Il numero di una statistica

di Puffardella
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CAPITOLO 1



Non ricordo chi fu a passarmela, né in quanti eravamo quel giorno. Non ricordo se fosse estate o inverno. Autunno, credo, perché in quel periodo vivevo ancora al nord e quel giorno indossavo la mia mitica giacca mimetica di cotone, troppo leggera per l’inverno. Me lo ricordo perché dopo ci vomitai sopra e mia madre s’incazzò di brutto. Ricordo l’età, avevo tredici anni. E ricordo il posto, il parco dell’oratorio dietro casa. Qualcuno me la passò ed io me ne riempii i polmoni. Dissi: «Che cagata, è tutto qui?»
Arrivò subito dopo, la botta, la sensazione calda e rassicurante di essere in pace con il mondo. Iniziai ad avere una percezione amplificata delle cose che mi stavano intorno e sentii il cervello espandersi, lavorare a pieno regime. Bramai fare subito un altro giro, e poi un altro, e un altro ancora. Alla fine della serata mi ero fumato da solo due marie.
Prima di allora non avevo mai toccato nemmeno una sigaretta. Forse per quello bastò un tiro, uno solo, per riuscire a farmi un trip, un trip con una cazzo di tirata di spinello. O forse fu perché avevamo bevuto parecchio quel pomeriggio mentre giocavamo a calcio, io e i miei amici, io e Saverio: due tiri al pallone, un sorso di vodka, altri due tiri in porta, altro giro di vodka. Alla fine della partita potevamo contare più bottiglie vuote sul ciglio del campo sportivo dell’oratorio che gol. E forse fu a causa di quel cocktail che, dopo la mia ultima tirata, mi vomitai addosso.
Sono giorni che ci penso. Ci pensavo già da un po’, da prima che Vanessa bussasse alla mia porta, bagnata e sconvolta. Ci pensavo da prima della morte di Saverio, da prima che fosse seppellito nel cimitero di Cadelbosco. Forse ho iniziato a pensarci dal giorno in cui Vanessa venne a darmi la notizia che si sposava, che si sposava con Saverio. Sì, è da quel giorno che ho iniziato a pensare al preciso istante in cui ho mandato a puttane la mia vita.
La prima canna fu solo l’inizio di una lunga serie di sperimentazioni tossicologiche più o meno lecite, di sicuro devastanti, che hanno fatto di me la persona che sono diventato: un uomo solo, vuoto, infelice. Il giorno in cui ho saputo che la donna che amavo sarebbe diventata la donna di un altro, del mio migliore amico, è stato il giorno in cui ho preso determinazione di dare una svolta alla mia esistenza, di smettere di cazzeggiare.
È da un po’ quindi che mi chiedo cosa ne sarebbe stato delle nostre vite se io fossi stato un uomo migliore. Forse Vanessa avrebbe sposato me, e forse Saverio sarebbe ancora in vita.
Ma con i forse e con i se non si fa la storia.
Non tocco più droghe da oltre quattro anni, niente, nemmeno uno spinello, e anche se la mia salute, fisica e psichica, ne ha sicuramente beneficiato, le cose a cui tenevo di più, quelle le ho comunque perse.
No, non le cose: le persone.
E mentre sono qui che guardo Vanessa dormire sul divano del mio soggiorno mi chiedo che sarà ora di noi, se potrò in qualche modo pagare i miei debiti, chiudere definitivamente i conti con il passato, se sarò in grado di farmi perdonare.
È venuta a chiedermi aiuto Vanessa, stanotte. Ha bussato alla mia porta con insistenza, con rabbia. Non immaginavo fosse lei, non me lo aspettavo di sicuro. Ho aperto la porta e mi sono subito preso uno sganassone. Forte, violento, inaspettato. Ne ho presi tanti di schiaffoni, in vita mia. Di pugni poi un’infinità. Di quelli ne ho ricevuti e ne ho dati, ma per la miseria come fanno male gli schiaffi di una donna incazzata. I suoi me li ricordo tutti.
Il primo ceffone mi ha colto alla sprovvista, e anche il secondo. Il terzo l’ho bloccato a metà strada. Le ho afferrato il polso, e poi anche l’altro. Vanessa ha continuato a gridarmi contro istericamente, a chiedermi dove fossi finito, e perché non ero presente al funerale di suo marito, il mio amico, quello che amavo definire un fratello. Mi ha chiesto perché in due anni non mi fossi mai fatto vivo, perché non mi fossi mai interessato di sapere come stava, se avesse avuto o meno bisogno di qualcosa. Ha continuato a dimenarsi e a urlare, fra le lacrime. Io l’ho bloccata con le braccia, l’ho stretta forte; l’ho fatta piangere prima sul mio braccio, e poi sul mio petto. Ho aspettato che si calmasse e poi le ho chiesto di Nicolas, suo figlio, il mio figlioccio. Nicolas, a cui hanno dato il mio nome. Nicolas, la botta finale, la più dolorosa ma anche la più determinante per la mia lotta contro la dipendenza dalle droghe.
Nicolas ha quattro anni. Ho smesso di farmi poco prima che nascesse. Saverio voleva che gli facessi da padrino, Vanessa disse che lo avrebbe consentito solo se mi fossi dimostrato davvero degno, ed io volevo esserlo con tutto me stesso. Avrei voluto esserlo per lei prima di tutto, ma lei era una spiaggia troppo lontana, una fermata persa, ormai. Non sarei arrivato tardi anche per quel treno. Così è stato, gettai tutto nella tazza del cesso, e amen.
Ho dovuto ripeterglielo due volte mentre continuavo a stringerla, il mio naso fra i suoi capelli bagnati, le mie labbra sul suo orecchio: «Dov’è Nicolas, Vanni?»
Nicolas era in macchina che dormiva. Ho afferrato l’ombrello e sono andato a prenderlo. Non si è svegliato, non un lamento. L’ho adagiato sul mio letto, quello nella camera degli ospiti non ha le lenzuola. Gli ho tolto le scarpette, l’ho coperto, lui ha sospirato appena, si è girato sul fianco e ha continuato a dormire.
Non so quanto tempo io sia rimasto sulla soglia a osservarlo, a sentirlo respirare. Nicolas, Saverio in miniatura, biondo come il padre, bello come la madre. È cresciuto tantissimo in questi due anni. Quando sono tornato in soggiorno, Vanessa si era già addormentata sul divano. Ho preso un plaid dall’armadio e ho coperto anche lei.
Non fa freddo stanotte. Siamo in aprile, la gente ha già iniziato ad affollare le spiagge grazie alle temperature quasi estive, ma c’è stato un violento temporale poco fa, e non è riuscito a scaricare del tutto l’umidità presente nell’aria. Mentre coprivo Vanessa, lo ammetto, ho sentito il bisogno di qualcosa che mi aiutasse a calmare le emozioni, ed è una fortuna che io non tenga alcolici in casa, perché non lo so se sarei riuscito a resistere al forte impulso di farne uso.
Trovarmela di fronte è stato devastante. Sembrava una tigre, bella e fiera, come sempre. Si è addormentata prima che io potessi spiegarle, ma so già che dovremo affrontare il discorso, prima o poi. Sono tante le cose di cui mi devo giustificare, e ringrazio il cielo che sia crollata dal sonno, perché in questo momento non avrei la forza di farlo.
Oggi è così, domani si vedrà.

                                                        ***         
È stata la fragranza del caffè a svegliarmi, stamattina. Dolce, intensa, invitante. Vanessa ha già fatto la doccia e traffica nella mia cucina con indosso una mia maglietta. Ha indosso solo quella. Dio, che effetto mi fa…
Nicolas è seduto al tavolo e parla con la madre davanti a una tazza di latte. Per fortuna quello non manca mai, in casa mia. Pasta, pomodoro, parmigiano, caffè, zucchero, casse di acqua minerale e latte. Tutto il resto è superfluo.
Ha una parlantina spigliata, una dizione impeccabile per un bambino della sua età. Dondola con vivacità i piedi sotto la sedia, e mangia e ride contemporaneamente. Come Saverio. Mi godo questo momento un istante, prima di far notare la mia presenza. Nicolas tace e si volta, entrambi mi fissano.
«Buongiorno» rompo il ghiaccio io. Mi chiedo se sia possibile che il piccolo abbia qualche ricordo di me. Dal suo volto corrucciato e dal modo ostile in cui mi fissa direi di no.
«Buongiorno. Mi sono permessa di preparare la colazione…»
Vanessa sembra aver perso tutta la sua aggressività, con il risveglio.
Le sorrido. «Hai fatto bene» la rassicuro.
Mi siedo vicino al mio omonimo e gli spettino i capelli, ma non sono sicuro che abbia apprezzato.
«Come stai, campione?»
«Bene…»
«Il latte è ancora caldo, ne vuoi?» mi chiede Vanessa con un certo imbarazzo.
«Non ti disturbare, ci penso da me.»
«Nessun disturbo… E so già come ti piace: poco caffè e tanto zucchero. E tiepido, quasi freddo» ripassa la lezione, una lezione che conosce bene. Da quanto la conosco, Vanessa? Una vita. Ne abbiamo fatte di colazioni insieme…
Mentre versa il latte macchiato nella tazza, torno all’attacco con il piccolo Nicolas. «Allora, campione, lo sai chi sono io?»
Continua a fissarmi con quegli occhi enormi, espressivi, azzurri come quelli del padre. Ha smesso di agitare le gambe sotto la sedia. Tiene il cucchiaio in alto, in attesa di potersi dedicare nuovamente ai cereali nella tazza.
«Sei lo zio Nicolas.»
«Quindi, ti ricordi di me?»
Scuote la testa così forte che i lunghi capelli biondi gli frustano le guance paffute. «No, me lo ha detto la mamma come ti chiami.»
«Ah…» Lancio un’occhiata a Vanessa, che se la ride con la mia tazza di latte in mano. «E ti ha detto anche perché ti chiami come me?»
«Perché sei il migliore amico della mamma e del papà.»
Non sono tornato a guardare Vanessa, ma che abbia smesso di sorridere è ineluttabile, chiaro come questo giorno di sole. E ne comprendo il motivo.
«E lo sai che ti ho battezzato io?»
Il piccolo ci pensa un po’ su, poi annuisce.
«Allora siamo amici, giusto?»
Annuisce di nuovo, e ho l’impressione che per oggi mi dovrò accontentare. Forse anche per i prossimi dieci anni. Non credo che riuscirò ad ottenere manifestazioni di simpatia più forti di un cenno del capo e poche sillabe, nell’immediato. Sarà meglio rispettare i suoi tempi, senza forzature.
Vanessa mi porge la tazza e si siede al mio fianco. Com’è possibile che sia ancora così bella? Mi guarda ora con lo stesso cipiglio scontroso di quando la rividi dopo un sacco di tempo davanti al liceo scientifico Giovanelli, a Roma.
All’epoca aveva quattordici anni, e io diciassette. Mi ero trasferito da poco nella capitale, stanco di vivere con mia madre a Cadelbosco, ed ero al terzo anno di superiori. Quello era il primo che frequentavo in quel liceo, ma bazzicavo quel quartiere da una vita. Andavo regolarmente a stare da mio padre durante le vacanze estive e le festività, spesso nei fine settimana, perciò conoscevo già un gran mucchio di ragazzi. Io conoscevo loro, loro conoscevano me. Avevano chiaro in mente chi fossi e mi rispettavano. Inizialmente grazie alla notorietà di mio padre; in seguito, a quella che mi guadagnai a suon di risse e cazzate varie.
L’ingresso dell’istituto era gremito di ragazzi, in attesa che aprissero il portone. Ero già alla mia seconda canna e mi sganasciavo dalle risate con un gruppetto di amici. Avevamo preso di mira una ragazza di seconda, grassa e con l’apparecchio ai denti. Marina Congi, si chiamava. Si chiama ancora così, voglio sperare...
È venuta a trovarmi al locale due anni fa, appena aperto. Aveva saputo della mia nuova attività grazie a un giro di voci fra ex compagni di liceo. Ero dietro il bancone del bar a preparare cocktails perché, sebbene la discoteca sia mia, mi piace atteggiarmi a barman. Io non l’avevo riconosciuta, e come avrei potuto? Senza la ciccia e l’apparecchio: una strafiga, cazzo. Lei, invece, non si è fatta ingannare dalla mia recita. Non sono molto cambiato, in tanti anni. Soprattutto la stazza è rimasta pressoché la stessa.  A diciassette anni ero già alto un metro e ottantasei. Oggi sfioro il metro e novanta. Comunque, questa sconosciuta mi è venuta vicino e mi ha ringraziato. E quando le ho chiesto il perché, mi ha risposto che le avevo fatto perdere venti chili grazie agli insulti e alle lacrime che le avevo fatto versare durante il liceo. Io avrei detto “a causa di”, ma lei ha proprio detto “grazie a”, con tanto di virgolette figurative. Poi mi ha chiesto se avevo un po’ di neve da darle. Le ho detto che avevo chiuso con quella roba e che nel mio locale non permettevo che se ne facesse uso. Non penso mi abbai creduto, ma non ha insistito. A metà nottata mi ha chiesto di accompagnarla fuori. Voleva mostrarmi la sua riconoscenza per averle donato una nuova vita in un nuovo corpo. Voleva farlo in maniera concreta. Lo ha fatto sul cofano della sua auto, due volte. Ma ai tempi del liceo non mi sarebbe venuto duro nemmeno dopo uno striscio.
Io e i miei compagni ci stavamo andando giù pesante con gli sfottò, quindi, e più quella piangeva più noi caricavamo. Vanessa mi venne davanti con una sfrontatezza felina. Aveva delle piccole efelidi sulla fronte, ma su di lei anche i difetti diventavano pregi. Carnagione chiara e occhi verdi. E capelli mossi, lunghi, castani-ramati. Riesco ancora a ricordare il profumo dello shampoo che emanavano: mela verde. Mi guardò con disprezzo e mi disse: «Ci sei venuto dal nord a fare lo stronzo?»
La riconobbi solo grazie al fatto che era a conoscenza che provenivo dal settentrione.
«Vanessa Bonanni… Ma che sorpresa! Cazzo come ti sono cresciute le tette. Quanti anni hai, adesso?»
«Più di quanti ne dimostri tu, con quel cervello in pappa che ti ritrovi a furia di fumarti quella schifezza.»
«Anche io sono felice di rivederti. Vivi sempre nella villa di fianco a quella di mio padre?»
«Sì, perché?»
Schioccai la lingua e assunsi un’espressione dispiaciuta. «Peccato che sei ancora troppo piccola, per me. Ma fra qualche annetto, chissà...»
«E cosa ti fa pensare che mi abbasserei a stare con uno come te?»
Puntai le sue amiche che erano rimaste dietro di lei. Mandavano chiari segnali di ormoni in fibrillazione, con tutte quelle risatine che facevano e quelle occhiatine maliziose che lanciavano.
«Le tue amiche si abbasserebbero volentieri. In tutti i sensi» dissi, suscitando l’ilarità dei presenti.
«Bè, io non sono le mie amiche e non mi abbasserei a stare con te nemmeno se fossi l’ultimo idiota rimasto sulla terra!»
Facevo lo sbruffone, me ne rendo conto solo ora. Mi sentivo onnipotente, il figlio privilegiato di una casta privilegiata. E non parlo solo di posizione economica. Mia madre è un architetto affermato; mio padre, prima di morire, gestiva una discoteca, due ristoranti e una piscina, a Roma. I soldi non mi sono mai mancati, ma c’è una cosa a cui i ragazzi molto giovani danno più peso che al denaro, ed è l’aspetto fisico. Ed io ero un ragazzo molto corteggiato, bello e sfrontato. Non me la tiro, è così, punto. Piacevo, e ne ero consapevole. Anche oggi so di essere un uomo attraente ma maturando certe cose perdono di valore, si ridimensionano. Oggi preferisco essere apprezzato per ben altre qualità piuttosto che per il mio aspetto fisico. Ma a diciassette anni, più sei fico e più sei amato, invidiato, desiderato, rispettato. Niente conta di più a quell’età, e credevo di essere talmente irresistibile che nessuna, nemmeno lei, avrebbe avuto il coraggio di ignorarmi solo per una questione di orgoglio.
«E perché no?» le chiesi sogghignando.
Il modo in cui mi guardò allora, non l’ho mai scordato. Lo fece con ribrezzo.
«Guardati! Fai pena, Nicolas Costantini. Fumare questa porcheria alle otto di mattina!» disse, ed ebbe l’ardire di strapparmi dalle mani lo spinello e di gettarlo in un tombino.
Tutti fischiarono e la coprirono di insulti. Io, invece, la amai da quel giorno per quel gesto. Lei si voltò e raggiunse le sue amiche ancheggiando. Non per vanità, ma perché camminava a passo spedito, tanto era incazzata. Mi curvai di lato per osservarle il fondoschiena, ancora acerbo e già piuttosto promettente. Lei si passò una mano fra i capelli con un gesto brusco e si recò a confortare la povera ex miss cicciona Marina Congi. Continuai a fissarla tutto il tempo, fino a quando non aprirono il portone ed ebbe inizio la solita ressa, che è sempre la stessa, in tutte le scuole d’Italia. Vanessa mi passò di fianco, mi sfidò con gli occhi, io le lanciai un bacio e lei si lasciò trasportare dalla fiumana di studenti, scuotendo il capo indignata. Amai il suo coraggio e il suo temperamento passionale da subito, tanto che dissi a tutti: «Quella ragazza da oggi appartiene a me soltanto. E fatelo sapere in giro.»
Sono passati quattordici anni e stamani, negli occhi di Vanessa, leggo lo stesso sdegno di allora.

                                                        ***

Abbiamo fatto colazione e siamo scesi in spiaggia. Alla morte di mio padre ho ereditato un bel po’ di grana, locali a parte. Quelli li ho venduti. Con i soldi ereditati ho acquistato una casa in una delle isole dell’arcipelago toscano. In mezzo, fra il Lazio e l’Emilia Romagna. Ho cercato un punto d’incontro fra le mie due terre, un compromesso per sentirmi in qualche modo più vicino a casa, fallendo. In nessun luogo riesco più a sentirmi a casa, ormai. Ma la villa è uno spettacolo. La casa è stata fabbricata su una collina che sovrasta il mare. Dal soggiorno ho accesso alla terrazza in sassi che si affaccia sul Tirreno.
Passo più tempo in questa porzione di casa che in tutte le altre stanze. È diventato il mio rifugio, quando il tempo lo consente. Da qui, grazie a una scalinata a gradoni in pietra, si scende direttamente in spiaggia. Credo di aver guadagnato dei punti con Nicolas quando gli ho suggerito di andare sulla battigia a giocare con l’acqua. Lui ha gridato entusiasta, poi ha cercato il consenso negli occhi della madre, e ora eccoci qui, tutti e tre.
Nicolas è sulla riva che costruisce un castello di sabbia e, a occhio e croce, direi che da grande dovrà impegnarsi a fare altro. Ma ci si sta appassionando molto, e questo consente a me e a Vanessa di parlare.
Vanessa mi ha spiegato che non le è rimasto più niente. Saverio si era indebitato inseguendo un progetto folle, quello di gestire l’impianto di una pista di pattinaggio sul ghiaccio a Castelnovo Monti, a metà strada fra la pianura e la vetta del Passo del Cerreto, nell’appennino tosco-emiliano. Pista di pattinaggio e ristorante incluso. Tante volte avevo cercato di farlo ragionare, di farlo desistere, inutilmente. L’attività non è stata mai avviata. Dopo la sua morte, per pagare i debiti, Vanessa è stata costretta a vendere tutto. Ne è uscita pulita, ha liquidato tutte le banche in cui avevano acceso mutui, ha estinto ogni finanziamento, non deve più un centesimo a nessuno, solo che adesso non sa dove andare né cosa fare. Tornare a Roma dai suoi, non se la sente; approfittare della carità dei suoceri, non ci pensa proprio. Le ho detto che può fermarsi da me quanto vuole. La casa è grande, le camere sono tre, i bagni due, c’è spazio a sufficienza per due famiglie. E poi andiamo incontro alla stagione estiva, può considerarla una vacanza.
Gliel’ho detto senza staccare mai gli occhi di dosso da Nicolas, che inizia a dare segni di stanchezza di ingegnarsi fra torrioni che crollano e ponti che vengono regolarmente sommersi dall’acqua. Infatti, ora ha deciso di demolire la sua creazione. Polverizza un lato del castello con un piede, riottoso. Poi inizia a saltarci su con entrambi i piedi, e più salta più sembra soddisfatto e felice. Non posso che essere d’accordo con lui: non era un granché come castello. Ma c’è un’altra ragione se mi ostino a fingermi interessato alle improbabili capacità edili del mio figlioccio: non oso guardare negli occhi Vanessa.
Soprattutto ora, che mi sta fissando da oltre cinque minuti.
Sento il suo sguardo su di me, mi aggredisce come una condanna. Lo fa in silenzio, eppure riesco a sentire le domande che si sta ponendo, le stesse che mi ha fatto ieri, che le hanno roso l’anima da due anni a questa parte.
E infatti me lo chiede, all’improvviso: «Che fine avevi fatto, Nico? Perché ti sei nascosto su quest’isola?»
So che le devo delle spiegazioni, ma non ora. Ora è troppo presto, non ce la faccio, non sono pronto. Mi alzo, mi scrollo la sabbia di dosso e le dico, eludendo le sue domande, che ci penserò io a loro, adesso. Saverio avrebbe voluto così. Per questo mi aveva supplicato di fare da padrino al figlio. Mi prenderò cura di Nicolas e di lei. Glielo devo a Saverio.
Le dico questo, e mi avvio verso il mio figlioccio per impartirgli lezioni di architettura.




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