Il Re della Terra dei Fiordi

di Puffardella
(/viewuser.php?uid=1071317)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Prefazione.
La storia di Roma mi ha sempre affascinato.
Il racconto che sto per narrarvi prende spunto dalle incredibili e numerose imprese da Essa compiute, ma parla anche e soprattutto dei suoi nemici più agguerriti, quelli che più di tutti diedero filo da torcere all’impero più potente che il mondo abbia mai conosciuto. Non mi riferisco a quei popoli che, pur lottando coraggiosamente, furono infine sconfitti e costretti a sottomettersi al dominio romano, ma a quelli che, a mio avviso, furono in un certo senso i veri Protagonisti della storia: i Germani (una piccola parte) e i Caledoni.
Perché sono di questo parere? Perché trovo straordinario il fatto che Roma non sia mai riuscita ad assoggettarli.
È vero, si dice che la Caledonia non esercitasse nessuna attrattiva per l’impero e che quindi fu semplicemente ignorata. A me invece piace pensare che un piccolo gruppo di barbari, male organizzato e male armato, abbia combattuto con fervore per la propria terra e per la propria dignità, tanto da rendersi necessario isolarlo dietro il vallo di Adriano, il muro di confine più imponente che Roma abbia mai costruito.
Loro sono i veri protagonisti del mio racconto. Perché, secondo me, il sogno di Roma di “civilizzare” il mondo non era in fondo che un progetto presuntuoso. Vivere in una città costruita in marmo e mattoni dove sgorgava acqua a volontà sarà anche potuta sembrare una prospettiva di vita più civile rispetto a chi viveva in capanne e si lavava nei fiumi, ma secondo quali criteri?
Probabilmente, agli occhi di quei “barbari”, gli “incivili” erano i romani.
Ma non mi dilungherò oltre su questo argomento, ritenendo di averlo fatto già abbastanza nel romanzo.
Per tornare al romanzo, era impossibile ridurre secoli di storia in due generazioni e accomunare due popoli così distanti e diversi come i Germani e i Caledoni senza stravolgere la storia e la geografia. Insomma, per farla breve, non ho adattato i personaggi alla storia ma la storia ai personaggi. Per tanto, sebbene abbia preso spunto da alcuni riferimenti storici realmente accaduti, questo racconto non ha la pretesa di definirsi “storico”. La Roma del mio racconto è una Roma ipotetica, fortemente reinterpretata, così come tutto il resto.
Perdonatemi, dunque, le numerose, personalissime licenze…




PROLOGO

Il rumore degli zoccoli di legno rimbombava nell’ambiente soffocante del calidarium, rimbalzando fra le pareti rivestite di marmo giallo-porpora.
Lucio, a contatto con il vapore caldo che si alzava fino quasi a toccare il soffitto altissimo, emise un gemito di disagio e annaspò per un istante, prima di abituarsi alla temperatura elevata e all’umidità di cui l’aria era satura. I raggi del sole, che filtravano obliqui dai grandi finestroni con l’intelaiatura a riquadri di vetro, davano al vapore una luminosità argentea e una consistenza fluttuante.
Suo suocero, Caio Fulvio Sevilio, camminava al suo fianco, la schiena dritta e la testa in continuo movimento, in cerca di qualcuno. Infine indicò un uomo piuttosto grasso seduto su una panca ed esclamò: «Eccolo, è lui!»
L’uomo sulla panca, il senatore Marco Attilio Drusillo, sudava copiosamente. Grossi goccioloni gli scendevano dal mento, dal naso e dai capelli, e andavano a raccogliersi nelle numerose pieghe di grasso dell’addome. Lucio pensò con ribrezzo che quella vista fosse uno spettacolo decisamente poco piacevole. Quando gli furono dinanzi, il senatore alzò lentamente lo sguardo su di loro.
«Caio Sevilio... Perché non sono sorpreso di vederti qui?» disse impassibile.
«Piuttosto dovresti chiedermi come abbia fatto a perdermi le terme più belle di Roma per tutto questo tempo. Un anno che sono state inaugurate ed io non mi sono mai degnato di venire a vedere se il modo esaltante in cui ne parlano tutti corrispondesse a verità. Ebbene, erano tutte fandonie: queste terme sono molto più magnificenti di come me le avevano descritte. La struttura è impressionante, l’architettura semplicemente favolosa. E la biblioteca, poi: che idea innovativa! Ma tu mi conosci, Marco, io sono un tradizionalista. Detesto cambiare abitudini, a meno che non vi sia costretto da qualche faccenda urgente» sermoneggiò quello sedendoglisi vicino. Anche il giovane prese posto accanto al suocero.
«Scommetto che il pupillo che ti porti dietro è una delle tue urgenti questioni…» ribatté il senatore.
«Cognato caro, è un mistero come tu riesca a perdere somme tanto ingenti alle scommesse nonostante il tuo eccellente intuito.»
Il senatore, a quella battuta, fece un gesto stizzito con la mano.
«Sì, beh, passiamo al dunque. Chi è il giovane?» tagliò corto.
«Mio genero.»
«Quello che ha messo incinta Flavia, immagino» disse il senatore in tono volutamente pungente. Ora potevano ritenersi pari. Ognuno era ciò che era: lui un giocatore d’azzardo incallito perennemente costretto a chiedere denaro a qualche patrizio in cambio di favori e la nipote Flavia una delle peggiori lupe di Roma perché una delle poche a non farsi pagare. Mentre si dilungava in simili pensieri, notò non solo il principio di rossore che aveva iniziato a colorare le guance del poco stimato cognato, cosa che gli procurò non poca soddisfazione, ma anche il sorriso lievemente ironico sulle labbra del giovane. Si chiese se avesse colto il vero senso delle sue parole. Del resto era piuttosto intuibile. Non era decoroso, per una giovane patrizia romana, perdere la verginità prima del matrimonio, e men che mai rimanere incinta. Quando succedeva, la sua reputazione ne restava alquanto offesa. Quindi, o il giovane era un perfetto idiota o non aveva della moglie un’opinione molto diversa da quella del resto dei cittadini romani.
Ma forse l’eventualità era un’altra: che l’avesse messa incinta di proposito per imparentarsi con uno degli uomini più ricchi di Roma, nel qual caso aveva ogni buon diritto di ridersela.
«Di che tipo di raccomandazioni ha bisogno?» continuò infastidito. Voleva sbrigarsi a liquidare quella spiacevole faccenda.
«Lucio Impervio, mio genero, è un giovane dinamico, intraprendente, incline alla vita militare…»
«Caio, non posso dedicarti tutto il pomeriggio. Cos’è che vuoi?» lo interruppe esasperato.
Caio Sevilio sorrise amabilmente, per nulla intimorito dai modi bruschi del cognato. «Che tu lo faccia presente al senato come tribuno militare.»
Il senatore spalancò la bocca, interdetto. «Stai scherzando, spero…»
«No, per niente.»
Marco si prese del tempo per riflettere. Come poteva raccomandare alla carica di ufficiale un giovane che nemmeno conosceva?
«Mi chiedi troppo» rispose infine.
«È proporzionale al tuo debito» gli fece notare il cognato. Il senatore digrignò i denti ma rinunciò a controbattere, dal momento che aveva ragione. Sospirò pesantemente e cercò di valutare velocemente i pro e i contro, per arrivare infine alla conclusione che, in fondo, perché no? I tribuni non dovevano possedere particolari requisiti per essere nominati tali: bastava essere patrizi. E lo stolto del cognato, il ragazzo, se l’era adottato. Inoltre, dalla Britannia erano appena giunte richieste di soldati e anche ufficiali. L’idea iniziò a prendere forma nella sua testa e a concretizzarsi in qualcosa di fattibile. “Ma sì, perché no?” ne convenne. In quel modo avrebbe estinto il grosso debito che aveva contratto anni prima col cognato.
«E va bene, il ragazzo è fortunato. In Britannia hanno bisogno di uomini…»
«Britannia?» lo interruppe indignato Caio Sevilio.
«Perché, tu dove speravi di mandarlo?»
«In Dacia, dove si combatte ancora! In Britannia cosa dovrebbe andare a fare, a tosare le pecore? A sedare le rivolte di uno sparuto gruppo di contadini?»
«Invece la Britannia va benissimo» intervenne il giovane, facendo finalmente udire la sua voce.
«Benissimo? Lucio, ma che dici? Non c’è alcun bottino da raccogliere in una terra già spremuta. E visto che la Britannia è già provincia romana, non ci sono combattimenti. E dove non ci sono combattimenti non esiste alcuna possibilità di distinguersi e di fare carriera» contestò il suocero, pieno di sdegno. Ma Lucio non si scompose affatto.
«Ma la Caledonia non è ancora una provincia romana» fece notare.
«La Caledonia? Per tutti i numi, certo che non lo è, e mai lo sarà. L’imperatore Domiziano ha giurato sul tempio di Giove che non affronterà mai più i barbari che dimorano in quelle terre dopo l’ultima cocente disfatta.»
«Lo stesso imperatore che ormai stenta a reggersi in piedi. Tutti sanno che è malato e che non gli resta molto da vivere.»
«E con questo?» sbottò il suocero del giovane, sempre più basito.
«Oh, andiamo, Caio, ragiona! Presto Roma avrà un nuovo imperatore. E ogni volta che un nuovo imperatore sale al potere, come prima cosa decide di lasciare al mondo un segno della sua egemonia sulla terra, un’opera grandiosa, che batta in magnificenza e prestigio tutte quelle fatte costruire dagli imperatori che lo hanno preceduto. Queste stesse terme ne sono la prova… E quando il nuovo imperatore deciderà di farsi erigere un monumento, e lo farà, dove pensi che troverà le fonti necessarie a sostenerne le spese? Perfino in Dacia, che è a un passo dall’essere conquistata, non è rimasto più nulla da razziare.»
«E in Caledonia cosa pensi che ci sia da razziare? È una terra aspra, incoltivabile, invivibile.»
«Forse, ma è pur sempre una terra ricca di giacimenti di ferro e forse anche di piombo e oro. Per non parlare poi dell’enorme risorsa in termini di schiavi freschi, di cui Roma ha sempre un disperato bisogno. Se oltre a tutte queste motivazioni ci aggiungi che inevitabilmente il nuovo divo avrà voglia di distinguersi, piegando alla sua volontà un popolo ostinato come quello dal quale Domiziano è fuggito via come un agnellino terrorizzato…»
«Oh, andiamo, Lucio, le tue sono solo congetture!»
«Forse, ma da prendere seriamente in considerazione» intervenne a quel punto il senatore, che era rimasto tutto il tempo in silenzio ad ascoltare affascinato il giovane esporre le sue argomentazioni. Tornò a studiarlo con una nuova luce negli occhi. Quel giovane non era da sottovalutare, dopotutto.
«Parli come un politico, giovane Lucio» dichiarò.
«Con tutto il rispetto, senatore, se avessi voluto entrare a far parte della gloriosa legione romana al solo scopo di impugnare le armi a vita mi sarei arruolato in fanteria, come mio padre.»
Marco Attilio corrugò la fronte. «Tuo padre è un legionario?»
«Lo era.»
«Ah…»
«Era più di un legionario» puntualizzò il suocero del ragazzo. «Era il centurione Settimio Impervio.»
Il senatore, a quella rivelazione, annuì con approvazione. «Ho sentito parlare di lui. Era sotto il comando di Adriano. Uno dei migliori uomini che abbiano combattuto in Britannia.»
«E uno dei tanti a morire per Roma» affermò con orgoglio il giovane. Solo in quel momento il senatore si accorse del fisico asciutto del ragazzo, dai muscoli ben allenati. Aveva di sicuro partecipato all’addestramento militare e questo giocava a suo favore.
«Quanti anni hai, ragazzo?» volle sapere.
«Venti.»
«Beh, caro Lucio Impervio: a vent’anni stai per diventare padre e tribuno, e trovo di buon auspicio il fatto che la legione alla quale stai per essere assegnato sia la Ventesima. Una circostanza davvero insolita, non trovi? Per tanto direi che venti è il tuo numero fortunato» concluse sorridendo alzandosi, seguito dagli altri.
Marco Attilio Drusillo fissò un’ultima volta il giovane ambizioso. Si era convinto che il ragazzo avesse la determinazione necessaria per arrivare lontano. Sperava solo di vivere abbastanza a lungo per poterne raccogliere i frutti. Se il ragazzo avesse raggiunto la gloria a cui aspirava, avrebbe dovuto mostrargli riconoscenza a vita.
E finalmente, dopo tanto tempo, il creditore sarebbe stato lui.

 




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4045008