Il numero di una statistica

di Puffardella
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È notte fonda ormai. Il vento non ha smesso di soffiare con rabbia.
Fuori, una delle persiane del ripostiglio sbatte ripetutamente.
Fa un gran casino, e comincia a darmi sui nervi.
La luce della luna getta sulla parete della mia camera le ombre dei rami di un pino piegati dal vento. Si muovono e si agitano, si scontrano e si respingono, come se si trovassero impegnati in una danza furiosa.
Non riesco a prendere sonno, ma non è a causa della tempesta. Continuo a pensare all’episodio a cui si riferiva Vanessa un paio di ore fa. Continuo a pensarci perché non riesco a capire per quale motivo lo abbia tirato fuori…

Ero appena tornato dal mio esilio da Roma, durato due anni. Alla fine ci ero andato davvero in Inghilterra dopo la maturità, ma non per frequentare l’Università, come avrebbe voluto mia madre. Mi feci dare un bel po’ di grana da mio padre e me la spassai fino a che non finirono i soldi, e quelli finirono presto. La cocaina non dà assuefazione come l’eroina, ma la dipendenza è ugualmente forte. Non è il tuo fisico a chiedertene ancora, ma la tua mente. E siccome l’effetto dura poco, ne facevo uso più volte al giorno. Qualche volta me la iniettavo. Spesso fumavo il crack. Le discoteche in Inghilterra, soprattutto quelle a Londra, sono un vero paradiso in tal senso. E considerato che la discoteca era per eccellenza il mio ambiente naturale e mi piaceva usare le mani, riuscii a trovare un impiego come buttafuori in un locale londinese.
Ecco come passai i miei due anni in Inghilterra. Non presi una laurea, in Gran Bretagna, ma mi qualificai in un mestiere che mi calzava a pennello. Tornai in Italia per sottopormi a una serie di colloqui in locali prestigiosi. Chiesi a mio padre ospitalità per qualche giorno, giusto il tempo di riorganizzarmi, e la prima cosa che feci sceso dalla moto, una Suzuki 1300, fu andare a bussare alla porta di Vanessa. Non avevo più parlato con lei dal giorno del mio pestaggio. Avevo più volte tentato di chiamarla al telefono, ma non aveva mai voluto rispondere. Se la contattavo con l’inganno facendo chiamare qualcun altro al posto mio, appena sentiva la mia voce metteva giù.
Era luglio, faceva un caldo pazzesco. Mi ero fatto crescere i capelli, a Londra. Li porto tuttora così, lunghi fino alla base della nuca, e spettinati. Per questo la mamma di Vanessa quasi non mi riconobbe quando venne ad aprire. Ma dopo un attimo di incertezza esclamò felice il mio nome, e mi baciò su entrambe le guance.
Marisa Berlini-Bonanni: un gran pezzo di donna. Le ho sempre portato rispetto solo in virtù del fatto che era la madre della ragazza di cui continuavo ad essere follemente innamorato, anche se non sempre è stato facile resistere alla tentazione. Marisa faceva di tutto per istigarmi, e lo fece anche quel giorno. Comunque, m’informò che Vanessa non c’era. Si era diplomata con 90 su 100, e per festeggiare l’evento era partita per una vacanza a Ibiza con alcune amiche. Poi aggiunse, e lo fece perché sapeva che avrei reagito così -­­ lei la lezione l’aveva ascoltata e imparata a memoria -, che era andata in Spagna anche per cercare di distrarsi. Disse che si era messa con un bamboccio che l’aveva solo presa per il culo, che l’aveva fatta soffrire, che si era perfino permesso di schiaffeggiarla, e davanti ai suoi occhi per giunta.
Non so che faccia feci, so solo che chiesi il nome e il cognome del tizio, girai i tacchi e me ne andai senza aggiungere altro.
Sapevo che Vanessa si era frequentata con dei ragazzi, in quel periodo. Gli amici più fidati mi avevano tenuto informato. Non potevo certo pretendere che si mantenesse casta e pura per un amore platonico quale era il nostro, ma non potevo nemmeno tollerare che un coglione qualsiasi avesse osato alzarle le mani.
Andai a trovare Sorcio e mi feci dare informazioni sul tipo. Presto iniziò un giro di telefonate, e in breve qualcuno mi avvisò che il tizio che cercavo, di cui stranamente del nome ho perso memoria, si trovava all’Artica, il bar che frequentavo spesso e che si trovava a Ostia, appena fuori dalla Cristoforo. Lo stesso bar dove ero stato prelevato dalla banda del Chesco. Così, accompagnato dal Sorcio e da qualcun altro, mi diressi lì.
Massimo, il proprietario del bar, mi accolse con un sorriso a trentadue denti. In quel buco ci avevo speso più soldi io che tutta Ostia. Gli chiesi chi dei tipi seduti al tavolo fosse quello che cercavo io, e lui me lo indicò. Se la rideva con alcuni suoi amici, il frocio. Era uno di quei cazzoni che indossano il gilet di lana anche in estate.
«Ti dispiace se ci parlo?» gli chiesi.
Massimo sapeva bene cosa intendevo.
«Basta che non mi fai troppi danni, Nico.»
«Te li ho sempre ripagati, no?»
«Eh sì, ma la clientela che perdo, chi me la ripaga?»
«Massimo, ma quale clientela? Qui ci sta solo quel coglione, e con quello, il massimo del danno che ti posso fare, è che si cagherà sotto e ti toccherà ripulire un po’ di merda.»
«E vabbè» sospirò il barista.
Dissi ai miei amici di starne fuori, che non era una faccenda che riguardava loro. Mi avvicinai al tipo, e i suoi compari smisero di ciarlare. Le mani mi prudevano da morire. Lo analizzai per capire cosa ci avesse provato Vanessa.
Era insignificante.
L’idea che lui avesse potuto averla, che fosse stato dentro di lei, mi fece salire l’adrenalina al massimo.
«Tu lo sai chi sono io?» gli domandai con calma.
«No. Mi dovrebbe interessare?»
Un paio di quelli che stavano con lui abbassarono gli occhi. Li indicai con un cenno del capo. «Loro, però, lo sanno chi sono io…»
«E vabbè, ce lo sapranno pure, ma io non lo so chi sei. E se mi devi dire qualcosa è meglio che ti sbrighi, perché mi sto innervosendo.»
«Noi andiamo… Ci si vede…» dissero quelli che mi avevano riconosciuto, prima di dileguarsi, seguiti da tutti gli altri.
«E come ti parlo se resti seduto?» gli feci notare.
Quello si alzò facendo il gallo, ma le labbra gli tremavano.
«Forse non conosci me, ma sono sicuro che conosci la mia donna, Vanessa Bonanni.» 
Impallidì come un cadavere. «Sei Nicolas?»
«Ah, ora mi conosci…»
«Vanessa ed io ci siamo lasciati» si affrettò a giustificarsi il verme.
«Eh, lo so, me lo hanno detto. Ma, vedi, già è stato un errore, il tuo, esserti messo con la mia donna…»
«Ma mica me lo aveva detto, lei, che era la tua donna…»
«Perché lei è fatta così, se lo scorda di continuo. La gente che mi conosce e che conosce lei, però, lo sa senza bisogno di conferme da parte sua. O per lo meno dovrebbe saperlo. C’è sempre qualcuno che se lo dimentica… I coglioni se lo dimenticano. O fanno finta di non saperlo. Tutti gli altri, invece, lo sanno.» Mi voltai verso il barista. «Massimo, di chi è Vanessa?»
Quello sospirò rassegnato e annoiato. «Tua, Nico.»
Un gruppetto di ragazzi entrarono in quel momento. Un paio di quelli avevano frequentato il liceo con me. Appena mi riconobbero vennero a salutarmi. Ci stringemmo la mano, e ne approfittai per fare a uno di loro la stessa domanda.
«Tullio, ce lo sai chi è la mia donna? Ricordaglielo un po’ a ‘sto fricchettone…»
Tullio, che sapeva che per Vanessa ne avevo gonfiati un bel po’, rispose con un sorrisetto cattivo.
«Ah, ho capito. È uno di quelli che la lezione non l’ha imparata» e rise di gusto insieme all’altro mio ex compagno. Diede due buffetti sulle guance del tipo che era rimasto impietrito e confermò, con sarcasmo: «Vanessa. Ma com’è che t’era sfuggito? Dai, da oggi nun te lo scordi più!» Gli diede uno schiaffetto, ed entrambi si allontanarono sghignazzando.
«Però, vedi, non è per questo che sono un po’ incazzato con te… ma solo un po’, eh, tranquillo che non ti prendo a pugni… Solo che un uccellino mi ha detto che l’hai schiaffeggiata…»
«Te lo ha detto lei?»
«Lei non l’ho ancora vista, e poi non è il tipo. Lo sa come sono fatto. Sa che mi prudono le mani facilmente. No, me lo ha detto qualcun altro. Allora, l’hai schiaffeggiata o no?»
«Le ho solo restituito la sberla che mi aveva dato per prima.»
Per assurdo che possa sembrare, questo mi fece incazzare più dell’idea che se la fosse portata a letto. Sentii un’insana gelosia montarmi dentro.
«Se io le avessi restituito tutti gli schiaffi che mi ha dato non sarebbe più così graziosa. Non si picchia una donna, non lo sai?» e lo schiaffeggiai piano, per umiliarlo. «Fa male uno schiaffetto così?»
Il cagone fece cenno di no con la testa. Alzai la mano e lo colpii nuovamente sulla guancia, non troppo forte. Nonostante tutto, il naso iniziò a sanguinargli.
«E così ti ho fatto male? Perché il primo che ti ho dato, è come quello che ti ha dato lei. Il secondo, è come quello che le hai dato tu. Vuoi sentire come sono quelli che do io? Eh?» e lo colpii con forza. «Fa male così? Eh?» e gliene diedi un altro. Quello rovinò sul tavolo e iniziò a perdere sangue anche dalle labbra e dalle gengive. Lo risollevai in piedi e continuai a schiaffeggiarlo, accompagnato dalle risate dei ragazzi che si erano accalcati a vedere la scena. Massimo, però, venne a dirmi di smetterla. Si stavano avvicinando altre persone, e avevano dei bambini con loro. Lo rassicurai che la “chiacchierata” era finita. Spinsi il coglione su una sedia, e mi misi seduto di fronte a lui.
«Ecco ora cosa devi fare. Devi chiamare Vanessa e farle le tue scuse. Devi dirle che ti dispiace di averla schiaffeggiata. Oh, mi hai capito?» gli sibilai per non farmi udire dalla famigliola che era appena entrata. Lui annuì.
Non lo so se il tipo se la fece addosso o no, so solo che piangeva come un bambino quando me ne andai.
 
Nei giorni successivi feci il colloquio di lavoro e fui assunto in una discoteca sulla tiburtina, il Papaya.
Quel sabato me ne tornai a casa con una tipa rimorchiata al locale, una mulatta brasiliana. La portai a casa e successe quello che succedeva ogni volta: sesso e cocaina. Mi addormentai con quella sopra l’uccello, e mi svegliai allo stesso modo. Ci svegliammo insieme, in realtà, a causa delle grida di Vanessa.
La ragazza balzò a sedere e mi guardò terrorizzata. Io cercai di capire cosa stava succedendo. Era mia abitudine lasciare le chiavi di riserva sotto un vaso, l’ultimo sulla destra del porticato. Solo Vanessa ne era a conoscenza, ma non potevo credere fosse davvero lei.
«Chi è? La tua ragazza?» chiese la brasiliana allarmata, alzandosi. Io invece me la risi raggiante. Stavo per ricevere la solita razione di schiaffoni, e mi sentivo l’uomo più felice del mondo.
«Oh, me lo dici chi cazzo è?» ripeté quella, mentre saltellava su un piede nel tentativo di infilarsi i jeans. Vanessa spalancò la porta e si fermò sull’uscio. Aveva le guance colorate dall’indignazione.
Si era fatta più donna, più bella, ed io sentii di amarla più di prima. Si scagliò addosso alla mulatta e la riempì di improperi. Le lanciò addosso la sua roba e la spinse con forza fuori dalla camera, urlando.
«Tu!» disse poi indicandomi. Io ero rimasto seduto sul letto con un sorriso da ebete stampato in faccia. Lei caricò e m’investì. Mi riempì di schiaffi, con entrambe le mani.
«Come ti permetti… bastardo… maledetto… Come ti sei permesso di picchiare il mio ragazzo?» e mentre mi ripeteva a raffica le stesse cose mi colpiva sul viso, sulle spalle, sulla schiena. Le afferrai i polsi.
«E tu come ti sei permessa di schiaffeggiarlo? Lo sai che gli sganassoni sono una mia prerogativa. Devi riservarli solo a me, cazzo!»
Lo dissi con risentimento, ma la frase risultò essere così ridicola che iniziammo presto a riderci su, nostro malgrado. La spinsi sul letto e continuammo a ridere guardandoci negli occhi, sdraiati fianco a fianco.
«Stronzo… Io ti odio, lo sai?»
«Non è vero, lo so che mi ami» dissi.
Vanessa rotolò sul mio petto ed io l’abbracciai forte, emozionato ed eccitato.
«È venuto a chiedermi scusa…» sghignazzò lei. «Mi ha supplicato di fartelo sapere, che lo ha fatto...»
«E come sta?»
Scoppiò a ridere di gusto. «Aveva la faccia pesta!»
«Ma come cazzo ti è venuto in mente di stare con un pappamolle simile?» le chiesi, mettendo il naso fra i suoi capelli e aspirandone l’odore. Dio quanto mi era mancata la sua vicinanza. Lei si alzò e fece una smorfia disgustata.
«Puzzi come una troia! Perché non ti vai a togliere quell’odore di dosso e mi porti a fare un giro in moto?» propose, ed io non persi tempo. Andai a fare una doccia e, al mio ritorno, la cocaina che avevo lasciato sul comodino non c’era più. Due piotte di roba buttate nel cesso. La guardai rassegnato ma pensai che se quello era il prezzo della nostra riappacificazione era poca roba. Lei valeva molto di più…
Questo è ciò che accadde quel giorno. Non era la prima volta che mi beccava con un’altra donna, se è questo il motivo per cui ha rinvangato proprio quel ricordo.
E mentre sono qui che mi tormento con i soliti ma e con i soliti se, la porta della camera si apre piano. Mi alzo sui gomiti e resto in attesa, con il cuore in gola.
E stavolta non è Nicolas.
Il vento continua a ululare e a graffiare i vetri della finestra, ma non è il suo soffio a farmi accapponare la pelle. Sento i brividi scuotermi il corpo. Lei non dice nulla, mi si avvicina in silenzio, bella e irreale alla luce della luna. Ha i capelli sciolti, ora, e sento di desiderarla in maniera viscerale, oltre ogni comprensione.
Si ferma a un lato del letto. Io mi metto seduto, appoggio i piedi sul pavimento caldo. Ha lo sguardo intenso e lucido, anche se non riesco a vedere il colore dei suoi occhi alla debole luce della luna. Vanessa si mette fra le mie gambe senza dire nulla, ed io fremo perché ho capito già. Le metto le mani sui fianchi, lei sulle spalle. Si china e ci baciamo, ed io non riesco a credere che stia accadendo davvero. Ci baciamo, e fra i sospiri e i gemiti, il desiderio cresce, si fa quasi dolore. Vanessa si mette sopra di me, si muove piano, i suoi occhi dentro ai miei, i nostri sguardi vacui, annacquati. Iniziamo a baciarci con più passione; lei si muove più in fretta. Le tolgo la maglietta, la stacco da me e le sfilo le mutandine. I suoi seni sono sodi, pieni, i capezzoli scuri, turgidi. Li bacio, me ne riempio la bocca. Mi ubriaco dei suoi baci. Lei mi sfila i boxer, e mentre mi libero della maglia torna sopra di me. Si prende il mio membro eretto in mano e lo guida piano dentro di sé. Infine si lascia scivolare su di me, lentamente. Gemiamo entrambi quando sono completamente dentro di lei. Nessuna droga al mondo mi aveva fatto sentire emozioni più intense, dolci e violente allo stesso tempo.
Vanessa si muove veloce, ora, ma io la fermo, perché voglio che questo momento duri il più a lungo possibile. Lei mi guarda sconvolta, freme, ha voglia di riprendere a muoversi. Io la avvolgo con un braccio e la porto sotto di me. Le carezzo il viso mentre affondo dentro di lei lentamente ma con forza. Cerco ancora le sue labbra, i suoi occhi. Voglio che mi guardi, "Guardami tesoro, guardami Vanessa, perché voglio dirti che ti amo, e voglio farlo entrandoti nell’anima".
«Ti amo» le sussurro dando voce ai miei pensieri, e continuo a dirglielo mentre mi muovo sempre più in fretta, perché ora non posso più contenere la libido. Lei si stringe forte a me, le sue unghie nella mia carne. La sento emettere un gemito soffocato, sento il suo corpo vibrare, contrarsi e rilassarsi più volte, travolto dalle ondate di piacere. Mi lascio andare anch’io insieme a lei, mi lascio trasportare da un’estasi incredibile che mai, in vita mia, avevo provato. E dopo aver goduto di lei, e insieme a lei, mentre i nostri sensi cercano piano di tornare alla normalità, le accarezzo i capelli. Ho voglia di piangere, tanto mi sento felice. Lei, però, sta piangendo davvero.
«Perché?» le chiedo baciandole gli occhi. «Non devi piangere… Perché piangi? Ti prego, non farlo…»
«Hai idea di quanto ti ami?» mi dice accorata. Si stacca da me e si mette seduta.
Le accarezzo la schiena. Vorrei afferrarla, farla tornare distesa al mio fianco, abbracciarla con forza, distoglierla dal suo dolore, perché ho paura, lo so che devo aver paura di quello che sta per dirmi, perché se lo dirà l’avrò persa, e forse per sempre.
«Ti amo, Nicolas, ma devo potermi fidare di te…»
«Tu puoi, Vanessa! Fidati di me, ti supplico!»
Lei tace un attimo. Mi metto a sedere anch’io e le scosto i capelli dal viso.
«Tu mi hai sempre protetta. Anche quando non lo sapevo, tu continuavi a vegliare su di me… Come quella volta che tornasti dall’Inghilterra e picchiasti il mio ex…»
Chiudo gli occhi e trattengo il respiro. “Non dirlo, Vanessa ti prego, non farlo”, continuo a ripetere dentro di me.
«Se posso fidarmi davvero di te, dimmi perché non eri presente al funerale di Saverio...»
Mi copro il viso con le mani, affranto. Sento le lacrime scendermi calde sugli zigomi. Di nuovo, attende una risposta che non oso darle. Attende a lungo, con pazienza, mentre piange in silenzio.
«Come posso sposarti? Non posso farlo, non così… Avevo già visto una casa in questi giorni…»
«Oddio, ti prego no, Vanessa, non farlo. Non puoi farmi questo. Non portarmi via Nicolas…»
«La casa è in questa stessa via, ci vedremo comunque tutti i giorni…»
«Perché? Perché mi fai questo?» mormoro disperato. Piango ormai senza ritegno. Lei scuote piano la testa.
«No, Nicolas, la domanda giusta è: perché tu fai questo a noi» dice con infinita tristezza. Si alza lentamente, prende le sue cose e se ne va, fuori dalla mia camera.
Presto sarà fuori dalla mia casa. E dopo, forse, fuori dalla mia vita. E Nicolas con lei.




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