ӀƖ ẟangue di ⱴe’ Ʀah

di Nina Ninetta
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Ciao a tutt*
Questa storia è diversa dalle altre, poiché l’impostazione richiama – in maniera più semplice – l’idea base del gioco Dungeons&Drangons. Il giudice ha chiesto a ciascun partecipante di creare un personaggio – con caratteristiche fisiche, psicologiche, equipaggiamento, lore –. Il mondo, in cui si sarebbero mossi, è stato invece tratteggiato da lui.
Il nostro compito, poi, sarebbe stato quello di inserirli tutti all’interno del racconto. Una specie di esperimento sociale, insomma :)
Per onor di cronaca, riporto di seguito i personaggi di ciascun partecipante:
  • Dark Sider: Kevset/Kewst Lamarcana
  • Nina Ninetta: Gar di Niihel/Garni
  • Swan: Damien di Grimson
  • Thors: Emeryl Astoria Ver Haret
  • Vodia: Stella O’Fleed
Non mi rimane che augurarvi buona lettura. Spero vi divertirete, perché io mi sono divertita a scriverla,
Nina^^

P. S. Questo primo capitolo potrebbe sembrarvi un pochino lungo perchè ho inserito anche il prologo, gli altri saranno meno "pesanti" ;)

 



 
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PƦOLOGO

 
 
Il Gran Concilio della IV Era Glaciale si aprì durante l’ora dell’Alba Inoltrata, nella Sala dell’Arcaneum della prestigiosa Accademia dei Maghi di Valldysi, a ovest del Continente Verde di Magena.
Era stato l’Arcimago Tullius a richiedere la presenza dei più importanti signori del tempo, dopo aver ascoltato i timori del Sommo Sacerdote di Ve’Rah, la dea del Fuoco Sacro, e aver appreso che il Gelo imperversava oramai privo di controllo. Neanche le loro preghiere, le suppliche delle Vestali o i sacrifici animali bastavano più ad animare la Fiamma Sacra, che anzi si stava spegnendo senza precedenti. Di questo passo, i ghiacci avrebbero ricoperto ogni luogo, ogni terra, persino il Continente Desertico si sarebbe trasformato in un’immensa landa di ghiaccio e, a quel punto, il Fuoco Sacro sarebbe stato spento da un’ultima gelida folata.
Tullius lo aveva guardato dritto negli occhi, affermando che se fosse lì, a supplicarlo di intervenire, era evidente che esistesse ancora una speranza. Il Sommo Sacerdote di Ve’Rah aveva annuito piano: c’era, ma sarebbe servito l’intervento e la buona volontà di tutti.
Tullius aveva inviato emissari in ogni dove, giovani maghi il cui compito era stato quello di consegnare un invito a presenziare al Gran Concilio e non sarebbero stati accettati rifiuti: la nuova Era Glaciale era un problema che riguardava chiunque, nessuno escluso.
Quando l’Arcimago entrò nella grande Sala dell’Arcaneum e vide i grandi del Pianeta accomodati intorno all’imponente tavolo rotondo, di pietra spessa e grigia, avvertì un’estranea stretta alla bocca dello stomaco: paura, perché era chiaro avessero recepito la gravità della situazione in cui versavano. Mostrò i palmi in segno di saluto e si accomodò al suo posto, fra il Sommo Sacerdote e la Màthayr delle Din Nadair, entrambi con le mani posate in grembo e il capo basso, avvolti nei pesanti mantelli – verde la prima, porpora il secondo – che dimostravano l’appartenenza alle rispettive sette.
«Ringrazio ciascuno di voi per aver accettato l’invito a presenziare a questo Concilio che, come saprete, non ha precedenti nella storia del nostro Mondo» la voce calma e pacata dell’Arcimago risuonò nella stanza, sembrò rimbalzare contro le pareti di pietra e tornare indietro. Era una stanza spoglia, fredda e austera, fatta eccezione per i paramenti di velluto blu che pendevano lungo i muri, al cui centro svettava il simbolo dell’Accademia di Valldysi. Ai quattro angoli fiamme chiare ardevano in grosse anfore, illuminando e riscaldando l’ambiente.
«Ehi, vecchio! Ti sei fatto attendere parecchio!» Kobin Lamarcana alzò un boccale di legno grezzo facendo cadere del liquido scuro sui suoi pantaloni e sulla superficie ruvida del tavolo, poi ne bevve un lungo sorso e si pulì le labbra con il dorso della mano. «Avete proprio dell’ottimo vino in Accademia!» Rise sguaiato, ma nessuno dei presenti lo imitò.
«Kobin, non mi aspettavo di vederti qui…» Era stato l’autorevole re Vermyl a parlare. Un uomo avanti con l’età, ma alla sua sola presenza ancora tremavano le mura di tutto il palazzo. La sua era una storia triste, di mogli morte ed eredi che le avevano seguite, fino a quando non aveva sposato la bella e seducente Sheeira di Agran, la cui fama la precedeva. Ma anche con lei non era stato del tutto fortunato…
«Re Vermyl!» Lo salutò Kobin, brindando alla sua salute. «Io e il mio compare Dun’Gar, qui, siamo stati invitati in rappresentanza del Continente del Deserto e del giovane Regno di Niihel» Così dicendo, Kobin batté un paio di volte la mano libera sulla spalla dell’uomo che gli sedeva accanto. Quest’ultimo lo guardò di traverso, senza rispondere.
«Per rappresentare il mio continente sarei bastato io! Cane!» Digrignò tra i denti il Sultano di Agran, colpendo il tavolo con un pugno e scattando sull’attenti. A dividere lui e Kobin c’era solo Dun’gar, che infastidito si alzò e invitò entrambi a sedersi. I due non replicarono: in fondo era il doppio di loro per stazza e prestanza, quindi preferirono dargli ascolto.
«Signori, signori! Per piacere! Non vi ho convocati per litigare, oggi vi chiedo di mettere da parte i vostri disguidi e le vicende personali.» La voce pacata di Tullius tornò a espandersi nella sala. «Siamo qui per salvare il Mondo dalla glaciazione che da tempo ci affligge e non accenna a diminuire», l’Arcimago si prese una pausa, soppesando con cura le parole. «Il mio amico e Sommo Sacerdote di Ve’Rah mi ha aperto il suo cuore e allertato su quello che sta accadendo: la Fiamma Sacra si sta spegnendo e con lei ogni nostra speranza.»
«Quale pensi sia il motivo, Sommo di Ve’Rha?» Chiese re Vermyl, realmente preoccupato per l’attuale situazione del suo regno. Ogni giorno, infatti, contadini affamati e mercanti stanchi si recavano al suo cospetto per chiedere aiuti concreti: le terre gelavano e il cibo scarseggiava.
Il Sommo Sacerdote sollevò lo sguardo, tirando indietro il cappuccio del mantello. Il suo volto era ricoperto da una folta barba bianca, il capo glabro e due occhietti neri infossati e penetranti parevano provenire da un altro pianeta.
«L’Era Glaciale che imperversa sulle nostre città, sui nostri villaggi, sui cittadini e sulle nostre famiglie non è naturale.»
I presenti lo fissarono, metabolizzando le parole che quell’anziano sacerdote devoto alla dea della Fuoco Sacro aveva appena pronunciato.
«In che senso non è naturale?» Domandò il Sultano di Agran, un omino basso e tondo, con lunghi baffi grigi a tricheco.
«Nel senso che qualcuno ha risvegliato creature oscure dal profondo delle viscere!» Questa volta era stato Meldor a intervenire, Rettore dell’Accademia di Gamirhia, il quale aveva battuto i palmi sul tavolo e si era alzato in piedi, puntando il dito contro la donna che gli sedeva accanto: la Madre Superiora delle Din Nadair. «È colpa vostra, vero eretiche? Siete state voi a risvegliare chissà quale demone malvagio perché volete avere il controllo su tutto e tutti! Come vi fate chiamare? In-can-ta-tri-ci! Tzè! Streghe! Ecco cosa siete: delle streghe che andrebbero messe al rogo!»
«Meldor!» Tullius scattò in piedi, la sua voce non era più calma e pacata, ricordava invece quella di un padre che tuona contro lo sgarbo di un figlio ingrato. «Berenise è stata invitata da me personalmente. Tutti noi abbiamo bisogno del sapere delle Din Nadair, della loro conoscenza e delle loro arti arcane»
«Eretiche, vorrai dire!»
«Meldor! Se la sua presenza ti disturba tanto puoi abbandonare il Concilio, non ti tratterrò.»
L’Arcimago di Gamirhia lanciò un ultimo sguardo truce in direzione della donna, poi tornò ad accomodarsi e non aprì più bocca per tutta la durata dell’assemblea.
Kobin fischiò: «Certo che quando questi maghi si alterano è meglio restarne alla larga!» Rise, da solo. Di nuovo.
«Sommo Sacerdote, ti prego di riprendere il discorso di pocanzi» concluse Tullius.
«Grazie, mio caro amico.» Il Sacerdote di Ve’Rha ricominciò da dove si era interrotto. «Il Grande Gelo non è naturale, dicevo, ma abbiamo ragione di credere che sia stato richiamato da forze oscure, le stesse che stanno smorzando la nostra amata Fiamma Sacra. Se non interveniamo, questa si esaurirà del tutto e ogni forma di vita sul nostro pianeta morirà con lei.»
«C’è un modo per capire da dove nasca questa forza oscura? Potremmo annientarla e ripristinare la Fiamma» Re Vermyl si era sporto sul tavolo, le dita intrecciate e strette così forti da far sbiancare le nocche. Da tempo nel suo cuore albergava un presentimento che non era riuscito a mettere a tacere.
Il Sommo Sacerdote guardò l’Arcimago alla sua destra e quest’ultimo ricambiò lo sguardo, facendogli un cenno di assenso: poteva proseguire, aveva il suo consenso.
«Secondo le nostre ricerche, il Gelo è scaturito da Iberia…»
Tutti i presenti si voltarono in direzione dei due rappresentati del regno isolano: Globo, il reggente, e Shuva, Gran Sacerdote Leonid. Fu il primo dei due a parlare, scoppiando in una risata gutturale:
«Iberia? Davvero credete che il problema siamo noi? Noi, che siamo stati i primi a dover far fronte a questa catastrofe, adesso veniamo incolpati di aver causato la quarta e più tremenda Era Glaciale che il Pianeta abbia mai conosciuto? È semplicemente ridicolo!»
Per qualche secondo nessuno fiatò. Tutti conoscevano la storia di Globo, di come si fosse impossessato del ruolo che adesso ricopriva, del colpo di stato che aveva intessuto in gran segreto con l’ausilio dell’uomo che gli sedeva accanto e che lo accompagnava ovunque, simile a un cane fedele: Shuva, Gran Sacerdote dell’ordine dei Leonid, ossia gli uomini-leone fedeli alla dea O’Shu-Tal. Nel Regno di Iberia era stato instaurato un regime di terrore assoluto, senza i rimpianti genitori di Globo – reali buoni e giusti – e con la principessa erede al trono fuggita e probabilmente ammazzata per ordine del fratello stesso, il popolo era ormai in balia del caos.
«Forse delle ricerche sul territorio potrebbero aiutare a comprenderne meglio l’origine» Per la prima volta la Màthayr delle Din Nadair si era espressa, sollevando il suo sguardo fiero sugli uomini presenti. «Le mie discepole sono esperte ricercatrici e-»
«Nessuno metterà piede nel Regno di Iberia!» Il Gran Sacerdote Leonid la interruppe. «Non siamo noi il problema. Trovate un’altra soluzione.»
«Esattamente!» Gli fece eco Globo.
Di nuovo il silenzio cadde fra i presenti, ognuno chinò il capo, immerso nei propri pensieri, e di nuovo la voce antica del Sommo Sacerdote parlò.
«In verità, c’è un’altra strada da poter intraprendere. Più veloce, in un certo senso, e forse meno sanguinosa di una ricerca nel cuore delle tenebre.»
«Parla, dunque!» Lo incalzò il re di Magena.
«Nei nostri territori si aggira il figlio legittimo della dea del Fuoco Sacro.»
Dun’Gar ebbe un sussulto e si mosse nervosamente sulla sedia di pietra. Temeva che quel momento sarebbe arrivato, un giorno, si era illuso di essere pronto, ma adesso non ne era più tanto sicuro.
«Il suo sangue sarebbe una panacea per la Fiamma di Ve’Rha.»
«Perfetto! Qualcuno lo conosce? Sa chi è?» Il Sultano di Agran si rivolse ai presenti, con il suo modo frettoloso che lo contraddistingueva.
L’Arcimago Tullius e il Sommo Sacerdote fissarono entrambi lo sguardo sull’uomo che sedeva dall’altra parte del tavolo: Dun’Gar, capo della famosa gilda “I Lupi di Niihel”, nonché uno dei più potenti signori del neo Regno di Niihel, sorto da pochi decenni e che si reggeva su un gruppo di oligarchi, tra cui spiccava la famiglia di Kobin Lamarcana. Dun’Gar, però, innanzitutto, era stato capo delle guardie reali del Sultano di Agran – predecessore dell’attuale – e mandato in esilio dopo l’incidente del villaggio, 21 anni prima…
«No» disse solo Dun’Gar.
«Mio Signore, sapeva che questo momento sarebbe potuto arrivare» l’Arcimago cercò di parlargli con cautela.
«Non rivolgerti a me con epiteti che non mi appartengono, vecchio!» Dun’Gar batté un palmo sul tavolo e si alzò in piedi, era alto e dal fisico possente, nonostante sfiorasse orami le sessanta primavere. Inoltre, sebbene le temperature fossero ormai calate parecchio, lui si ostinava a portare gli abiti classici della sua gilda, comodi e freschi, dimostrando un’alta tolleranza al freddo e mettendo in risalto il tatuaggio sull’avambraccio destro: la testa stilizzata di un lupo, simbolo della sua corporazione. A entrambi i fianchi teneva due scimitarre, trattenute da una fascia rossa legata intorno alla vita. I capelli, lunghi alla nuca e quasi del tutto grigi, erano lisciati all’indietro, mentre sul viso grezzo e cotto dal sole non spuntavano peli.  
«Sappiamo tutti che il Gelo nasce da Iberia. Se il principino imberbe, lì, e la sua balia non vogliono collaborare aprendoci spontaneamente le porte del loro regno, allora sfondiamole e aiutiamo gli isolani a tornare al loro antico splendore!»
Globo scattò in piedi, la sua mano corse velocemente alla spada che teneva sulla schiena, ma Shuva lo fermò.
«Signore di Niihel, comprendiamo il suo disappunto: sacrificare un figlio non è mai cosa gradita. Eppure, se la memoria non inganna questo vecchio, il Sangue di Ve’Rha non è realmente figlio suo. Sbaglio forse?»
Dun’Gar sembrò rimpicciolirsi, strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nel palmo.
«L’Arcimago Tullius è stato così gentile da riunirci qui tutti per discutere della salvezza del Mondo e il Sommo Sacerdote ci ha espresso le sue preoccupazioni. Non solo si sono premurati di informaci, ma di darci anche una soluzione che – a detta del Gran Sacerdote – eviterebbe inutili spargimenti di sangue. Per questo motivo, inviterei tutti ad ascoltare cosa ha da dire e di trarre le nostre conclusioni alla fine. Non è d’accordo, mio Signore di Niihel?»
L’uomo del deserto fu costretto a calmarsi e si riaccomodò, senza alzare più lo sguardo. La sua mente e i suoi pensieri, inevitabilmente, corsero a quella notte di 21 anni prima, quando fu inviato dal Sultano al piccolo villaggio alle pendici di Vhulchanius, tempio della dea del Fuoco Sacro.
 
Le fiamme avevano divorato ogni cosa: case, orti, bestiame, donne, uomini, bambini. Poi, tra i crepitii del legno che ardeva e nel miasma generale che si era alzato da quel fumo scuro e acre, aveva udito i vagiti di un neonato. Non poteva crederci, era certo che fosse uno scherzo del suo inconscio, eppure l’istinto lo aveva portato a seguire quel pianto disperato e, contro ogni aspettativa, aveva trovato un pargoletto di pochi mesi completamente nudo che strillava con quanto fiato aveva in corpo, i pugni chiusi e le gambette all’aria, avvolto dalle fiamme, senza bruciare.
Subito gli aveva gettato addosso la sua divisa e, pur bruciacchiandosi le mani e le braccia, lo aveva cullato per rassicurarlo. Dopo pochi secondi, le fiamme che lo avviluppavano si erano spente. Non sapendo bene cosa fare, ma credendo che fosse un vero miracolo, aveva portato il piccolo al cospetto del Sultano, il quale ne era rimasto inorridito: quegli occhi da gatto erano uno scherzo della natura! Gli aveva ordinato di liberarsene.
«Mio Signore, in che senso liberarmene?» aveva chiesto.
«Uccidilo!»
Ma Dun’Gar, che con gli anni aveva scoperto di essere sterile, aveva accolto quel bambino come un dono divino e lo aveva cresciuto in gran segreto. Fino all’età di cinque anni, quando, durante la festa della stagione della Rinascita, il piccolo si era gettato nel falò propiziatorio che le Vestali di Ve’Rha avevano acceso, solamente per attirarne l’attenzione. La cosa aveva destato più di qualche sospetto e giunto all’orecchio del Sultano questo si era adirato fuori misura, bandendo Dun’Gar dal suo regno e mettendo a morte il piccolo trovatello. L’uomo, allora, si era rivolto al Sommo Sacerdote di Ve’Rha. Il primo discepolo della dea della Fiamma Sacra li aveva ospitati entrambi per qualche giorno e dopo ore di ricerche su vecchi tomi e qualche esperimento, aveva dedotto che il piccolo era davvero figlio di Ve’Rha. Spiegò che a volte capitava, che una delle Vestali – ancelle della dea – rimanesse incinta e desse alla luce un bambino con poteri divini, ma privi di magia. Il loro legame con la dea risiedeva esclusivamente nel Sangue, capace di rafforzare la Fiamma Sacra. Secondo alcune leggende, infatti, la I Era Glaciale era stata arginata proprio grazie al sacrificio del Sangue di Ve’Rha. Infine, l’anziano gli aveva detto che avrebbe potuto crescere il piccolo come figlio proprio, se lo avesse desiderato, a patto che un giorno – semmai fosse servito – sarebbe stato disposto a sacrificarlo per un bene più grande. Dun’Gar aveva accettato, ovviamente, seguendo inoltre il suo consiglio di portarlo all’Accademia di Valldysi, dove l’Arcimago avrebbe sicuramente saputo come fare per evitare che il bambino continuasse a giocherellare con il fuoco, richiamando su di sé attenzioni non gradite.
«I suoi occhi però non sono comuni, cosa mi inventerò?»
«Sono gli occhi della dea» aveva risposto il sacerdote, indicando la statua di Ve’Rha che troneggiava alle sue spalle. La dea, bellissima nelle sue nudità velate da alte fiamme, teneva le palpebre semichiuse, mascherando le pupille. «Solo ai più fortunati concede la visione dei suoi occhi di drago, il più antico dio del Fuoco Sacro.»
Dun’Gar aveva quindi accompagnato il bambino all’Accademia di Valldysi e qui l’Arcimago Tullius gli aveva donato delle rune incantate da mettere addosso al piccolo, in modo da neutralizzare il potere del suo Sangue.
«Bada, onorevole Dun’Gar, sono potenti rune della Luce, un utilizzo incauto potrebbe comportare lesioni profonde e imprevedibili.»
Dun’Gar disse di non preoccuparsi: suo figlio sarebbe stato un uomo avveduto e ponderato.
 
«Mio Signore Dun’Gar, mi ascolta?»
Dun’Gar sembrò risvegliarsi da un sogno a occhi aperti, Tullius se ne rese conto e perciò ripeté la domanda:
«Abbiamo bisogno di sapere dove si trova in questo momento il Sangue di Ve’Rha.»
«Non ne ho idea e anche se lo sapessi non ve lo direi. Cercatevelo da soli mio figlio!»
«Quindi qual è il piano? Troviamo il ragazzo, lo convinciamo a venire al tempio della dea, e poi? Gli conficcate un pugnale nel cuore, due goccioline del suo sangue e il calore invaderà il mondo fino a sciogliere i ghiacciai del Nord?» Kobin pronunciò quelle parole tutte d’un fiato, senza respirare.
«Un’antica pergamene contiene le parole sacre della cerimonia, senza di esse a nulla servirà il Sangue di Ve’Rha.» Il Sommo Sacerdote sospirò. «Ma non siamo sicuri di dove si trovi.»
«Splendido! Idee?» Continuò ancora Kobin Lamarcana.
«Le mie discepole sono specializzate nella ricerca di manufatti antichi» disse la Din Nadair e tutti la osservarono. «Potrei mettere su una spedizione nel giro di pochi giorni.»
«Non basta» aggiunse il Sacerdote. «La pergamena è legata al Sangue di Ve’Rha, è solo con la sua presenza che si manifesterebbe.»
«Il Sangue di Ve’Rha è a Magena» Vermyl parlò dopo aver taciuto per diversi minuti, mascherando bene il dispiacere di aver fatto un torto a Dun’Gar. Non si potevano definire amici, ma erano due uomini dal forte temperamento che si rispettavano a vicenda.
Berenise si alzò, il lungo mantello verde scivolò sinuoso fino al pavimento:
«Lasciate che me ne occupi io. I vostri regni sono già molto provati a causa del Grande Gelo, le mie discepole sono giovani, abili e discrete. Sapranno muoversi senza disturbare nessuno.»
«Vermyl, come fai a saperlo?» Seduto di fronte a lui, il reggente di Iberia lo fissò assottigliando gli occhi. Il Re di Magena fu tentato di fargli notare che nel suo regno chiunque non si rivolgesse a lui con il giusto rispetto era un potenziale condannato ai lavori forzati, ma scelse la via della diplomazia: era nervoso e voleva tornare a casa.
«È in missione per me con alcuni membri del suo clan» attese che Dun’Gar lo guardasse, ma il capo dei Lupi non lo fece, sembrava sovrappensiero. «Tra l’altro, ho sentito dire che è bravo a mettersi in bella mostra…» Vermyl cercò di far sorridere l’uomo di Niihel. «Mi dispiace Dun’Gar, è per il bene di tutti.» Aggiunse infine, intanto che l’altro stava lasciando l’Arcaneum.


 
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CAPITOLO
PƦIMO
 
 
Il padrone della locanda “L’allegro Viandante” era un uomo di mezza età, ma ne dimostrava almeno quindici in più. Era rozzo e tarchiato, con una circonferenza che sbilanciava il baricentro in avanti e cozzava con il grembiule sudicio contro il bordo del bancone di legno. Dalle labbra strette spiccavano denti ingialliti dal tabacco e corrosi dall’idromele di pessima qualità che beveva e spacciava per ottimo sidro ai suoi clienti. Contò velocemente le monete che aveva incassato, spostandole dal cassetto alla borsa di tessuto nascosta sotto al grembiule, le mani erano grosse e impacciate, con folti peli scuri che spiccavano sul dorso delle dita. Quando ebbe finito, sollevò lo sguardo e studiò il locale vecchio e malandato, quella sera stranamente affollato. A dire il vero, erano diverse sere che i suoi tavoli si riempivano, soprattutto di uomini provenienti da Est. Lui lo sapeva che non era gente per bene, quelli come loro non si allontanavano mai dal Deserto se non per denaro, inoltre si muovevano sempre in gruppo, come un branco di… lupi! Ecco la parola giusta: sembravano tanti lupi in cerca di qualcosa… o qualcuno. 
Uno di loro, in fondo alla sala, lo richiamò con un fischio, mostrandogli il boccale a testa in giù in un gesto eloquente: voleva ancora da bere. Il locandiere gli fece cenno di aver inteso, poi si voltò di spalle per riempire un nuovo bicchierone, chiamando a gran voce sua figlia Karthia. Adagiò il boccale sul bancone e attese di vederla spuntare fra i tavoli, ma ciò non accadde. La chiamò ancora, più forte. Niente. Si affacciò nella cucina, dove trovò sua moglie alle prese con la cottura allo spiedo di un paio di conigli scuoiati. Le chiese se avesse visto Karthia, ma la donna gli rispose in malo modo e lui fece dietrofront. Scese velocemente le scale della cantina, imprecando a denti stretti che se l’avesse trovata lì sotto, a perdere tempo con stupidaggini da donna – come imparare a leggere – un paio di frustrate con la cinghia di cuoio non gliele avrebbe tolte nessuno. Tuttavia, la ragazza non era neanche in cantina. Risalendo i gradini, non senza una certa fatica a causa del peso, guardò il soffitto e si rese conto di essere stato uno stupido a non averci pensato prima: di sicuro la figlia si era chiusa nella propria stanza a leggere storie sdolcinate che le facevano male al cervello.
 
Le labbra carnose di Karthia si distesero in un sorrisetto malizioso mentre gettava la testa all’indietro e lasciava che lui la incastrasse tra il muro e la toilette sgangherata. Gli passò un braccio dietro la nuca e lo tenne ben stretto, in modo che capisse di dover continuare a baciarle il collo. Si sentiva euforica, le sembrava di vivere una delle scene che aveva letto decine di volte nei suoi libricini, quelli che narravano di bellissime fanciulle vergini salvate dall’eroe aitante e libidinoso di turno. Voleva essere come una di quelle protagoniste: sottratta all’orco cattivo – suo padre in questo caso – e diventare la moglie di un principe esiliato. Dell’Est, magari.
Con la mano libera, afferrò il turbante che copriva la testa del suo misterioso eroe e lo tirò via, rivelando riccioli castani e una ciocca colorata che gli ricadeva oltre il collo, fino a poggiare sul tatuaggio al centro dello sterno, messo in risalto dalla camicia bianca e sbottonata. Con le dita gli sfiorò il disegno nero sul petto liscio:
«Che cos’è?» Gli chiese.
«Un lupo affamato» fu la risposta.
Lei ridacchiò:
«Affamato di cosa?»
«Secondo te?!» Il ragazzo increspò le labbra e le strizzò l’occhio. Karthia allora si arrotolò la ciocca colorata intorno alla mano per attirarlo a sé, sfiorandogli le labbra con le proprie intanto che lo studiava.
«I tuoi occhi sono diversi.» Gli sussurrò quasi ansimando.
«È un problema, mia signora?»
«Assolutamente no!» Così dicendo lo baciò con foga e lui non si fece pregare: premendole una mano sui reni, per avvinghiarla a sé, con l’altra le accarezzò i seni, pieni e maturi, di una donna non vecchia, ma neppure più giovanissima quanto lo era lui. Avvertì l’eccitazione di lei crescere e decise di scendere un po’ più giù, appena sotto l’ombelico, quindi con delicatezza estrema trovò la tasca anteriore del grembiule, indossato al di sopra dell’ingombrante veste, e vi infilò le dita, pescando qualche moneta che furtivamente lasciò cadere nelle tasche del proprio pantalone. Tutto ciò, mentre continuava a baciarla tenendola contro la parete. Con la stessa mano risalì la scalata, un’altra palpatina al seno prima di chiuderle il palmo intorno al collo. Karthia ansimò al tocco delle sue dita calde, ormai sfinita da tutto quel piacere che prometteva di arrivare e non arrivava mai al culmine, gli afferrò il polso e se lo portò al di sotto della gonna:
«Prendimi, mio principe straniero, prendimi sub-»
«Karthia!»
La voce roca del locandiere tuonò in tutta la stanza. La sua espressione era un misto di rabbia e dispiacere profondo, gli occhi già arrossati di natura si riempirono di lacrime d’ira.
«Ops!» Esclamò il ragazzo, allontanandosi da Karthia un attimo prima che il genitore potesse colpirlo con la sedia.
«No, padre! Ti prego!» La fanciulla si aggrappò al braccio grasso di lui, cercando di fermarlo. Ma il locandiere l’allontanò da sé con una spinta e la figlia cadde supina sul letto alle sue spalle.
Il ragazzo, intanto, era balzato sul davanzale della finestra, ora spalancata e attraverso la quale soffiava una leggera brezza fresca. Troppo fresca, considerando che si trovavano nella stagione della Stella Lucente.
«Brutto demone maledetto! Vieni qui!»
«Padre… padre… ti prego!» Karthia era quasi alle lacrime, si portò le mani al collo per stringere l’amuleto della dea dell’Amore e non lo trovò. «Oh, per la dea De’bhella! La mia collana!» Sollevò lo sguardo in direzione del misterioso principe e vide la sua ametista ciondolare tra le dita di quell’impostore. «Brutto demone maledetto!» Esclamò, così simile a suo padre che al ragazzo vennero i brividi pensando a ciò che stavano facendo fino a qualche minuto prima. Comprese che era arrivato il momento di togliere il disturbo, perciò si acconciò il turbante sulla testa e si coprì il volto, salutando padre e figlia con un cenno delle dita si gettò nel vuoto. Il locandiere si affacciò alla finestra e lo vide fuggire sui tetti, allora urlò con quanto fiato aveva in corpo di prenderlo, di ammazzarlo: aveva offeso la sua innocentissima bambina e derubatala anche! Karthia gli fece subito eco.
 
Alcune guardie, che erano di ronda durante l’ora della Stella Nera, accorsero alle urla del locandiere e immediatamente si misero a rincorrerlo. Una di loro si fermò a prendere la mira, tese l’arco e scagliò una freccia che non lo colpì, ma lo fece inciampare nei suoi stessi piedi. Il ragazzo saltò sul terriccio inumidito dalla brina serale e riprese la sua corsa, portandosi due dita alla bocca per fischiare, ignorando gli ordini delle guardie di fermarsi in nome del Re di Magena. Di nuovo l’arciere scagliò un paio di frecce che tuttavia non lo sfiorarono neanche, ma dal buio di un vicolo cieco vide spuntare una bestia dagli occhi rossi e le zanne feroci che gli atterrò addosso. La guardia cadde a pancia in giù, lasciando la presa sull’arco che fu calpestato dalle altre sentinelle, poi si voltò per capire cosa lo avesse aggredito: si trattava di un lupo.
La bestia corse veloce fino a raggiungere il suo padrone, quest’ultimo gli fece un occhiolino a mo’ di complimento per l’effetto sorpresa. Il lupo ululò soddisfatto. Ormai le porte della città erano vicine, si scorgevano chiaramente. Il ragazzo sapeva che non le avrebbe mai oltrepassate indenne: le sentinelle di guardia erano già in allerta, pronte ad acciuffarlo. Non gli andava di combattere o di dover riconsegnare il bottino che si era guadagnato con tanto sudore…
«A sinistra, Màs!» Allargò il braccio e il lupo seguì l’indicazione, mentre lui virava a destra. Le sentinelle lì per lì rimasero immobili, non sapendo bene quale ombra seguire, poi il gruppo di guardie che era alle calcagna del ragazzo ordinarono loro di aprire immediatamente le porte!
Proprio come ricordava, c’erano alcuni massi che si erano staccati dalle mura di cinta del villaggio e li utilizzò per arrampicarvisi e saltare dall’altra parte. Si fermò per qualche istante lassù, a guardare il cielo e ad attendere di intravedere Màs al sicuro oltre i confini del paesello.
«Non c’è paragone con il cielo di Niihel, spiacente!» Constatò, notando poi la figura del lupo saltò dall’altra parte e atterrò con grazia.
Nonostante pensasse di essersela cavata egregiamente, come sempre, si ritrovò quattro bastoni magici puntati contro. Il ragazzo dell’Est rimase fermo, gli occhi felini puntati sulle due figure che lo fronteggiavano, senza contare le altre alle spalle. Le osservò per qualche secondo, indossavano lunghi mantelli verdi e il cappuccio calato sul capo: Din Nadair.
«Non sapevo che le incantatrici collaborassero con le guardie reali.» Sorrise beffardo, conscio del fatto che le maghe non erano ben viste nel Regno governato da Re Vermyl.
Un cavallo dal lucente manto ambrato avanzò lento e sinuoso, dall’alto della sua groppa se ne stava una donna con la schiena dritta e le fattezze di una dea. Acconciandosi il cappuccio del mantello sulle spalle rivelò un viso di porcellana e una folta treccia bionda, lunga e morbida fin oltre il seno. Una donna così bella e raffinata il ragazzo non l’aveva mai incontrata prima, neanche nel reame di Agran.
«Gar di Niihel?»
«Chi lo cerca?»
«Sono Emeryl Astoria ver Haret.»
Il ragazzo fischiò:
«Una nobildonna»
«Devi venire con noi. La Màthayr ti attende.» Emeryl tirò le redini del suo destriero per farlo voltare, convinta evidentemente che lui l’avesse seguita senza controbattere, o semplicemente più abituata a non sentirsi dire di no.
«Sono davvero rammaricato, mia signora Emeryl, ma non credo accetterò l’invito.»
Lei si girò di scatto, il volto inespressivo di prima aveva lasciato spazio a totale incredulità.
«Grazie lo stesso. E ringrazi la màtira.» Fece per andarsene.
«Màthayr!» Lo corresse Emeryl, il tono infastidito dalla sua impertinenza.
Le altre Din Nadair si strinsero ancor di più intorno a lui e fermarono Gar al secondo passo. Il ragazzo sospirò in maniera plateale.
Intanto, le porte della città si erano schiuse il necessario per consentire al gruppetto di guardie di raggiungere l’esterno.
«In nome della legge di Magena e di Re Vermyl, ti dichiaro colpevole dei seguenti delitti» l’uomo in divisa si schiarì la voce, poi sollevò lo sguardo su Emeryl e sbiancò. «Ma-ma tu-tu…»
Emeryl agitò velocemente il suo bastone e tutte le sentinelle caddero al suolo, profondamente addormentate.
Gar fischiò di nuovo, sorpreso.
«Deve essere comodo saper fare una cosa del genere. Complimenti davvero. Ci vediamo, allora.» Le rivolse un occhiolino e di nuovo tentò di andarsene. E di nuovo fu fermato. Ormai il cerchio intorno a lui si era stretto di molto.
«Mi dispiace, non posso lasciarti andare.» Disse Emeryl, dall’alto della sua sella.
Gar sembrò soppesare le alternative che aveva – poche – e alla fine esclamò:
«Non mi lasci altra scelta, mia signora» roteò sul posto e si abbassò allungando un piede per colpire una delle incantatrici, la quale cadde da seduta. Le altre brandirono il proprio bastone, bisbigliando fra le labbra parole incomprensibili, ma Gar si portò le dita alla bocca e fischiò. Màs spuntò dal nulla e con un balzo atterrò sopra una di loro e la tenne d’occhio. Il cavallo di Emeryl s’innervosì vedendo il lupo e fece per disarcionarla, perciò la Din Nadair dovette sussurragli parole in una lingua antica per calmarlo. Nel frattempo, Gar aveva sguainato la scimitarra che teneva lungo il fianco sinistro e in un attimo tutto divenne così bianco, così chiaro e luminoso che i presenti furono costretti a schermirsi gli occhi per non rischiare di accecarsi.
Anche Emeryl si coprì il viso con un braccio e quando quel bagliore si attutì abbastanza da poter sbirciare, lentamente la scena di Gar che teneva in ostaggio una consorella le si mostrò davanti.
Sebbene la Madre Superiora l’avesse rassicurata che il figlio di Dun’Gar non era un ragazzo cattivo, vedere una Din Nadair in pericolo le fece riaffiorare alla mente ricordi e sensazioni non proprio piacevoli, ossia i corpi esamini delle sorelle che erano partite in missione con lei. Anche quella lì non era stata classificata come missione pericolosa, eppure erano tutte morte… eccetto lei.
«Adesso posso essere libero di andare, mia signora?»
La ragazza sentì un turbinio di emozioni montarle dentro, la paura però prevalse su tutte, poi quella sensazione di perdere i sensi la pervase: non era come svenire, piuttosto le pareva di entrare in trance. Allargò le braccia e inclinò leggermente il capo all’indietro, le pupille sbiancarono e sopra le loro teste cominciarono ad addensarsi nubi che prima non c’erano.
«Ma che diamine…?» Gar di Niihel sollevò lo sguardò, sembrava che stesse per scatenarsi una tempesta.
«No, Emeryl! Fermati!» L’incantatrice, che il ragazzo teneva in ostaggio con un pugnale alla gola, allungò le braccia nella speranza di rassicurare la consorella.
Poi qualcuno colpì Gar alla nuca, un colpo secco e mirato che gli fece perdere i sensi. Emeryl tornò in sé, le nubi si diradarono e gli occhi azzurri ripresero a guardare il mondo che la circondava. Kewst, il mercenario assoldato – incomprensibilmente – da Berenise, si stava caricando sulle spalle il giovane del Deserto, simile a un sacco.
«Andiamo.» Disse.
«E di lui cosa ne facciamo?» Emeryl chinò lo sguardo sul lupo che ringhiava, pronto a difendere il suo padrone.
«Addormentalo».



 




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