In memoriam

di Aaeru
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La notizia era arrivata anche laggiù, fra i ghiacci di Semipalatinsk, dove d'inverno il piscio ti si gelava addosso prima ancora di aver abbassato le brache. 

La prima reazione, idiota, era stata grattarsi la nuca, come se scavare nel solco  tra i tendini che gli reggevano la testa gli avrebbe permesso di trovare un sollievo al dolente rammarico che l'aveva preso. 

Rammarico, sì, perché era difficile parlare di autentico dolore per la perdita di qualcuno che non si è nemmeno certi sia mai stato realmente vivo: Jakov Petrovič Butkov era un'ombra, uno spettro comparso, all'improvviso, in un’agghiacciante mattina di inizio gennaio 1840, per bussare alla porta dell’editore Andrej Kraevskij ed elemosinare un posto tra i giovani e gagliardi rappresentanti della scuola gogoliana di Vissarion Belinskij.  

Non aveva famiglia, né data di nascita, né titoli di studio, soltanto le suole delle sue galosce consunte fino ad esporre falangi e metatarsi, erano risultate testimonianza attendibile dell’incredibile pellegrinaggio che lo aveva condotto da un’ignota cittadina del governatorato di Saratosk  a San Pietroburgo. 

Quello era stato il primo e ultimo atto di audacia di una natura timida e mite fino al parossismo, consapevolmente piegata al proprio ineluttabile destino di vittima dell’esistenza.

Butkov non scriveva  semplicemente dei “piccoli uomini” di San Pietroburgo, Butkov era uno di loro: infantilmente felice per un compenso di pochi rubli, eternamente in debito con Kraevskij, che lo pagava una miseria per non liberarlo mai, candidamente ossequioso persino nei confronti di quei colleghi che lo schifavano per il suo essere così oscenamente simile ai protagonisti delle loro narrazioni. O, magari,  si trattava di  una mera questione di invidia strisciante, dal momento che Bulgarin aveva definito il talento di Jakov Petrovič superiore addirittura a quello di Gogol’. Vero è che Belinskij si era affrettato a riequilibrare il giudizio definendolo un “talento ordinario” (per tema di qualche defezione?)

Al contrario, lui,  Fёdor Michajlovič Dostoevskij, aveva sempre voluto trattare con rispetto quell’anima pura, unicamente colpevole di essere nata senza zanne, né artigli né una pelliccia consistente per sopravvivere nella taiga dell’editoria russa. Aveva subito il fascino inconsapevole di quel carattere balzachiano al punto di prenderne spunto per diversi personaggi negli anni verdi della propria produzione artistica. E, nel momento di rottura con Belinskij, aveva battezzato il primo della sua nuova genealogia di (anti)eroi nientemeno che Jakov Petrovič Goljadkin. 

Nome e patronimico ben poco fortunati, a ripensarci, considerando che Goljadkin finisce in manicomio e Butkov… Butkov, beh,  era morto di stenti, solo come un cane, dimenticato da tutti.  Forse Jakov Petrovič avrebbe fatto bene a dar retta a Belinskij, che si ostinava, protervo, a chiamarlo “Sergej” argomentando che l’altro non aveva una faccia da “Jakov” e, pertanto, avrebbe certamente giovato alla sua carriera artistica adottare lo pseudonimo da lui suggerito.  Dal canto suo, Butkov, aveva mormorato in risposta un flebile: “Preferirei di no”. Dopotutto, quelle tre parole erano l’unica certezza in una vita dominata dalla precarietà. 

Se Fёdor Michailovič  fosse stato ancora nella capitale, anziché confinato in quella cittadina sperduta della Siberia, gli avrebbe impedito di crepare in solitudine in una fredda camerata di ospedale, regalandogli almeno la magra consolazione della propria presenza. Ma la vita carogna aveva negato pure questa carezza a Jakov Petrovič.  

 Non rimaneva che una cosa da fare. Fёdor Michajlovič afferrò penna e calamaio, la mano cominciò a tracciare linee sottili e fitte sul foglio intonso:

La sera del ventidue marzo dell'anno scorso mi è accaduta un'avventura assai strana. Avevo passato la giornata a girare per la città in cerca d'un alloggio…*


* Incipit del romanzo "Umiliati e offesi"





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