A pezzi

di Challenger
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«Ehi, ho una domanda».
«Dimmi».
«Perché sei svenuto?».
Pausa. Vedevo nei suoi occhi scorrere fiumi di parole, frasi che si arrampicavano e ruzzolavano giù dalla montagna dei suoi pensieri, ostinatamente intricati. «Paura» fu la risposta.
Di nuovo quella parola. Un’unica parola che racchiudeva un’infinità di possibili combinazioni, peccato solo che io non ne azzeccavo mai una, infatti chiesi «di cosa?».
Prima di rispondere, legò le dita alle mie, come se dovesse ancorarsi a qualcosa di solido per evitare di cadere a faccia avanti su una strada scivolosa «di poterti perdere».
Ora ero io ad aggrapparmi più forte che potevo al nodo creato dalle nostre mani intrecciate per non cadere dal letto.
«Perché mai avresti dovuto aver paura di una cosa così assurda?».
«Credevo te ne saresti andato, lasciandomi solo».
Fui spiazzato dalla risposta.
Solo. Accidenti, un calcio nelle palle mi avrebbe fatto meno male.
‘Dio! Ero un dannato egoista! Perché era esattamente quello che stavo per fare se non mi avesse afferrato la mano in tempo.
«Luca, io…» non fui in grado di continuare.
«So che l’avresti fatto, eri arrabbiato con me, perché non capivi quello che ti dicevo. Ero spaventato, non volevo che mi lasciassi dopo aver scoperto la verità» si fermò un attimo, distolse lo sguardo, sospirò e riprese «dopo avermi visto così».
«Così come?» mi accomodai meglio sul materasso.
«A pezzi, come sono realmente» si spostò su un fianco, voltandomi le spalle.
Accarezzai per un po’ il suo profilo; piangeva silenziosamente, non avevo bisogno di vederlo in faccia per saperlo; mi distesi accanto a lui, mi schiacciai contro la sua schiena e lo abbracciai, baciando le spalle, il collo, la nuca.
Adriano mi aveva avvertito, non avrei dovuto dirgli niente, non dovevo punirlo così. Luca era andato un’ultima volta in pezzi ed ero stato io a frantumarlo e a soffiare sulle macerie.
“A pezzi” aveva detto. Aveva tenuto insieme i cocci con la colla di una marca scadente, pagata due soldi, e destinata a fallire la sua missione.
Sapevo che mi nascondeva qualcosa, c’era sempre stato qualche cosa di inconfessato tra di noi, una piccola parte di lui che teneva celava all’occhio indagatore che voleva metterla a nudo.
Mi aveva nascosto per anni la sua anima ferita, oltraggiata, a pezzi.
A pezzi. Questa espressione fece cadere in pezzi anche me. Ogni volta che Luca soffriva si rompeva, e nel più totale silenzio prendeva una scopa e raccoglieva tutti i pezzi della sua anima che erano controllati sotto la palla demolitrice della paura. Prendeva pezzo dopo pezzo e lo rincollava di nuovo, in un assurdo ciclo infinito, da solo, sempre da solo, senza mai chiedere aiuto a nessuno, nemmeno quando i pezzi diventavano ogni volta più piccoli e difficili da raccogliere. Li ricompattava come meglio poteva, ma ogni volta gliene sfuggiva uno, e la struttura inevitabilmente crollava, perché senza sostegno i palazzi crollano, per questo si costruiscono sulle rocce e non sulla sabbia. Luca aveva costruito il suo castello sulla rena, un terreno instabile e pericolante, perché la sua roccia — cioè io — non lo vedeva, non vedeva le sue richieste d’aiuto.
A pezzi” aveva detto. Brandelli di vita sparivano nelle sabbie mobili, e lui scavava più che poteva, sempre più a fondo per recuperarli, e affondava insieme a loro. Cercava un appiglio che non trovava. Perché nessuno glielo offriva, lo avevano lasciato solo, tutti, me compreso. Sempre troppo occupato a pensare ad altro e non a lui, colui che aveva più bisogno del mio aiuto.
Piansi le lacrime che Luca non aveva più la forza di lasciare andare, era esausto.
Mi aveva mostrato la sua anima, ora toccava a me rimetterla insieme e ricostruirla su un terreno stabile e sicuro.
«Luca, ti amo» sussurrai, per la paura di svegliarlo, aveva bisogno di riposo.
Lo tenni stretto a me tutta la notte, fino al mattino successivo.

 





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