
nuovo l’edificio tremò sotto il colpo, le travi secolari gemettero, i
muri si
fessurarono come sotto l’effetto di un colpo di maglio. Qualche gradino
si
staccò e precipitò in un abisso buio, del quale il capitano non riuscì
a
individuare il fondo.
Finalmente
giunse alla terrazza panoramica. Non perse tempo a guardarsi intorno,
sfilò dal
tascapane il binocolo e individuò nel cielo caliginoso la traiettoria
arcuata
dei colpi di mortaio. La seguì con lo strumento e vide che i pezzi
erano disposti
in uno spiazzo erboso che aveva l'aria di essere un campo sportivo.
Oltre
quelli vi erano camion e uomini, segno che i russi stavano organizzando
una
controffensiva per riprendere possesso del centro abitato.
Tramite
il telemetro stabilì la distanza dei pezzi d’artiglieria, segnò la
posizione di
ciò che stava vedendo sulla mappa, poi si girò per tornare dabbasso. In
quel
momento giunse il cupo lamento di un obice in arrivo.
Schultz
si lanciò giù per le scale con tutta la velocità che le gambe gli
consentivano,
il proiettile si schiantò dove lui si era trovato solo pochi secondi
prima,
esplodendo con un lacerante boato.
In
copertura con i suoi uomini, Hofmann teneva d'occhio con crescente
apprensione
ogni obice in arrivo.
Un
proiettile si schiantò sul fianco del municipio, facendo crollare
un'intera
parete. La torre oscillò visibilmente, mentre polvere e calcinacci
cadevano
come se una mano enorme la stesse sbriciolando.
“Stanno
aggiustando il tiro,” disse uno dei soldati. Un
altro replicò: “Il prossimo la becca in pieno.”
Come
se quelle parole l'avessero evocato, un obice si abbatté sulla sommità
della
torre, proiettando ovunque frammenti di legno e pietra.
Una
trave che conservava ancora qualche residuo di decorazioni fiorate
arrivò
rimbalzando fino a loro, poi calò un silenzio sinistro, rotto solo dal
cupo
sottofondo di raffiche e detonazioni lontane della battaglia urbana.
Sergente
e soldati si scambiarono un muto sguardo.
In
quel momento si udì un urlo: “Hofmann!”
“È il
capitano,” disse uno degli uomini, scattando in
piedi e addossandosi a un muro per mantenere la copertura.
“Hofmann, si
muova!” La voce, poderosa, aveva una
decisa connotazione di urgenza.
“Andiamo!”
esclamò il sergente, quindi scattò di corsa
verso il rudere dell'edificio. Entrarono in quel che rimaneva
dell'atrio e
rimasero senza parole: tutto ciò che si trovava nella tromba delle
scale era
crollato. Rimaneva solo una mezza rampa penzolante, ad almeno cinque
metri
d'altezza, che ondeggiava emettendo sinistri scricchiolii. A quella
precaria
struttura era aggrappato il capitano Schultz.
“Ma signore!”
esclamò costernato il sergente.
“Hofmann, si
muova,” ripeté l'ufficiale per tutta
risposta.
L'altro
si guardò intorno come alla ricerca di ispirazione, ma nulla di ciò che
giaceva
disseminato sul pavimento poteva servire ad aiutare il capitano. Alzò
lo
sguardo a osservarlo, un altro obice cadde poco lontano, facendo
fremere tutta
la struttura. Sotto il suo sguardo inorridito, Schultz perse la presa.
Senza
pensarci un attimo, Hofmann si lanciò in avanti.
Spolverandosi
distrattamente la giubba, il capitano chiese: “Tutto bene, Hofmann?”
Il
sergente si rialzò e si massaggiò la schiena, quindi rispose: “Con il
dovuto
rispetto, signore: per caso è fatto di ferro?”
“No, ma ho una
certa dimestichezza col materiale: da
civile ero addetto agli altoforni in un'acciaieria.” Si diede qualche
altra
pacca su spalle e braccia, sollevando nuvolette bianche, quindi disse:
“La devo
ringraziare, sergente. Senza di lei mi sarei sicuramente rotto qualche
osso.”
“Dovere,
signore,” rispose Hofmann. Alzò la testa, tese
l'orecchio e aggrottò fugacemente le sopracciglia, quindi disse: “Però
ora sarà
meglio che andiamo, signore.”
Schultz
tese l'orecchio a sua volta: stava arrivando qualcosa di grosso.
L'ululato che
emetteva, basso e possente, faceva sembrare flebili pigolii tutti
quelli che
l'avevano preceduto. “Fuori tutti!” urlò, e si lanciò di corsa
all'esterno. Gli
altri lo seguirono senza indugio e la squadra attraversò rapida lo
spiazzo
disseminato di detriti.
Un
istante dopo, si udì una detonazione immane, e qualcosa come un
gigantesco
geyser di fiamme scaturì dal punto in cui un attimo prima sorgevano le
rovine
del municipio. Lo spostamento d'aria fu così violento che i tedeschi
finirono a
terra dal primo all'ultimo, la vampa rovente che promanò dal mostruoso
cratere
diede loro l'impressione di essere investiti da lingue di fuoco.
“Via!” urlò
Schultz con le orecchie che gli fischiavano
e la vista annebbiata. “Via di qui!”
Si
infilarono nel vicolo dal quale erano passati poco prima, lo percorsero
mentre
un secondo lacerante ululato li incalzava.
Il
proiettile si abbatté qualche decina di metri dietro di loro, l'ala di
un
palazzo crollò con un rombo cupo, lo stretto passaggio fu invaso da una
polvere
acre, che toglieva ogni visibilità e faceva bruciare occhi e gola.
Nonostante
questo, il capitano allargò le braccia per impedire agli uomini di
sopravanzarlo e tutti si fermarono un attimo prima di sbucare nella
piazza.
Oltre lo spazio lastricato si vedeva già l'edificio che accoglieva
l'ormai
completa compagnia. Naturalmente dall'esterno appariva vuoto, Weber non
era
così stupido da non tenere gli uomini in copertura.
Un
colpo di mortaio passò fischiando, la detonazione parve poco più di un
petardo
da fiera, paragonata ai grossi calibri che stavano imperversando nella
zona che
avevano appena lasciato, tuttavia fece crollare un muro, che si abbatté
in una
nuova nuvola di polvere.
Un
istante dopo, si udirono una detonazione secca e un lamento.
“Reiner!” urlò
una voce angosciata.
Schultz
si voltò in quella direzione: un soldato era a terra supino, un altro
era chino
su di lui e gli stava sbottonando la giubba già intrisa di sangue.
Si
avvicinò, si chinò sua volta e aggrottò
le sopracciglia quando vide di cosa si trattava. “Tutti indietro!”
abbaiò senza
nemmeno alzare la testa. “Hofmann, mantenga la copertura, li faccia
stare
lontano dai buchi nel muro, se no i cecchini li abbattono come delle
anatre!”
Tornò
a dedicare la propria attenzione al soldato: un colpo di fucile l'aveva
passato
da parte a parte; il foro d'entrata sulla schiena aveva il diametro di
un dito,
ma quello d'uscita sul petto era un cratere largo come un pugno, rosso
e
gorgogliante, dal quale spuntavano schegge d'osso.
“Non muoverti,”
gli ingiunse rapido, “ora ti sistemiamo
un po' e poi te ne vai a fare una bella vacanza nelle retrovie.” Gli
diede un
leggero buffetto sulla guancia, poi, a voce più alta disse: “Serve
qualcosa di
impermeabile.” Si guardò intorno come alla ricerca di ispirazione,
quindi
chiese: “Qualcuno di voi ha dietro del grasso per armi?”
Ci
fu qualche secondo di perplessità, poi uno dei soldati gli tese una
scatoletta.
Egli la prese, la aprì e rapidamente spalmò la sostanza sulle bende.
“Non deve
passare aria,” spiegò applicandole poi sul torace del ferito, “oppure
morirà
soffocato. Ora datemi un altro pacchetto di medicazione.”
Ne
aggiunse altri tre prima che la fasciatura lo soddisfacesse. Quando
ebbe
finito, si prese un attimo per guardare in faccia il soldato, che nel
frattempo
aveva perso i sensi: Reiner Fuchs, diciottenne, arrivato alla compagnia
da poco
più di sei mesi. Alzò lo sguardo e incontrò quello carico di
preoccupazione del
soldato Kammerer, che nel plotone era il più grande amico di Fuchs. “Se
la
caverà,” gli disse.
Questi
fissò il camerata e al centro della fronte gli comparve una ruga
verticale.
“Se la caverà,”
ripeté Schultz. “Non preoccuparti. È un
bene che sia incosciente.”
Il
più giovane lo fissò speranzoso. “Davvero?”
“Almeno non
sentirà dolore per un po'.”
Il
soldato deglutì. Dopo qualche secondo, senza staccare gli occhi dal
camerata,
osò chiedere: “Sentirà molto male, signor capitano?”
“Gli daranno la
morfina,” si limitò a rispondere
Schultz.
“Ma poi starà
bene, signore?”
Il
capitano alzò le spalle. “Meglio di te e di me, soldato, ma ora aiutami
a
sollevarlo. Dobbiamo raggiungere la compagnia prima possibile.”
Una
volta che il soldato Fuchs, semicosciente e ancora sanguinante
nonostante la
medicazione, si trovò tra lui e il soldato Kammerer, Schultz scrutò
critico lo
spiazzo che avrebbero dovuto attraversare. “Hofmann,” chiamò.
Subito
il sergente lo raggiunse. “Signor capitano?”
“Sergente,
abbiamo bisogno di qualcuno che vada laggiù
e avvisi il tenente Weber di scaricare l’inferno su questi palazzi
infestati di
cecchini.”
Il
sottufficiale fece un sorrisetto. “Sono l’unico che può andare, signor
capitano.” Gli rivolse uno sguardo che aveva un vago brillio di
impertinenza.
“Lei è impegnato.”
Schultz
finse un’espressione contrariata in quello che alla fine era una specie
di gioco
fra di loro. In tono ostentatamente severo rispose: “Per questa volta
passi,
Hofmann.” Poi, a voce più alta: “Servono dei fumogeni.”
Un
paio di soldati tirarono fuori granate con la striscia bianca, le
decapsularono
e le lanciarono nella piazza.
La
nebbia cominciò ad addensarsi.
Hofmann
si allontanò di corsa, si udì dapprima un colpo isolato, poi altri due
in
rapida successione. Poi seguì un silenzio che parve durare
all’infinito, tanto
che Schultz, con il soldato ferito ancora addosso, si pose il problema
di come
fare a recuperare anche il sergente Hofmann, sicuramente a sua volta
riverso
sul selciato, colpito da qualche cecchino russo.
Poi
dal fondo dello spiazzo echeggiò un selvaggio grido di vittoria, che a
Schultz
ricordò quelli che dovevano aver lanciato gli uomini di Frundsberg
trovandosi
finalmente di fronte le porte di Roma spalancate.
“Direi che ce
l’ha fatta,” considerò.
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