Vincoli Oscuri

di Zobeyde
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MENTITE SPOGLIE

 
 
Sarajevo, maggio 1914
 
La donna, conosciuta come “Dama Velata”, sedeva in poltrona accanto alla finestra, al terzo piano dell’elegante palazzina che lei e l’uomo che si faceva chiamare visconte Roman condividevano sulla Ferhadija; da quella postazione poteva ammirare l’intricato dedalo di vie tortuose e i chiassosi bazar d’impronta ottomana, affiancati da raffinate architetture Art Nouveau.
Era uno dei segni più evidenti dell’annessione all’Impero asburgico, che si era ripromesso di fare di Sarajevo una moderna città occidentale, dotandola di elettricità, tram e cattedrali, sorte accanto a moschee e madrase[1].
Un rumore di passi distolse la donna dalla contemplazione del variegato panorama urbano e il visconte Roman annunciò il suo arrivo in salotto col consueto: «Buongiorno, golubice moja[2]. Come ti senti, stamattina?»
«Dove sei stato?» scattò lei, decisa a mantenersi sulle sue. Sentiva l’odore del vino dall’altro capo della stanza. «È tutto il giorno che sei sparito!»
«Dovevo incontrare delle persone.» Lui sfilò maldestramente il cappotto e lo consegnò a una cameriera, che sparì in fretta dietro una porta a vetri. «Vecchi compagni di facoltà. Ah, ne sono arrivati altri!»
Eccolo che riprovava a cambiare argomento. Zora detestava quando si comportava così.  
Infastidita, lo osservò avvicinarsi al tavolo del soggiorno, invaso da giganteschi bouquet di fiori freschi accompagnati come al solito da una valanga di lettere e biglietti; ogni giorno ne arrivavano così tanti che i domestici non sapevano più dove metterli.
L’uomo aprì una busta e ne scorse rapidamente il contenuto. «“Alla straordinaria Madame Salomé, come umile ringraziamento per il conforto donatomi nei giorni più difficili. Per sempre vostro debitore, Adrik Nazyalensky, granduca di Udova”. Un granduca, hai sentito? Sembra che tutta l’aristocrazia russa ti veneri come una santa!» Molto soddisfatto, mise via il biglietto e ne esaminò un altro. «Chissà se ce n’è anche uno di quell’odioso ambasciatore ungherese, Szapáry.»
«Non sembra il genere di uomo che spedisce fiori alle donne» rispose Zora, con voce atona. «Sembra più il genere che manda a casa loro il fisco.»
«A me era parso parecchio impressionato» obiettò il visconte. «Come facevi a sapere del fratello morto? Non era nel suo fascicolo.»
Zora abbassò lo sguardo sul tavolino di fronte alla poltrona, dove aveva accuratamente disposto un ventaglio di vecchi tarocchi marsigliesi, consumati e sbiaditi.
Il tour russo li aveva risucchiati in un vertiginoso vortice di eventi, ma tra esibizioni, balli e cene, l’incontro con l’ambasciatore era sempre stato lì, in un angolo della mente di Zora: ormai le riusciva facile leggere le persone, poiché ogni cosa in loro, dal portamento, ai vestiti che indossavano, persino il modo in cui pettinavano i capelli raccontava una storia su chi erano, da dove provenivano e, soprattutto, che cosa li tormentava.
Quel conte Szapáry non faceva eccezione, così come la sua frigida e scialba moglie. Eppure, c’era qualcosa in lui che continuava a non tornare, come i pezzi di un ingranaggio che non volevano saperne di incastrarsi.
«L’ho intuito» rispose a Roman. «Quando sua moglie ha espresso il desiderio di parlare col figlio morto, lui ha avuto una reazione insolita, come se non fosse neanche figlio suo: da ciò ho dedotto che la sua scomparsa lo abbia lasciato alquanto indifferente. Ragiona come un nichilista, ma lo infastidisce avere a che fare con l’aldilà, quindi, ha comunque perso qualcuno di importante.»
Mentre parlava, fece scorrere i tarocchi tra le mani, guardandoli sovrapporsi fra loro come onde.
«Maneggiava in modo ossessivo un orologio» continuò. «Gli ho dato un’occhiata veloce, ma sembrava un vero pezzo da museo. Un cimelio di famiglia, probabilmente un regalo. Una donna gliene avrebbe comprato uno nuovo, perciò deve averlo ricevuto da un uomo, qualcuno che aveva con quell’oggetto un forte legame. Non il padre, dalle informazioni che mi hai passato, Szapáry ci parlava a malapena. Per esclusione, uno zio o un fratello.»
«E il fatto che è morto in giovane età?» chiese Roman.
Con un movimento fluido, lei dispose i tarocchi sul tavolino, formando un arco perfetto. «Ho tirato a indovinare. In genere le morti che colpiscono i giovani sono quelle che segnano di più, proprio perché inaspettate.»
«Sorprendente» commentò lui, colpito. «Sembra proprio che l’allieva abbia superato il maestro.»
Zora non fece commenti. Rivoltò invece una dopo l’altra le carte, interrogandone le figure. Le domande che poneva loro erano sempre le stesse da anni, e anche questa volta la risposta non variò: Sette di Bastoni, un amore travolgente e passionale. La Ruota della Fortuna, un cambiamento improvviso, spaventoso quanto eccitante. Il Re di Denari, bisogno di protezione, stabilità. Il Diavolo, pericolo in agguato. E infine, sempre lui, l’Appeso: un nodo di situazioni intricate ancora da svolgere.
Attraverso quelle carte, Zora ripercorreva la propria vita ancora e ancora, fin dal giorno in cui aveva incontrato il suo partner, ma ancora non riusciva a vedere più lontano di così. Dove l’avrebbe portata la strada che aveva deciso di intraprendere? Avrebbe trovato ciò che cercava? Ma soprattutto: era felice?
C’era stato un tempo in cui avrebbe affidato a quell’uomo la propria vita, e in un certo senso, era stato così: quell’affascinante visconte Roman Vukčić Kosača, dalle spalle larghe, i folti capelli neri che si arricciavano appena sopra il colletto della camicia e gli occhi di gemma altrettanto nera, nelle cui vene, però, non c’era neppure una goccia di sangue nobile e che non si chiamava neppure Roman.
Krsta Grabež, era quello il suo vero nome, ma anche lui aveva dovuto reinventarsi totalmente, proprio come aveva fatto Zora. D’altronde, il figlio di un umile pastore ortodosso di Pale[3] non sarebbe mai riuscito neanche a farli entrare a San Pietroburgo. Ma il visconte Roman Vukčić Kosača poteva farlo, questo e molto altro: con la promessa di un favore qua e uno là, erano riusciti a imbucarsi al Gran Palazzo, dopodiché, un’entrata in scena ad effetto, la fluente parlantina di Krsta, tipica di un ex studente di Legge e le doti teatrali di Zora avevano svolto il resto del lavoro, facendo dimenticare a tutti che i loro nomi non fossero sulla lista degli invitati.
Per lui, Zora aveva rivoluzionato il suo intero mondo, sulla base di semplici promesse…promesse che, a dirla tutta, Krsta aveva mantenuto: il giorno in cui si erano incontrati le aveva detto di aver lasciato l’Università di Belgrado dopo pochi mesi per lavorare in una tipografia a Sarajevo, e che la trovava bella come la Madonna di Antonello da Messina.
Zora all’epoca aveva diciotto anni, rubacchiava nei bazar coi suoi cugini per mettere qualcosa nello stomaco, e di questo Antonello da Messina non le fregava proprio niente, ma Krsta poi le aveva offerto il pranzo e aveva aggiunto che non le avrebbe mai più fatto patire la fame, che le avrebbe comprato una casa e dei bei vestiti, che l’avrebbe resa qualcuno…e lo aveva fatto, nel giro di soli quattro anni.
Le aveva affibbiato un nuovo nome – il suo sarebbe suonato troppo “islamico” nei raffinati salotti europei – e le aveva insegnato un’arte, quella di rubare i segreti delle persone con un semplice sguardo. E soprattutto, le aveva dato qualcosa che non avrebbe mai pensato di poter ottenere: il potere di decidere cosa fare della propria vita.
Senza Krsta, Zora sarebbe rimasta una piccola zingara affamata e non la proprietaria di un intero palazzo, con un cuoco, un autista e tre cameriere al suo servizio. Avrebbe sposato quell’idiota di suo cugino Zarif, oppure un allevatore col triplo dei suoi anni, avrebbe sfornato per lui un branco di marmocchi e sarebbe invecchiata prima del tempo. Invece, adesso era Madame Salomé, la Dama Velata, permeata di mistero e magia.
Lei e Krsta avevano costruito quell’impero di bugie insieme, mattone dopo mattone e…adesso, lui torceva quelle stesse bugie contro di lei, sparendo per intere giornate senza preoccuparsi di dirle dove fosse, con chi, e a che ora sarebbe tornato…
Sentì le sue mani posarsi sulle spalle e riuscì a trattenere a malapena un sussulto involontario. «Hai bisogno di un mazzo nuovo» disse lui, sbirciando i suoi tarocchi. «Che figura ci facciamo a presentare ai clienti quelle vecchie cartacce? Te ne procurerò uno illustrato da Alfons Mucha[4] in persona. Che ne pensi?»
«Penso che questo mazzo vada bene così com’è.» Zora raccolse gelosamente le carte e le infilò in fretta in un sacchetto di velluto nero. «E poi, lo sai che leggo solo per me stessa.»
«É un peccato» commentò lui, sospirando. «Farsi fare le carte non va più di moda come un tempo, ma c’è sempre qualcuno che dimostra interesse.»
«Non avevamo stabilito che avremmo selezionato la clientela?»
Krsta si allontanò, lasciandosi cadere sul sofà. «Bisogna scendere a compromessi ogni tanto, lo sai.»
Sì. Lo so molto bene. Stavolta fu Zora a deviare il discorso: «Che programmi abbiamo oggi?»
Lui tirò fuori dalla tasca l’agenda, gonfia all’inverosimile di appuntamenti, e la sfogliò. «La vedova di un banchiere prussiano, vive dall’altra parte della città. È inconsolabile! L’ho avvertita che siamo al completo fino ad agosto, ma è disposta a pagare il doppio della tariffa se ci presentiamo da lei per l’ora del tè.» Sogghignò tra sé, mentre giocherellava con la stilografica. «Scommetto che vuole sapere la combinazione del caveau del marito.»
Zora fece una smorfia. «Che altro?»
«Stasera una società esoterica ci ha chiesto di presenziare a un ciclo di incontri letterari intitolati Metaphysika. Ma io eviterei, considerando com’è andata l’ultima volta. Potrebbero esserci degli imbucati.»
Zora si trovò d’accordo: erano diventati molto prudenti riguardo quel genere di eventi, da quando, durante un’esibizione in un piccolo teatro a Parigi, un tizio tra il pubblico aveva iniziato a dimostrarsi molesto nel tentativo di smascherare il “trucco” dietro la sua performance, costringendo Krsta a chiamare la sicurezza e farlo sbattere fuori. Il mattino dopo, Le Figaro aveva raccontato che si trattava di un investigatore dell’occulto americano, un “cacciatore di medium”, come li chiamavano nell’ambiente. In genere si trattava di arroganti uomini di scienza, oppure di illusionisti con anni di escamotage alle spalle, che si vantavano di riuscire a svelare qualsiasi tipo di imbroglio.
Nonostante Zora e il suo manager negli anni avessero dimostrato di essere sempre un passo avanti a loro, non potevano permettersi di abbassare la guardia. Non ora che l’alta società russa li aveva notati, garantendo loro la protezione di un potente alleato, ma anche parecchi occhi indesiderati sempre puntati addosso.
«Vada per la vedova del banchiere, allora.»
La seduta si portò avanti come di consueto: una volta giunti alla villa della vedova von Archenholz, in cima a una collina appena fuori città, Krsta fece le dovute presentazioni e la padrona di casa li guidò in un salottino raccolto, dove venne servito del caffè nel tradizionale pentolino di rame. La vedova indossava ancora il lutto e si soffiava continuamente il naso con un fazzoletto ornato di pizzo. Quanta ostentazione! pensò Zora, ringraziando il velo di tulle che nascondeva la sua espressione. E dire che gli attori qui dovremmo essere noi!
Sedettero tutti insieme attorno a un tavolo rotondo, e Krsta chiese cortesemente di far spegnere le luci e chiudere le tende, in modo che la stanza fosse rischiarata unicamente da un candelabro a centro tavola. Perché gli spiriti, si sa, non amano agire sotto i riflettori.
Partirono col solito repertorio: Madame Salomé prese le mani della vedova tra le sue, si concesse qualche minuto per auto indursi in uno stato di trance, dopodiché cominciò a snocciolare qualche informazione intima sulla coppia, informazioni che Krsta aveva provveduto a raccogliere giorni prima in giro, da domestici e vicini pettegoli al mercato. Una volta ottenuta l’indiscussa fiducia della donna, Zora iniziò a parlarle come se su quella sedia fosse seduto il defunto marito, Hans. La vedova, ovviamente, ci cascò con tutte le scarpe e si profuse in una scenata a dir poco patetica, tra lacrime e singhiozzi, arricchiti di tanto in tanto da grida isteriche del tipo: «Perché! Perché mi hai abbandonata, amore mio?!»
Zora ormai ci aveva fatto il callo. La cosa positiva era che, coperta da tutti quelli strati di stoffa, in quei frangenti aveva la possibilità di diventare invisibile.
Per la gente lei non era niente, in fin dei conti, solo un ponte verso affetti perduti a cui continuavano a rimanere disperatamente aggrappati. Per questo Krsta le imponeva di portare sempre il velo, a ogni seduta: aumentava l’illusione che non fosse una persona in carne e ossa, ma un’entità astratta, inconsistente. Proprio come i fantasmi che faceva credere di poter evocare.
“Non prova nemmeno un po’ di rimorso nel vendere false speranze a quella povera gente?”  le aveva chiesto l’ambasciatore Szapáry, quella sera a San Pietroburgo. Zora aveva negato, in maniera civettuola e arrogante, come si mostrava sempre agli scettici come lui, come se le critiche facessero parte del gioco.
Ma anche quella, come tutto nella sua vita, era una menzogna. Soprattutto all’inizio, stava male sul serio per quelle persone distrutte dal dolore. Aveva visto uomini grandi e grossi andare in pezzi per essere sopravvissuti a un figlio, aveva vissuto il dolore in ogni sua stagione e sfumatura, da quello vero e intimo, a quello sfacciatamente studiato.
C’erano volte in cui sentiva il folle impulso di afferrare per le spalle chi si trovava di fronte, scuoterlo e urlare: “Brutto idiota, è tutto un raggiro, come fai a non rendertene conto? I morti non parlano!”. Ma riusciva sempre a metterlo a tacere: se quella gente era disposta a pagarli profumatamente per illudersi che i fantasmi esistessero, allora lei avrebbe dato loro i fantasmi.
Vista la cifra che la vedova aveva promesso, Krsta propose di arricchire la performance di Zora con qualche “extra”, come sempre quando si trattava di clienti facoltosi: levitazione di oggetti, porte che sbattono, candele che si spengono. E chissà, persino materializzazione di ectoplasma.
Ecco, quella era la parte difficile e Zora non mancò di farlo notare al socio pestandogli un piede da sotto il tavolo.
I primi tempi, quando ancora cercavano di farsi un nome offrendo sedute gratuite nelle fattorie dei dintorni, e sedevano in cucine sudice dove galline e maiali entravano e uscivano a loro piacimento, era Krsta a occuparsi di quel tipo di “effetti speciali”. Solitamente, portavano con loro un complice, un ragazzetto raccattato nei campi, a cui per pochi spiccioli veniva chiesto di bussare contro la parete, spostare oggetti approfittando della distrazione dei presenti, bisbigliare cose da dietro le porte.
Man mano che aumentava lo status sociale dei clienti, anche le loro performances richiedevano un certo grado di sofisticatezza, per cui presto dovettero abbandonare certi trucchi da fiera e ingegnarsi per escogitare altri sistemi. Si esercitavano per ore, studiando nei minimi dettagli il palcoscenico ideale: ed era stato durante una sessione di prove particolarmente frustrante, col fiato sul collo della stampa e delle autorità e alte aspettative della clientela sempre più esigente sulle spalle, nel pieno di un acceso litigio, che Zora aveva scoperto di saper, effettivamente, animare gli oggetti.
Era stato uno shock per lei quanto lo era stato per Krsta. Uno specchio affisso alla parete aveva tremato e poi era esploso in una pioggia di vetri mentre lei era lì che urlava contro il compagno, vomitandogli addosso rabbia, disillusione e paure per il guaio in cui l’aveva trascinata.
Purtroppo, si trattava di casi abbastanza sporadici e ancora adesso Zora non comprendeva come funzionasse: accadeva con maggiori probabilità quando si trovava in uno stato di forte stress o di rabbia. In quei momenti, avvertiva un urlo risalirle da dentro, come un richiamo animale, ma non sapeva da dove nascesse.
Col tempo, aveva cercato di addomesticare quell’animale, in modo da poterlo sfruttare al momento opportuno. Non sempre ci riusciva, motivo per cui preferiva evitare, ma, sull’onda del successo che stavano riscuotendo ultimamente, Krsta esigeva sempre più spesso che lei desse dimostrazioni più audaci. E infatti, era stato proprio grazie a quelle dimostrazioni che avevano potuto comprare un’automobile e la bella casa in cui vivevano.
Così, Zora chiuse gli occhi, si concentrò e, sentendo su di sé lo sguardo carico di aspettative della vedova e quello ansioso di Krsta, chiamò a raccolta quel richiamo misterioso, pregando con tutto il cuore che non la tradisse proprio in quel momento.
Vagò tra ricordi e sensazioni, ricercandovi qualcosa di utile, una scintilla che accendesse la miccia. Non fu una ricerca lunga. Bastava richiamare alla memoria i crampi intollerabili della fame. Le notti trascorse a battere i denti avvolta in una coperta di lana pruriginosa, sul retro di un carro. Gli sguardi lascivi dei vecchi ricconi col cilindro quando camminava per strada e le parole sussurrate tra le donne sul ciglio delle botteghe, sempre le stesse. Ladra. Zingara. Puttana. L’alito di vino che Krsta emanava quando si infilava nel loro letto agli orari più assurdi, biascicando scuse, cercando di rabbonirla con baci e carezze…
La scintilla divenne una fiamma e l’urlo selvaggio proruppe con forza al centro del suo petto, premendo per uscire.
Ci fu uno schianto secco, un rumore di vetri rotti e la vedova von Archenholz strillò.
Zora aprì gli occhi. Una porta aveva sbattuto, un vaso era andato in frantumi senza che nessuno l’avesse sfiorato e, anche quella volta, la loro reputazione era salva.
«Magnifica» commentò Krsta, seduto accanto a lei sui sedili posteriori dell’auto, mentre rientravano a casa. «Sei stata semplicemente magnifica! Accidenti, tesoro, dobbiamo farlo più spesso!»
«“Dobbiamo?”» ripeté lei, tamponandosi la narice con un fazzoletto, per frenare la copiosa fuoriuscita di sangue; succedeva sempre, ogni volta che usava quel “trucco”, ma di rado la gente se ne accorgeva, per via del velo. «Non mi sembra che tu abbia fatto granché.»
«Ehi, sorella, ricorda che io ci metto la faccia» disse lui, continuando a contare le banconote. «Se finora ci è andato tutto liscio come l’olio lo devi solo a me. Che saranno mai due gocce di sangue? Toh, ha pure smesso.»
Zora si volse verso il finestrino.
Erano appena rientrati a casa, che Krsta annunciò di dover uscire di nuovo.
«Dove devi andare?» chiese seccata Zora. «Fra poco si cena!»
«Mangio qualcosa fuori, non aspettarmi alzata.»
Afferrò di nuovo il soprabito e nel farlo, dalla tasca scivolò fuori una busta da lettere, che svolazzò per qualche istante prima di posarsi sul pavimento. Zora si chinò per raccoglierla. «Questa cos’è?»
«Oh, sarà uno di quei bigliettini che sono arrivati insieme ai fiori…»
Allungò una mano per prenderla, ma Zora si ritrasse. «Perché ce l’avevi tu?»
«Perché…non lo so, l’ho messa in tasca e basta! Sarò stato sovra pensiero…»
«La manda Aisha!» ringhiò Zora, scioccata e furente. «Perché non mi hai detto niente?»
«Golubice moja, tesoro mio, è ovvio che te l’avrei data! Mi è solo passato di mente…»
Zora decise che ne aveva abbastanza delle sue idiozie e pensò invece ad aprire la busta, le mani che già le tremavano.
Krsta si portò indietro i capelli con un sospiro. «Allora, cos’è che vuole?» chiese, in tono lamentoso. «Altri soldi? Uno di quei buzzurri dei tuoi cugini si è fatto arrestare per aver rubato una gallina…?»
Zora ebbe l’impressione che la voce di Krsta fosse coperta da un fischio prolungato, mentre fissava con occhi sgranati le poche righe scritte a penna, con la grafia sbilenca di sua sorella. Un velo di lacrime le offuscò la vista e una grossa goccia cadde sopra una parola, sciogliendone l’inchiostro.
Deglutì, ma la voce faticò ugualmente a uscire. «Devo tornare a casa»
«Cosa?» fece Krsta. «A Mostar?»
«Sì. Prendo l’auto, partirò stasera.»
«Sei impazzita!?» esclamò lui, sbalordito. «Dove vuoi andare a quest’ora? E poi, con tutti gli appuntamenti che abbiamo in agenda per domani…»
«Che si fottano gli appuntamenti!» lo interruppe lei, con forza. «Questo è più importante!»
«Ma perché? Sui può sapere che è successo?»
Lei sollevò gli occhi dalla lettera e li puntò dritti nei suoi. «Mia madre sta morendo.»


 

[1] Madrase: scuole musulmane.
[2] Golubice moja: “mia colomba” in serbo.
[3] Pale: cittadina a 17 km da Sarajevo
[4] Alfons Mucha: pittore, scultore e pubblicitario ceco




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