Il grande salto

di Glenda
(/viewuser.php?uid=27907)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Desiderare di donare la propria vita non significa desiderare di morire. E lui desiderava donare la vita, davvero, interamente… e non desiderava morire.

Dunque cosa lo aveva portato lì, su quel terrazzo di solitudine, in cima a quel palazzo, in una giornata come quella, in cui era bello lasciarsi baciare dal sole sulla fronte e sulle mani?

Quale punto irritornabile di disperazione, quale amore troppo grande lo teneva in bilico lassù?

Stava veramente scegliendo di morire?

Stava veramente morendo?

A volte le cose sapevano essere talmente innaturali da riuscire ad annientare la coscienza e la paura, da diventare corrente che trascina.

Da lassù si poteva vedere l'Arno serpeggiare.

Perché aveva accettato di vivere quella follia? Perché non guardava in basso la gente brulicare per le strade - la gente che amava, e a cui voleva sorridere gratis, ogni giorno - e non si aggrappava a quell’istinto disperato di tornare indietro? Di tornare lì, nel suo quartiere sudicio e abbandonato, in quegli intrichi di odio e sogni, nella confusione, nella rabbia, nel pianto, nel caldo buco del mondo, nella vita?

Non doveva pensare.

Un solo pensiero - un’esitazione – e non ci sarebbe riuscito.

Non poteva dare tempo alla paura. Non doveva permetterle di nascere, prendere forma, suggerirgli parole invitanti: suggerirgli nell’orecchio quella brama di esistere che l’uomo non dimentica mai - mai - nemmeno nel più cupo fondo della sofferenza - nemmeno sul tetto più alto del mondo.

Non voleva lasciarli. Voleva ancora vederli: vederli crescere, vederli vivere.

Strinse gli occhi. C’era uno strano sapore sulle sue labbra.

Lacrime e sale.

Ne aveva ingoiate tante: eppure, aveva ancora voglia di sentirlo, quel sapore. Aveva ancora nostalgia di tutte le cose per cui valeva la pena piangere.

 

Uno spiffero freddo, scivoloso.

Aria tagliata in due lungo il suo corpo.

Cadere.

Lento come una foglia - una foglia… Dio, sono così leggero? - una foglia nel vento.

La barchetta nella corrente.

Era così semplice morire?

 

- Elia! -

La presa lo afferrò forte: il volo si fermò.

Qualcuno gli stringeva il braccio, con entrambe le mani. La sua voce era un grido implorante, ma che tuttavia non ammetteva rifiuti.

- Elia, per dio! Aggrappati a me! -

Voleva farlo. Voleva salvarsi, sopravvivere.

Ma non poteva.

- Elia, ti prego! Aiutami a tirarti su! Che stai facendo? Elia, cristo santo, dammi la mano! -

Le sue dita scivolavano disperatamente sul suo polso: poteva quasi sentire il dolore di quella stretta, il dolore delle sue braccia, spenzolate oltre la ringhiera.

- AIUTO! QUALCUNO MI AIUTI! PRESTO! -

La sua voce era ansia e lacrime. E coraggio.

- Elia… ! -

Lo chiamava con un nome che non era suo. Lo chiamava con una voce che non era per lui, ma era piena di forza e di affetto. Non si trattava di un atto d'eroismo civile, né di istinto o senso del dovere. Non era nemmeno pietà o paura di vedere un uomo sfracellarsi al suolo. Voleva salvarlo davvero. Voleva che Elia Avanzini non morisse.

Come si poteva fargli così male? Come si poteva fargli questo?

- Forza! Tieniti a me! -

Un’ombra lunga si affacciò su di lui.

Forti mani lo presero, altre braccia lo sorressero.

Voci. Grida. Persone.

Ma Artin non riusciva più a vedere.

- Avanti, tiratelo su di lì! -

- Porca puttana, signor Avanzini! Ma che le è preso? -

- Fate chiamare un’ambulanza, subito! -

Il terreno era di nuovo sotto i suoi piedi. Ma lo sentiva morbido, ondeggiante, come se stesse per affondarci dentro.

Non percepiva più il corpo: avvertiva dolore, ma non sapeva dove provenisse.

Gli sembrava di non respirare, era come se qualcuno gli stesse schiacciando il petto con violenza, con cattiveria.

Sentiva voci, ma un fischio nelle orecchie le copriva, e sembravano arrivare da luoghi lontanissimi.

- Su, coraggio, coraggio… va tutto bene… -

Due mani gli strinsero le spalle.

- Vieni qui, ragazzo, calmati… va tutto bene… -

Gli passò una mano tra i capelli, gli accarezzò la fronte

- È tutto a posto, ok? Elia, sono qui io. È tutto a posto -

Tutto a posto. Tutto a posto.

Artin affondò il viso sul suo petto - giacca di lana, profumo d’ufficio e inverno - e scoppiò a piangere. Desiderava solo questo. Piangere. Piangere tanto.

 

Lo avevano portato in ospedale. I paramedici lo avevano caricato in ambulanza, e forse era stato bene così, forse le gambe non lo avrebbero sorretto. Un dottore lo aveva visitato a lungo, e gli aveva fatto buttar giù chissà che porcheria psichiatrica credendolo un manager sotto stress che aveva avuto un esaurimento nervoso. Invece era molto peggio, e prima o poi avrebbe dovuto renderne conto a qualcuno: rendere conto del fatto di essere rimasto vivo.

Ma che importava? In quel momento, nulla era più forte dello spavento che aveva provato: guardare la morte in faccia dall’alto di un tetto, poter contare col battito del cuore gli ultimi istanti della propria esistenza… Accidenti, forse aveva davvero bisogno di quei farmaci… !

Ora - disteso su un letto, con la mente ovattata - la situazione gli sembrava talmente assurda da non riuscire a credere di averci provato davvero, di aver accettato un patto simile. Eppure, il volto di quell’uomo seduto lì accanto gli rinfacciava che lo aveva fatto eccome, e se lui non fosse intervenuto, su quel terrazzo, quell’ambulanza avrebbe portato via un cadavere, che qualcuno avrebbe pianto come se appartenesse davvero a un individuo che adesso se ne stava a zonzo chissà dove.

Si era sforzato di imitare Elia Avanzini in tutto e per tutto, ci aveva lavorato per intere settimane, sotto la supervisione del “gemello”. Aveva studiato ogni particolare in previsione di quella breve comparsa, per fare in modo che nulla andasse storto, ed era stato così bravo da ingannare chiunque. Tuttavia, ogni volta che ascoltava la propria voce, gli sembrava sempre che ci fosse una nota stonata, qualcosa di solo ed esclusivamente suo, e gli pareva impossibile che quell‘uomo non se ne fosse accorto.

Vittorio De Nistri, presidente della ***, era un amico prima che un socio. Questo lo sapeva. Le loro due famiglie erano sempre state vicine: lui ed Avanzini padre erano letteralmente cresciuti insieme, e questo aveva contribuito ad avvantaggiare Elia nella sua brillante carriera. Ma quest?ultimo non aveva speso molte parole sul loro legame, anzi, era stato particolarmente gelido nel parlargli di lui: Artin non era preparato a trovarsi di fronte ad un rapporto affettivo.

In verità, non riusciva proprio ad immaginare affetti per il diavolo del crocicchio, l'uomo che parlava della vita degli altri come di merce da scambio.

Eppure, De Nistri doveva essergli molto legato, altrimenti non gli sarebbe rimasto vicino tutto il tempo: su quel terrazzo, in ambulanza, adesso… quasi che la stretta che lo aveva tenuto sospeso tra la morte e la vita, lassù, non potesse essere allentata. Non gli aveva fatto nessuna domanda, nessun banale “perché lo hai fatto?”, nessuna stupida rassicurazione. Era soltanto stato lì.

 

Passarono ore prima che il via vai di medici cessasse.

- Vorrei tanto sapere cosa ti è successo… - disse allora Vittorio.

Quella richiesta lo riportò alla realtà, e ad un pensiero: il vero Avanzini lo avrebbe fatto ammazzare.

- Io… -

Cercò una risposta che non apparisse retorica, o falsa, o priva di senso. Ma l’uomo lo interruppe, scrollando lievemente la testa.

- Ma soprattutto, vorrei tanto sapere chi diavolo sei! -

Lo disse così, come se fosse una cosa normale, senza modificare nemmeno il tono della sua voce. Artin sbatté le ciglia, e le poche parole che aveva faticosamente pensato per togliersi d’impiccio gli si screpolarono sulle labbra.

- … Cosa? -

Un brivido lo percorse dalla testa ai piedi.

- Vittorio… che diavolo stai dicendo? -

Si sentì un idiota completo: da quanto tempo aveva capito? E adesso, cosa poteva dirgli? Il buon senso gli suggerì di scoprire le carte, ma in quel momento la soluzione più onesta gli sembrò anche la più ridicola.

- Io… - cercò di mettere insieme i dettagli: quel sorriso assente, quella sfacciataggine rilassata – sono così stanco… ho perso la testa, lo so, ma… -

- Ragazzo: - la voce di lui era meravigliosamente calma - non peggiorare la tua situazione. Chi credevi di prendere in giro? - diede in un’aspra risata senza emozione - Se sono stato zitto è stato solo perché, dopotutto, stavi per ammazzarti sul serio, e un uomo che arriva al punto di rinunciare alla propria vita penso abbia delle ragioni degne di rispetto. Ho creduto di doverti quel rispetto, e tuttavia, adesso, credo di meritarne altrettanto da te. -

Lo guardò dritto negli occhi: il suo sguardo non aveva più la disperazione di qualche ora prima, ma conservava la stessa determinata intensità. Uno sguardo che non ammetteva repliche, né, tanto meno, menzogne. Uno sguardo - pensò il giovane - che pareva fatto apposta per strappare la verità, per imprigionarla, per custodirla.

- Mi chiamo Artin Dorsi, - dichiarò tutto d’un fiato - e non avevo scelta. Non volevo prendere in giro lei, signor De Nistri. E non volevo nemmeno che lei mi salvasse. Anche se sono stato felice che lo abbia fatto. Anche se… -

- Artin Dorsi, - lo interruppe – è stato Elia ad organizzare tutto questo? -

Elia. Doveva dire la verità, ancora? Doveva depositarla in custodia a quello sguardo?

Abbassò gli occhi, ed esitò

- Allora? E‘ stato Elia? Avanti, devi solo rispondere si o no. -

Artin sospirò profondamente.

- Sì. -

- Lo immaginavo. E dove si trova adesso? -

Stavolta la domanda era più difficile. Eppure, la risposta era, a suo modo, più semplice.

- Non lo so. -

- Ah, non lo sai? -

- Non lo so. Non so quasi niente di Elia Avanzini, tranne che aveva bisogno di essere creduto morto perché ha fatto un casino, e che mi ha chiesto di uccidermi al suo posto. Non avevo scelta, signor De Nistri, non avevo scelta! Io non desideravo morire! -

La voce gli si ruppe in gola: lo scompiglio emotivo prese il sopravvento su di lui

- Rilassati: - fece De Nistri, serafico - per quanto tutta questa faccenda mi appaia assurda, come ti ho detto, penso che se un uomo arriva addirittura ad accettare di uccidersi al posto di un altro, abbia un valido motivo. -

Artin si stropicciò gli occhi arrossati.

- Posso sapere il tuo motivo? -

Gli sorrise, inaspettatamente, e stavolta il sorriso fu dolce.

- La mia famiglia. - rispose lui – Mio padre è in galera e mia madre sta morendo. Io sono disoccupato e non trovo un lavoro da mesi. Anno scorso ci hanno staccato il telefono, e quest'anno è toccato al riscaldamento. Viviamo nelle case popolari, l'affitto è minimo, ma io non ho più i soldi nemmeno per quello. -

Le parole gli venivano fuori come un fiume in piena: era quasi catartico elencare le proprie disgrazie; aveva sempre evitato di farlo, come se nominarle le rendesse più vere, invece adesso, frase dopo frase, gli sembrava di buttarle fuori da sé come delle scorie e che gli occhi di quell'uomo le ricevessero e le assorbissero.

- In casa siamo quattro: ho l'affido dei miei due fratelli minori, e non riesco a mantenerli, così presto me li toglieranno. Mia sorella ha venticinque anni: un mese fa ho scoperto che aveva cominciato a prostituirsi, ed io non me ne ero neppure accorto. Elia Avanzini ha pagato per il loro benessere a vita. Io non appartengo al vostro mondo, signor De Nistri. Nel mondo in cui vivo io, non è così strano che una ragazza carina che non riesce a tirare avanti pensi che la soluzione più facile sia fare la puttana, e un adolescente, nel caso migliore, si metta a rivendere telefonini rubati. Qui non si tratta di vivere da poveri o da poverissimi: si tratta di non morire di fame, e se la tua famiglia sta morendo di fame e uno sconosciuto molto potente si accorge che somigli dannatamente a lui e ti offre una fortuna per morire al suo posto… beh, le assicuro che la prima cosa che le viene voglia di fare, è ringraziare una buona stella! -

- Ringraziare una buona stella perché un uomo ti offre di morire? -

- Ringraziare una buona stella perché un uomo ti offre di donare la vita per le persone che vuoi proteggere. E’ molto diverso. Se lei mi avesse lasciato morire, signor De Nistri… -

Vittorio lo interruppe, gli mise le mani sulle spalle.

- Ma tu non volevi morire. -

Artin era di nuovo sul punto di piangere, non sapeva se per quel gesto gentile, o per la consapevolezza di trovarsi in una situazione senza sbocco.

- … se lei mi avesse lasciato morire, - continuò - sarebbe stato tutto a posto, e loro starebbero bene. Mentre ora, invece di salvarli, potrei averli cacciati in un guaio ancora più grosso, e, maledizione, solo perché ho esitato troppo a buttarmi da quel parapetto! -

Vittorio De Nistri lo ascoltò senza battere ciglio.

- Ma tu non volevi morire, Artin. - ripeté, di nuovo.

Il ragazzo alzò gli occhi, disarmato.

Era così confortante ascoltare il suono del proprio nome.

- No. -

- E tuttavia vuoi che la tua famiglia stia bene. -

- Si. -

- Anche a costo di grosse rinunce. -

- Sì. -

- Anche a costo di non vederli mai più. -

Artin deglutì forte.

- Sì. -

- Bene. – fece De Nistri – Allora vedrai che troveremo una soluzione che, in qualche modo, farà contenti entrambi. -

Un medico si affacciò alla porta e li interruppe: Vittorio smise di parlare subito.

- E’ permesso? - l’uomo avanzò nella piccola sala, verso di loro - Come si sente, signor Avanzini? -

Artin lo osservò: aveva il volto cordiale e teneva sotto braccio una cartelletta; pensò che probabilmente era uno psichiatra, o qualcosa del genere. Del resto, non ci sarebbe stato da stupirsi che credessero dovesse essere analizzato da un esperto: aveva appena tentato di ammazzarsi!

Sforzò un sorriso di cortesia.

- Meglio del previsto… -

- Ne sono contento. Le va di parlare? -

De Nistri si alzò in silenzio e offrì il posto al medico. Artin avrebbe voluto che non se ne andasse, che gli facesse capire che intenzioni aveva, che gli dicesse quale sarebbe stato il suo destino e quello dei suoi cari. Perché - avrebbe voluto chiedergli - perché aveva lasciato che quell’uomo lo chiamasse “signor Avanzini”? Perché faceva finta di niente? Perché non era furioso?

Ma lui era già arrivato sulla porta, e stava uscendo.

- Vittorio… -

De Nistri si voltò indietro, lo sorprese.

- Non farmi prendere più uno spavento simile, Elia. E quando te la sentirai, vorrei parlarti. -

Stupefatto, Artin non riuscì a rispondere: lo guardò uscire come se stesse osservando un uomo sparire nel nulla.





Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4049706