CAPITOLO 22
“5 storie”
Il bel mare oceanico risplendeva calmo e tranquillo. A rompere però
la piatta superficie liquida vi era niente meno che una gara
natatoria, sebbene improvvisata. Sei personaggi si dirigevano più
velocemente possibile verso la riva.
Con netto distacco arrivò primo Juna, anche grazie al suo potere
mutante che, in questo ambito, gli era decisamente utile. Dopo di
lui, un delfino si tramutò rapidamente in Borghi. Di seguito,
giunsero sul bagnasciuga Lincon, Giunan, Wayne e Arone.
“Però ti stavo per raggiungere!” osservò Bernardo, tornato in
forma umana, al vincitore.
“Comunque il tuo dovrebbe essere considerato doping, Juna”
protestò ironicamente Johnny.
“Ma sentilo… ma se mi hai pure aspettate per fare il gentiluomo”
lo rimproverò dolce Frédérique.
“Per quanto mi riguarda l’ho fatto solo per mantenermi in linea,
le gare sportive non riscuotono particolarmente il mio interesse”
Jack informò i presenti.
A pochi metri da loro Chang, mentre impugnava una vecchia canna da
pesca con l’amo in acqua, si voltò infuriato “Volete fare
silenzio che mi spaventate tutti i pesci!”.
“Invece lo sport è sempre una bella cosa!” replicò la
ballerina.
“Meglio se a motore!” aggiunse il pilota.
“Io preferisco rimanere fedele alla lucha libre” replicò il
baffuto.
“Seguo solo le olimpiadi…” proseguì il dandy.
“Le olimpiadi sono delle gran cazzate!” sbottò stufato Andrea,
al riparo sotto l’ombrellone con Igor “Anche i giochi olimpici si
sono dovuti fermare per le guerre, in più ora sono pieni di sponsor
e non più composte da soli dilettanti com’era nei primi anni!”.
Tutti lo fissavano basiti.
“Per non parlare poi di quando sono state boicottate per mere
questioni politiche!” concluse sempre più incavolato.
L’atmosfera si era fatta palesemente pesante.
D’un tratto, la lenza iniziò a tirare. La canna logora si tese
talmente tanto, finché lo spago non si spezzò di netto.
“Ecco fatto, niente pesca miracolosa!” annunciò il cuoco, mentre
osservava rattristato il danno appena subito dalla natura.
Ancora pensieroso, l’africano iniziò a lanciare sassi verso il
mare.
“Sarà come dice Andrea però, secondo me, in certi casi lo sport
può arrivare addirittura a salvarti la vita…”.
Come un gigante addormentato, un transatlantico aveva un proprio lato
adagiato sugli scogli aguzzi attorno ad un’isola selvaggia.
Sdraiata sulla sabbia, quasi a voler rassomigliare all’enorme
natante, una giovane ragazza dalla folta chioma bionda, con il corpo
pieno di tagli e i vestiti strappati, si stava ridestando con grande
fatica.
Rimessasi lentamente in piedi, barcollò senza metà nella spiaggia,
finché non si trovò davanti, a circa un chilometro davanti a sé,
una cupa magione.
Le sue gambe esili si rivelarono incredibilmente resistenti e, poco
dopo, riuscì a bussare alla pesante porta del castello.
Per alcuni minuti, tutto rimase immobile. Poi, con un sinistro
cigolio, l’uscio iniziò ad aprirsi. La minuta figura della donna
fu coperta da un’ombra gigantesca. Un energumeno, dalla folta barba
scura come i suoi occhi, con i quali la fissava impassibile, le si
parò d’innanzi.
Nonostante l'inquietudine iniziale, lei parlò. O meglio, tentò di
parlare. Con sua gran sorpresa, la sua gola parve non voler in alcun
modo collaborare con la comunicazione verbale.
“Chi è, Ivan?”.
all’udire quella voce proveniente dalle sue spalle, il nerboruto si
defilò, permettendo così all’ospite di poter entrare.
Un uomo vestito con un frac elegante, come il pizzetto nero e i
capelli ingelatinati all’indietro che lo caratterizzavano, la stava
osservando, stando in piedi e immobile su uno dei gradini a metà di
una scala in pietra.
“Benvenuta, signorina” lui riprese la parola, così come la sua
discesa.
Una volta giunto al loro stesso piano, proseguì.
“Io sono il conte Zaroff. Posso sapere il suo nome, di grazia?”.
La ragazza, ammaliata da quel fare così raffinato, si ridestò,
mettendosi a smanettare per fargli capire il suo improvviso deficit
comunicativo.
l’uomo la osservava basito.
Lei allora ebbe un’illuminazione. Dalla tasca posteriore dei suoi
calzoncini strappati e sporchi riuscì a tirar fuori una tessera
scolastica.
A fianco di una sua foto sorridente, vi era scritto il nome
dell’Istituto, Shiroiwa, la sua data di nascita, il 24 novembre, e
il suo nome: Kurako Takigawa.
“Dunque, una giapponese” dedusse il conte.
L’altra annuì con enfasi.
“Ipotizzo che lei sia l’unica sopravvissuta a quel terribile
naufragio di qualche ora fa”.
Appena saputa la verità su quanto accaduto, l’orrore le si dipinse
negli occhi. Il suo corpo si fece di colpo più pesante.
“Non si preoccupi, ora lei è in salvo, signorina” le disse lui,
afferrandola per un braccio in maniera preventiva “A quanto pare,
lo shock l’ha resa muta, spero momentaneamente…”.
“Ivan!” si voltò di scatto verso il suo servitore “Portiamola
nella sala ricreativa”.
Il colosso non se lo fece ripetere due volte e, afferratala
saldamente per le spalle, la scortò verso una nuova stanza.
Questa era piena di sedie e divani imbottiti e finemente costruiti.
Un ampio camino decorato faceva bella mostra in un angolo del salone.
Così come una larga tavolo rotonda in legno antico, un mappamondo
dal diametro di un metro e un pianoforte a coda. Alle pareti, vi
erano vari quadri con raffigurati soggetti piuttosto inquietanti.
Ma ad inquietare ancora di più Kurako era Ivan.
“Stia tranquilla, signorina Takigawa” la tranquillizzò il conte
“Ivan è solo un tranquillo e vecchio cosacco”.
La studentessa girò il suo sguardo verso l'aristocratico.
“Piuttosto, mi secca non poterle offrire niente, ma abbiamo
terminato la cena ormai da un bel po’…”.
La bionda si sentiva sempre più disorientata.
“Tralasciando ciò, lei immagino abbia degli hobby, dei passatempi,
in Giappone?” riprese a parlare Zaroff.
Takigawa annuì lentamente.
“Eccellente. Vede, anch’io ho i miei. Una su tutte è decisamente
la caccia! Nello specifico, prediligo utilizzare l’arco da guerra
tartaro”.
nel rivelare ciò, indicò un esemplare di tale arma infisso ad una
parete della stanza.
“Tra le mie prede preferite, vi sono assolutamente le tigri.
Inutile dire che, queste ultime, non apprezzano particolarmente
questa mia predilezione”.
Accompagnò tali parole con il passare l’indice della sua mano
destra sulla sua tempia destra. Su di essa, Kurako notò per la prima
volta una profonda cicatrice lunga una decina di centimetri.
“Oh, mi scusi la scortesia!” attirò nuovamente la sua attenzione
il suo ospite “Le posso offrire qualcosa da bere? Magari, un
bicchierino di vodka?”.
Lei scosse il capo negativamente.
“Ah, giusto! Lei signorina è ancora troppo giovane per bere.
Ivan!” di nuovo rivolto al suo servo “Porta alla nostra ospite un
bicchiere d’acqua, grazie!”.
Mentre lo stesso conte era impegnato a versarsi del liquore in un
calice, la giapponese ne approfittò per alzarsi e guardarsi un
attimo attorno. Affacciatasi appena da una finestra, notò al di
sotto una ventina di cani da caccia. Gli animali, come
radiocomandati, alzarono i loro sguardi all’unisono verso di lei.
Mentre Takigawa sorseggiava lentamente il bicchiere che le era stato
offerto, il conte Zaroff si accomiatò “Mi perdonai signorina
Takigawa, ma l’ora si è fatta tarda. Ovviamente, lei sarà mi
ospite, farò allestire per lei un’adeguata camera da letto da
Ivan”.
Nonostante quella situazione surreale, la ragazza riuscì a scivolare
in un sonno senza sogni. Finché lo squittio di topi la fece
ridestare in un lampo. Impaurita di aver a che fare con quei luridi
roditori, afferrò un candelabro, che per fortuna aveva lasciato
accesso sul comodino accanto al suo letto. Scesa dal suo giaciglio,
sempre più preda del terrore, aprì la porta della camera e si
decise a riscendere nuovamente in salotto.
Nella furia alimentata anche dalla totale oscurità, si ritrovò a
spingere una pesante porta in ferro e ad entrare in un’altra stanza
del castello.
Con il fiatone che le usciva dalla bocca in nuvolette, decise di
illuminare la parete a lei più vicina. Le fiamme traballanti delle
candele rivelarono un inquietante volto umano. Solo il suo mutismo
ancora presente non fece udire, in tutta la magione, il suo urlo
terrorizzato. Con le lacrime agli occhi, notò che quella testa,
riconducibile purtroppo soltanto ad un cadavere, era attaccata alla
parete da un cerchio ligneo, come si fa con i più tradizionali
trofei di caccia. Sul suo capo in decomposizione, era stato
appoggiato il capello tipico dei capitani navali. Così come quelli
delle crociere.
“Ma la preda che più amo cacciare, sarà sempre ed esclusivamente
l’uomo!”.
La voce improvvisa del conte Zaroff la fece voltare e sobbalzare. Lui
la stava fissando con un ghigno satanico dipinto sul volto.
La sua mente la stava abbandonando al suo destino, ma il suo coraggio
non rinunciò alla fuga. Con uno scatto disperato, evitò il padrone
di casa e si proiettò verso l’enorme portone d’ingresso. Davanti
ad esso vi era Ivan che, incredibilmente, lo aprì senza difficoltà
e la lasciò passare.
Il padrone di casa guardò compiaciuto il suo servo, mentre lo
raggiungeva.
“I miei complimenti, Ivan. Diamole un minimo di vantaggio.
Altrimenti la noia sarà eccessiva.”.
Mentre proseguiva in fuga dalla notte, Takigawa era ancora talmente
lucida da sapere dove andare.
Giunta nel punto più alto dell’isola, poté così constatare che
essa era molto più piccola di quello che sembrava. In più, la
vicinanza con la terra ferma non era per niente proibitiva.
Era passata più di un’ora quando Kurako, nascosta per riprendere
fiato dentro una piccola caverna, vide passare il suo personale
cacciatore, armato del suo fedele arco.
Attesa ancora qualche minuto, per essere certa che si fosse
allontanato il più possibile. Poi scattò.
“Dove scappi, mio bel leopardo?” le urlò dietro il conte.
Una freccia le sibilò vicino alla guancia sinistra. Ma lei fu più
rapida finché non raggiunse una palude.
Una nebbia spettrale copriva quel lato dell’isola, ma Zaroff le era
ancora alle calcagna.
“Signorina Takigawa, lei pensa che io non sappia come affrontare
ogni insidia della mia isola?”.
Afferrato dalla sua cintura un antico corno da caccia, si mise a
suonarlo.
Al castello, udendo quel segnale, Ivan aprì un cancello secondario.
Da quell’apertura, partirono alla carica i cani da caccia, con la
bava alla bocca e gli occhi iniettati di sangue.
La ragazza ormai non sentiva più i piedi. Le sue gambe toniche
percorrevano in automatico quella fuga disperata. Qualche lacrima le
uscì dalle palpebre e le rigò in orizzontale il viso. Anche quelle
furono lasciate indietro.
Un boato le si fece sempre più vicino. Delle cascate. Le scelte
erano due: un tuffo nell’oceano o sbranata dai cani. Kurako
Takigawa scelse la prima.
Quando infine giunse il conte Zaroff, non poté che fissare la spuma
fragorosa dell’acqua sugli scogli, mentre si percorreva con il dito
la cicatrice che aveva sul volto.
Come a dichiarare che l’isola stessa ne aveva abbastanza di quel
macabro passatempo, il terreno sotto ai suoi piedi si sgretolò
facendo crollare l’assassino, insieme al resto dello strapiombo
crollato, su quelle rocce acuminate.
A volte però i miracoli accadono. La giovane studentessa nipponica
riuscì a raggiungere la riva dove ancora regnava la civiltà. Una
volta nuovamente nella sua adorata scuola, diventerà un talento
dell’atletica leggera nei 10.000 metri. La parola però non le
ritornò mai più.
Repubblica Democratica del Congo, Parco Nazionale di Kisangani
Appena arrivato in jeep, Juna fu accolto da un gruppo rumoroso di
bambini festanti. Pareva il ritorno di un messia tra i propri fedeli.
“Ciao ragazzi! Come state?”.
I giovanotti risposero tutti insieme, creando una gioiosa e, al tempo
stesso, incomprensibile cacofonia.
Con un’enorme pazienza, il mutante si mise ad ascoltarli uno per
uno. Mentre proseguiva la sua opera di ascolto, notò uno di loro che
se stava più sulle sue, distanziato dal gruppo.
Appena sistemati tutti gli altri, gli si avvicinò.
“Ciao, io sono Juna. Tu come ti chiami?”.
“Io mi chiamo Bandu. Ti conosco, sei quello che salva gli animali”.
“Esatto!”.
“E non solo quelli…” proseguì nei suoi pensieri.
Il ragazzino continuava ad avere un’espressione mogia in viso.
“Cos’hai per essere così triste, Bandu?”.
Bandu abbassò lo sguardo. Dopo qualche minuto di reticenza, si
decise a confessarsi.
“Domani ho la prova di coraggio…” disse con un filo di voce.
Fu allora che Juna si ricordò di quell’antica tradizione della sua
tribù, sebbene altre culture l'avrebbero immediatamente etichettata
come barbara.
Per conclamare il passaggio definitivo da ragazzo ad uomo, il
partecipante deve tuffarsi in un laghetto, avendo come obiettivo il
recupero di una gemma lanciata poco prima al suo interno dallo
sciamano del villaggio. Le sue acque scure però nascondono la vera
difficoltà della prova: un branco numeroso di meduse d’acqua
dolce.
l’adulto abbozzò un sorriso “Hai paura?”.
Bandu annuì, sempre tenendo la testa bassa, fissandosi i piedi
scalzi.
“Stai tranquillo Bandu, ti darò una mano io!”.
Il ragazzino rialzò sorpreso il capo, con occhi e bocca spalancati.
“C-Come?”.
“Fidati di me”.
La sera si svolsero le danze rituali di buon auspicio. Lo stesso
Juna ne era l’ospite d’onore. Gli adulti indossavano della larghe
e pesanti maschere in legno, mentre danzano freneticamente attorno ad
un falò fiammeggiante.
Una volta terminata la festa, il povero Bandu non riuscì a chiudere
occhio per tutta la notte.
Nel frattempo, il Soggetto N. 8 approfittò che tutto il popolo era a
riposare per tuffarsi dentro a quello stesso lago che il giorno dopo
sarebbe stato protagonista. Per l’occasione aveva indosso la sua
divisa rossa con l’enorme H gialla sul davanti.
Il giorno del rituale tutta la popolazione era radunata attorno al
lago sacro. Il giubilo era talmente presente nelle loro teste che
nessuno parve notare un’assenza importante.
Chi di certo era presente era un bambino spaventato, con le gambe che
a fatica riuscivano a non tremare.
Come da cerimonia, lo sciamano fece zittire i tamburi celebrativi e
lanciò una piccola perla bianca al centro della distesa d’acqua.
“Giovane Bandu, va e diventa uomo!” gli ordinò il sacerdote.
Il giovane tentennava. Quando però sentiva il peso dell’attesa di
tutti i presenti addosso, chiuse gli occhi e si tuffò nelle acque
gelide.
l’oscurità lo avvolse in un attimo. Nonostante questo, la
lucentezza della perla sacra doveva garantirgli di essere scovata. Ma
Bandu non era certo preoccupato di tale evenienza, o della mancanza
di ossigeno nei polmoni che sarebbe sopraggiunta. Lui era pronto a
sentirsi pizzicare fino alla morte da tutte le meduse che vi
vivevano. Questa soluzione non avvenne mai.
Rendendosi conto di essere ancora pienamente cosciente, il ragazzino
aprì piano gli occhi. Come una vera e propria divinità marina, Juna
gli stava porgendo tranquillo la perla necessaria per la conclusione
della cerimonia. Attorno a loro due, gli animali tentacolari se ne
stavano ben distanti, come a fare da corteo a quel surreale incontro.
Trento
“… Sono 400 euro, non fare la troia con me!” le abbaiò contro
il tizio dalla faccia poco raccomandabile, che spuntava da sopra un
giubbotto pesante.
Dietro di lui, altre due persone dal medesimo stile.
“Ti ho già detto che non ce li ho al momento!” replicò secca la
donna.
“E allora farai la troia e mi succhierai il…”.
Il criminale non fece in tempo a finire la sua frase volgare che
scomparve, per ritrovarsi a chilometri di distanza dal luogo
precedente.
I tre presenti rimasero spiazzati da quello sviluppo così assurdo.
Finché non parlò una quarta persona.
“Interessante questa pistola variabile…”.
Osservò soddisfatto Alberti, mentre la sua mano destra cambiava
forma.
“Ma chi cazzo sei?” gli urlò contro uno degli uomini rimasti.
Lui rispose direttamente con un nuovo sparo. Come le pistole usate da
bambini, anche questa sparava acqua. Ma, invece che un esile schizzo,
una gigantesca onda sommerse i due malintenzionati.
Lei fissò la coppia portata via dalla marea. Poi tornò a guardare
il mutaforma.
“A-Andrea…” sussurrò sorpresa.
“Francesca”.
Giunto in un appartamento che non era il suo, Andrea tornò, dopo un
lungo tempo, ad abbracciare stretta la sua fidanzata.
“Amore mio! Dove sei sparito per tutto questo tempo?”
“Ho avuto un po’ da fare…”.
““Un po’ da fare”?! . È quasi un anno che non ho più tue
notizie! Ovviamente, a quel fascista di tuo padre non ho potuto
chiedere nulla perché figurati!”
“Mi dispiace Francesca, ma ho preferito non informarti per il tuo
bene”.
“Ah certo! Magari ora viene fuori che i tuoi amici militari ti
hanno mandato in qualche missione top-secret!”.
“Fidati, è anche più assurdo di così…”.
“E cosa è successo alla tua mano?” indicò l’arto menzionato.
“Fa parte di tutta questa situazione assurda”.
“Andrea…” lei lo fissò preoccupata “che ti è successo?”.
“E a te allora?” restituì lo sguardo lui “Che ci fai in questo
misero appartamento? Dove sono i tuoi?”.
La rabbia comparve sul viso della donna “Tu credi che sia semplice
andare avanti con un fidanzato scomparso nel nulla? Con la gente che
non perde un secondo per riempirti di domande? Magari pensando che
ero io la causa della tua scomparsa!”.
“Ma io ho parlato con i miei! Possibile che non ti abbiano detto
nu…”.
“Fanculo i tuoi, Andrea! Io volevo saperlo da te!” sbottò infine
lei, con un urlo fragoroso.
Il silenzio si frappose tra i due.
“Perdonami, Francesca” si scusò a voce bassa il Soggetto N. 4.
“V-Vuoi qualcosa da bere?” chiese spiazzante lei.
“O-Ok”.
La sua ragazza si avviò verso il frigorifero, poco distante.
Improvvisamente, s’inginocchiò di colpo a terra. Il corpo travolto
da un tremito di pianto.
Appena vide la scena, Andrea si buttò subito su di lei, stringendo
la sua schiena al suo petto e appoggiando il mento sulla sua spalla.
“Perdonami per tutto quanto, amore“ le bisbigliò all’orecchio
”Dov’è il letto? Così ti puoi sdraiare un po’”
“D-Di là” indicò con mano tremante.
Entrati nella camera da notte, l’uomo fece sdraiare delicatamente
la donna. Lei iniziò a rilassarsi, mettendosi una mano davanti agli
occhi per schermare la luce della lampadina.
“Non pensavo potesse essere così difficile per te” esordì
Alberti, seduto ai piedi del letto.
“Diciamo che ho dovuto crescere in fretta in questi mesi” esclamò
Francesca “quando anche i miei stessi genitori hanno cominciato a
dubitare di me, me ne sono venuta via e ho trovato questo
appartamentino in affitto…”.
“E per l’affitto hai chiesto a quelle persone?”.
“Non potevo fare altrimenti!”.
“E non hai fatto altro?”.
Nuovamente il silenzio tra i due fidanzati.
Francesca sollevò la mano dagli occhi per osservarlo bene. Pochi
secondi e si alzò in piedi. Con fare suadente, si mise a togliere
gli indumenti che aveva indosso.
Andrea la fissava muto, cercando di nascondere il più possibile la
propria eccitazione.
Nel giro di pochi minuti, era totalmente nuda di fronte a lui. Con
gli occhi nocciola che continuavano a fissarlo e i capelli biondo
chiari che coprivano a malapena il suo florido seno.
“Per quello, aspettavo il mio uomo…” gli sorrise maliziosa.
Il Soggetto N. 4 le restituì il sorriso erotico. In pochi secondi,
si ritrovò nelle stesse condizioni della sua amata.
Con il lettone a loro totale disposizione, fu facilmente intuibile
come avrebbero passate le ore successive.
All’esterno dell’abitazione, i tre sgherri di prima meditavano la
propria vendetta.
“Ma sei sicuro che ti trovavi così distante?” domandò uno dei
presenti.
“Cazzo sì!” sbraitò il capo del trio “Non so come sia
successo, ma ora quel figlio di puttana la pagherà!”.
“Ma invece non facciamo meglio ad andarcene?” propose un terzo.
“Che hai paura, coglione? Pensi che ci siano i fantasmi?”.
Il capo di colui che aveva appena parlato girò di colpo tutto a
sinistra. Poi a destra. Poi verso l’alto. Infine crollò esanime a
terra.
Gli altri due assistettero a tutta quella performance con occhi e
bocca spalancati.
Poi, anche per loro, arrivarono colpi potenti che non videro ma
subirono in pieno.
Nel frattempo, i due amanti ora si tenevano abbracciati pelle contro
pelle, sempre sdraiati nel loro giaciglio intimo.
“Non abbandonarmi più” gli ordinò tenera Francesca, mentre
fissava il soffitto.
“Te lo prometto” la assicurò Andrea, voltandosi verso di lei.
Improvvisamente, da fuori si udì un trambusto prolungato.
Allarmato, il mutante si infilò rapido i boxer e andò a spiare da
dietro le tende della finestra. Notando i tre individui al suolo, si
azzardò ad aprire il vetro.
“Ehi voi! Che state facendo lì?” gridò verso i tre.
“Scusa per la confusione, ho cercato di fare il più piano
possibile”.
Scattando di lato dallo spavento, il mutaforma vide comparire davanti
ai propri occhi, seduto sopra al breve ripiano della finestra, una
specie di quadrupede metallico.
“Tu chi sei? O cosa sei?” gli chiese stupefatto.
“Sono praticamente un capibara robot invisibile, ma non
preoccuparti! Mi manda Witch Girl! Ultimamente si è fissata con
l’evocare dei minion animali malvagi”.
Fu così che, grazie a quell’assurda creatura, il Soggetto N. 4
poté spiegare alla sua compagna come aveva passato gli ultimi mesi.
“Jack, hai i viveri?” chiese il Soggetto N. 1.
“Affermativo” rispose alla domanda telepatica il Soggetto N. 2,
mentre planava in direzione della villa degli Humana.
“Johnny, hai le bibite?”
“Certo che sì! Sperando che non si sgasino troppo durante il mio
rientro” replicò il Soggetto N. 9, mentre faceva a gara con un
treno ad alta velocità accanto a lui.
Nel giardino attorno al loro quartier generale, il resto del gruppo
attendeva i due ultimi arrivi. Tutti indossavano abiti estremamente
eleganti.
“Li vedo entrambi!” informò raggiante il Soggetto N. 3, mentre
gli altri due erano ancora a miglia di distanza.
“Perfetto!” si complimentò Sara Silvestri “Vediamo se almeno
questo capodanno lo organizziamo bene”.
“Allora io vado ad apparecchiare…” si propose il Soggetto N. 4.
“Ma no, Andrea!” lo fermò la francese “lascia fare a me!”.
“Io dunque mi occuperò della cucina!” annunciò fiero il
Soggetto N. 6.
“Tranquilla Frédérique, non c’è problema” insistette
l’italiano “almeno così mi rendo utile anch’io!”.
L’inglese atterrò con eleganza sul prato, con sé aveva un ampio
borsone della spesa “Di che cosa si lamenta ora il
mangia-spaghetti? Per una volta che non fai nulla…”.
“Parli proprio te che non hai mai fatto nulla in vita tua!”.
“Sempre meglio che avere, come unica ispirazione, quella di andare
a uccidere gente innocente nell’esercito!”.
“Almeno io ho uno scopo nella vita!”.
“Ma per favore!”.
“Calma, ragazzi!” cercò di placarli Frédérique.
“Siamo qui per festeggiare, non certo per infamarci a vicenda!”
si aggiunse il Soggetto N. 8.
“Davvero?” sbottò ancora di più il mutaforma bellico “Allora
io me ne vado, perché non ho proprio niente da festeggiare!”.
Detto ciò, si allontanò a grandi falcate verso il portone
dell’abitazione.
“Andrea, fermati! Torna qui!” tentò di richiamarlo la sua
connazionale.
Infuriato come non mai, il militare stava proseguendo nel lungo viale
che portava dalla villa fino alla strada principale.
“Ne ho le palle piene di questo gruppo!” bofonchiava incavolato.
“Ed è per questo che te ne scappi via?”.
Alberti aveva già riconosciuto quella voce. Appena voltatosi, vide
Lincon, che indossava ancora l’uniforme rosso e gialla utilizzata
per il volo, fissarlo minaccioso.
“Non sono affari tuoi, Jack”.
“Perché invece non ti batti da uomo a uomo?”.
Il trentino rimase sorpreso da quella richiesta “Cosa?”.
“Hai capito bene, stronzo. Tu ed io. Uno contro uno!” sentenziò
lo sfidante.
Lo sfidato ridacchiò “Guarda, caro il mio dandy, lascia…”.
L’altro gli si avventò contro con un drop-kick dritto allo sterno.
Caduto all’indietro supino, il britannico gli fu subito addosso e,
rovesciandolo in posizione prona, effettuò una cañonera.
Non contento, lo risollevò leggermente e mise in atto la Casita. Per
poi concludere il tutto con la presa a terra chiamata Rana.
“M-Ma che?” Andrea era shockato da tale agilità e rapidità
d’esecuzione.
Il dandy, come niente fosse, si tirò su con una capriola.
“E ora vieni dentro che ti offro una birra” gli porse la mano.
Lo sconfitto accettò l’aiuto e, ancora in stato catatonico, seguì
il vincitore nella villa.
“T-Tranquillo… noi inglesi lo reggiamo bene l’alcol… ich…”.
Era già il terzo boccale che si scolava. Jack iniziava a dondolare
pericolosamente sullo sgabello di cucina.
“Sei sicuro?” gli domandò dubbioso Andrea.
l’altro non gli rispose nemmeno, visto che era già intento ad
attaccare la quarta pinta di birra.
“Ehi, voi!” dall’altra stanza entrò Lincon. Un altro Lincon.
“Ma che cazzo?” imprecò spiazzato Alberti.
“Venite di là a festeggiare con tutti noi altri, screanzati!” li
infamò il britannico.
L’attenzione dell’italiano fu però subito catturata dal collasso
del suo compagno di bevute che, senza neanche un lamento, crollò
all'indietro.
Sporgendosi dalla seduta, Andrea scrutò, incredibilmente
addormentato sul tappeto della stanza, Bernardo che russava stile
trattore.
Grazie alle doti del messicano, l’armonia tornò a governare sul
gruppo di eroi. Allo scoccare di mezzanotte, si radunarono tutti
fuori in giardino. Per quella notte speciale, era in programma uno
spettacolo pirotecnico offerto dallo specialista giapponese Koichiro
Tamaya.
“Speriamo che il prossimo anno ci regali un po’ di pace” fu il
primo desiderio dell’anno pensato da Johnny Wayne.
Tokyo
“Specialità cinesi! Specialità cinesi, signori! Vi cucino tutto
ciò che ordinate!”.
Chang Yu aveva appena posizionato il suo carretto in legno, completo
anche di piastra e fornelli da poter utilizzare, che già si era
messo a richiamare l’attenzione dei passanti.
Una persona, più anziana di lui, si avvicinò alla postazione.
“Non ti conviene rimanere qui nelle vicinanze…”.
“Perché scusa? Più adatto del cortile di una scuola cosa c’è?”.
“Non è per il luogo, fidati”.
“Per cos’è, allora? Forse le 8 sono troppo presto?” controllò
l’orologio che aveva al polso.
“Nemmeno. La questione è più complessa”.
“Tu dici? Ma soprattutto, tu chi sei?”.
“Mi chiamo Seiya Inada, e ti assicuro che ho decisamente più anni
di esperienza di te”.
“Questo non lo metto in dubbio” il cuoco afferrò un recipiente
ligneo, scoperchiandolo nel contempo “Perché non provi uno dei
miei ravioli al vapore?”.
Il giapponese non fece in tempo ad allungare la mano che, a ricoprire
in maniera precisa la prelibatezza, una palla da basket ci si
conficcò sopra per una delle estremità.
Il potenziale cliente sbuffò “Ecco di cosa parlavo…”.
“Scusatemi, colpa mia” un ragazzo dai lunghi capelli neri si
presentò tra i due e riprese a forza la palla, stappandola a fatica.
Nel far ciò, il contenuto della ciotola finì tutto per terra.
“Oh cavolo, scusa! Io…” ma l’attenzione del giovane fu
catturata dall’orologio di Chang “devo andare! Mi iniziano le
lezioni!”.
Lo studente fece dietrofront e, ancora con il pallone in mano, si
avviò ad ampi passi verso l’ingresso scolastico.
“Ehi, tu!” lo richiamò imbufalito il mutante.
“Si chiama Ryo Soda” lo informò Seiya.
“Grazie!” lo ringraziò rapido, poi si voltò nuovamente verso il
suo obiettivo “Fermati!”.
Nonostante le leve decisamente più corte, il cinese tentò di
seguirlo fin dentro l’istituto Shiroiwa.
Scrutatosi un po’ attorno, riconobbe la stessa maglia rossa, con le
iniziali R e S bianche cucite sul davanti, del suo ricercato. Quello
che però la stava indossando era alquanto più basso.
“Come pensi di rimediare al tuo danno, giovanotto?” riuscì anche
a guardarlo negli occhi.
l’altro, che lo fissava impassibile con i suoi occhi ambrati, gli
mostrò i due guantoni da boxe che stava indossando.
“C-Che vuoi fare?” il Soggetto N. 6 si stava decisamente
preoccupando.
l’avversario non replicò e partì con il tempestarlo di pugni.
Chang riusciva a malapena a non beccarseli in pieno finché, vista a
repentaglio la propria vita, fu costretto ad utilizzare il suo fiato
infuocato.
I due guanti ora stavano andando a fuoco, mentre il loro possessore
non sembrava per niente sorpreso. Con un gesto secco di entrambe le
mani, se li sfilò in un colpo solo, lasciandoli a bruciare sul
pavimento.
“S-Scusa, ma non mi hai lasciato alternative…” tentava di
discolparsi il piromane.
Come per magia, due pugnali comparvero tra le mani del nipponico.
“Ma come ci sei riuscito?” fu spiazzato l’adulto.
Questa volta, gli attacchi fulminei furono condotti all’arma
bianca.
“Dai retta a me, sono Masao Kitano. Ti conviene scappare, coglione”
fu il suggerimento di un ragazzo con la faccia da teppista.
Vedendosi perduto, il Soggetto N. 6 fu costretto ad attuare una fuga
disperata.
Nonostante quell’inizio non certo promettente, i clienti si
presentarono via via più numerosi.
Erano ormai le 11 passate quando Yu stava servendo l’ennesima
specialità.
“Ecco a lei, signore!”.
Tutto il ripiano sul davanti, che serviva per consumare le
ordinazioni, era pieno di persone.
“Chi è il prossimo?” urlò raggiante il cuoco.
Fu allora che una nuova pallonata, questa volta con un pallone da
calcio, sparecchiò tutta la tavolata.
I clienti, indignati per quanto appena accaduto, si alzarono e si
defilarono. Ovviamente senza pagare alcunché.
“No, aspettate! Dove andate?”.
“Oh, scusa di nuovo!” si ripresentò Ryo, questa volta con un
vistoso codino “Ma tu ancora qua sei? Non hai di meglio da fare?”.
“Io non ho di meglio da fare?! Tu piuttosto? Vandalo che non sei
altro!” Chang stringeva le mani dalla rabbia.
“Beh, a dir la verità, ora ce l’avrei qualcosa di interessante
da fare… vero, Madoka?” si voltò con sguardo furbo lui.
“Certo amore, ogni volta che vuoi!” gli si fece vicina una
bionda, strusciandosi a lui.
“Beh, noi andiamo a fare un po’ di ginnastica!” esclamò Soda,
mettendo un braccio attorno alle spalle della ragazza.
“Aspetta un attimo…”.
Per tutta risposta, Madoka Sawaki gli mostrò la sua prosperosa
scollatura, accompagnando il tutto da un occhiolino e una linguaccia.
Il viso del mutante si arrossì, facendolo svenire di colpo.
Una volta ridestatosi, il Soggetto N. 6 tentò anche di riprendere la
sua attività di ristorazione.
“Riso alla cantonese per due, prego!”.
Il vociare dei passanti fu d’improvviso sovrastato dalla campanella
della scuola. Questa in particolare segnava la fine delle lezioni per
quella giornata.
“PISTAAAAAAA!”.
“Diamine! E ora che succede?” si allarmò subito il cuoco.
Difatti, proprio dall’ingresso dell’Istituto Shiroiwa, giungevano
a tutto gas due go-kart, uno rosso e uno blu.
Quest’ultimo riuscì a frenare in derapata. L’altro, invece, non
riuscì ad evitare l’urto devastante con il carretto di specialità
cinesi.
Si udì soltanto un “TESTATA ATOMICA!”.
Per fortuna, Chang era riuscito appena in tempo a saltare fuori dalla
zona cucina. Il suo carretto andò letteralmente in mille pezzi
Il pilota non incidentato si levò il casco. Sotto di esso, si
riconobbe così Minetaro Shiroyama.
“Oddio, Ryo! Tutto bene?”.
Dalle macerie, uscì illeso il tizio con una specie di permanente.
“Tranquillo! Te lo avevo detto che non mi occorreva il casco!”
alzò il pollice per conferma.
“Il mio carretto… il mio carretto… il mio carretto…”
bisbigliava il mutante con lo sguardo fisso verso il suo acquisto.
“Assomiglia ad un amico del mio collega Johnny Wayne…” lo
scrutava il kartista blu con fare indagatorio.
I due piloti lo fissarono per qualche minuto. Poi Ryo si voltò verso
l’amico.
“Vieni, andiamo a giocare a Chikara!”.
“Ok” acconsentì l’altro.
Infine la trasferta nella capitale giapponese non aveva più senso
per lui. Erano ore che vagava senza una meta e in stato confusionale.
Ormai si erano fatte le 19.
“Com’è possibile che sia capitato tutto proprio a me? Ma che ci
sono venuto a fare qui a Tokyo?”.
Passando nelle vicinanze di un parco cittadino, udì un rumore a lui
decisamente familiare.
Due ragazze, una delle quali con indosso la ormai famigerata
maglietta rossa, erano impegnate in un intensivo scambio di battute a
badminton.
“Blavo, Lyo! Sei decisamente migliolato ultimamente!” disse
l’altra, con un marcato accento cinese.
“È grazie al tuo allenamento, Li!”.
Per una buona mezz’ora si mise a fissare le due giovani, come
ipnotizzato. Finché si ridestò.
“Già!
Chissà come starà la mia piccola Nikki Peng?”.
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