La bambola senza bellezza

di mercurioingocce
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L’inizio di tutto fu in un negozio di seconda mano. Allora, me lo ricordo ancora chiaramente, spendevo il mio tempo libero andando a zonzo per la città. Si trattava di passeggiate brevi: entravo nel negozio di vinili a godermi la musica, osservavo le vetrine e i passanti, mi sedevo sulle panchine e tiravo fuori dalla borsa il mio diario, annotando le facce più strane con cui avessi a che fare. Le classificavo rigorosamente: un naso aquilino valeva dieci punti in più dei capelli rosa, e avere le lentiggini equivaleva a vincere la gara del giorno. Era un passatempo alquanto divertente, nonostante mi beccassi le occhiatacce dai passanti.

Tornando dal parco passavo sempre in fianco all’antiquariato “Williams and associates”; a volte non facevo caso alle cianfrusaglie esposte in vetrina, altre volte mi fermavo a giudicare i prezzi esposti.

“50 euro per un comodino degli anni 80? Ma chi li compra così brutti?”

C’era veramente tutto da William, da arrendamento stantio e ammuffito a scatole con vecchi giocattoli di legno, la maggior parte dei quali senza braccia o bulloni. Una volta vidi addirittura una siringa con l’impugnatura arrugginita: fu l’unica volta, prima di allora, che fui tentata di comprare qualcosa. Avrebbe figurato bene tra la mia collezione di insetti imbalsamati e boccette a forma di teschio, non credete?, ma quel giorno non avevo soldi, quindi passai avanti.

Era il 20 settembre, un giorno come tanti altri. Avevo trovato pochi volti interessanti, in verità, (o forse l’abitudinaria azione di notazione aveva banalizzato i miei gusti?) quindi abbandonai il mio posto al parco prima del solito. Ero alquanto infastidita dalla cosa e il mio passo era nervoso. Volevo solo andare a casa, ma qualcosa nella vetrina piena zeppa di ciarpame mi ordinò di tornare indietro.

Era una bambola di vetro quella che mi guardava. Candidamente seduta su una cassettiera, sembrava guardare oltre alla vetrina, alla strada e agli automi che camminavano davanti a lei. Ma dio se era bella! Il vestito vittoriano era sgualcito, le mancavano alcune dita e i capelli le erano stati grossolanamente tagliati. Ma lo sguardo risvegliò qualcosa dentro di me. Aveva una corona di ciglia, nere come il volo dei corvi sui cimiteri, che avvolgeva gli occhi dipinti. Occhi che erano e sarebbero stati sempre immobili, ma sembravano possedere quel guizzo di vitalità tipico dei bambini che hanno appena realizzato di essere vivi. La luce filtrava da un acchiappasogni lì in alto, regalando ombre scultoree e giochi di luce che la facevano danzare nell’aria. Ne fui rapita, ne fui intimidita. La mia mente spingeva per comprarla -avevo ancora qualche spicciolo in tasca- ma il mio corpo frenava. Certo, avevo spazio sullo scaffale davanti al mio letto, ma sarei riuscita ad andare a dormire con quello sguardo così reale sulla mia nuca? Le luci colorate della mia camera sarebbero state ancora così vivaci dopo l’ingresso di quella sciagurata creatura? Non che credessi alle tante storie di bambole maledette, ma quella, chiaramente, era diversa da tutte le bambole che avessi visto, fittizie o meno che fossero.

Nel frattempo, il soggetto delle mie riflessioni mi stava guardando, come se fosse in attesa dell’esito delle mie riflessioni. “Che male ti posso causare?” Pareva mi dicesse. “Sono solo una bambola di vetro.”

Fanculo, ti compro.”

Entrai da William e spesi tutti i risparmi che avevo con me in quel momento: venti euro per una bambola di finitura russa, assurdo.

La sistemai sullo scaffale più alto di camera mia. Per qualche strana  ragione, da allora le luci colorate del sole non colpirono mai quella zona, nonostante prima si spandessero su tutta la stanza. Cominciai veramente a pensare di aver scelto una bambola malefica.

La mia vita non mutò radicalmente dopo l’acquisto, come avevo temuto nei miei primi pensieri: andavo a scuola, mi distendevo sul letto e accendevo lo stereo non appena tornavo a casa, camminavo con la mia borsa di tela sotto il braccio quando non avevo null’altro da fare. Forse passavo più tempo rispetto a prima in camera, ma non c’era granché da preoccuparsi; forse le mie passeggiate diventavano sempre più corte, ma era solo il freddo e l’imperante, consistente stanchezza del dopo scuola. Era arrivato l’autunno e il cielo cominciava a piangere lacrime d’argento, sottili aghi aguzzi che mi coglievano di sorpresa e mi costringevano a trovare riparo sotto le terrazze. Uscivo sempre più raramente.

7 ottobre: per la prima volta vidi il mondo grigio. Probabilmente  era l’influsso di California dreamin’ nelle mie orecchie, ma mi accorsi della morte sotto i miei piedi: foglie morte, uccelli investiti, fango invece della trasparenza della pioggia. Tutti i ricordi di quell’anno, quelli nati in primavera, si ritrovavano a morire sotto il freddo: non c’era più il canto degli uccellini, perfino il sole sembrava sepolto sotto una coltre di nubi.  Aprii la porta di casa e gettai lo zaino su una sedia, turbata. 

Dopo pranzo,  La Madre mi allungò uno straccio.

“Camera tua è da mesi che aspetta di essere pulita. Se non hai altro da fare puoi pensarci oggi.”

Me ne ero quasi scordata. Cominciai a strofinare la stanza, partendo dai mobili, quando qualcosa mi cadde in testa.  Era la bambola di vetro, quella deliziosa bambina che avevo comprato qualche settimana prima da William. Aveva guadagnato qualche crepa nell’urto, ma era ancora uguale a prima, anzi. Notai qualcosa di strano.

“Eppure, avrei giurato che questo dito qualche settimana fa non ci fosse.”

I capelli erano meno arruffati e le ciglia sembravano più lunghe, rendendo gli occhi più dolci del solito. Ma sicuramente avevo preso un abbaglio, le bambole non possono cambiare. La sistemai più in basso, così da poterla osservare meglio durante la giornata. E la guardai! La controllavo minuziosamente, sempre più spesso. Giorno, notte, mattina o tramonto, non aveva importanza. La muovevo, osservavo i suoi cambiamenti, dubbiosa. A volte la spostavo, la giravo cauta, la posizionavo sotto una luce migliore. E poi, dovevo assolutamente annotare tutto quello che di diverso aveva dal giorno prima.

I giorni passarono, e ad ogni ora che scorreva mi sentivo sempre più sfinita. Le mie abitudini non erano certamente cambiate, ciò che era differente era, casomai, il mio modo di guardare il mondo. Non l’avevo mai più visto a colori, da quel 7 ottobre, ma tutta la mia vita da allora era come un’irrimediabile camminata verso il cimitero. L’unica cosa esteticamente invitante, in quel periodo, era la bambola. Tanto quanto io stavo marcendo, lei stava rinascendo dalla sua stessa polvere. Tanto io ero sprofondata in una sorta di abisso, dal quale ogni giorno di più non vedevo via d'uscita, tanto lei sembrava splendere di luce propria. Mi ritrovai a fissarla per ore in stato catartico, ignara del fatto che era lei che mi stesse trascinando nel pozzo senza fondo. Me ne resi conto troppo tardi, purtroppo, quando le mie condizioni erano già critiche. Mi ritrovai a fantasticare su di lei per passare il tempo in cui non riuscivo ad uscire dalla camera, a inventare storie sul suo conto: la immaginavo buona e caritatevole, capace di tessere con le dita di legno i fili del destino umano, come le Parche, le attribuivo poteri magici, immaginavo vegliasse sul mio sonno. Ormai non uscivo più di casa, se non per svolgere basilari compiti quotidiani. I giochi di luce non mi attraevano più, le ombre scultoree del sole sulle boccette a forma di teschio mi parevano quanto mai banali. Le questioni materiali e immateriali mi davano noia, così come le parole al vento, i colori del giorno e il vento novembrino. Perfino il mio diario, quello con i volti strani che vedevo per strada, non era più nel mio interesse.  L’unica cosa che mi distraeva dalla monotonia era Lei.

Non le avevo dato un nome. Ormai lo scaffale era il suo altare, svuotato di tutte le cose che potessero distrarre la mia visione. Ma se all’inizio reputassi impossibile il cambiamento tanto radicale di un

oggetto inanimato, ora non solo lo credevo possibile, anzi, ne ero certa. I capelli, prima pallidamente sbiaditi, ora li vedevo dorati come i mosaici bizantini. Non aveva più alcun arto scomparso, rotto o scheggiato; nessun chiodo mancava all’appello; il rossetto era di nuovo rosso bordeaux, le ciglia più folte che mai. 

Ora, non me ne vogliate. Qualche volta mi svegliavo dal mio stato ipnotico e mi rendevo conto di come stessi buttando la mia vita. Era come un fulmine, veloce e prorompente: mi alzavo di scatto dal letto sotto le quali coperte ero sepolta, accendevo il mio vecchio stereo, che nel frattempo aveva accumulato un nido di polvere sopra di sé, e una rabbia immensa mi pervadeva il corpo. Una volta presi la bambola con l'intenzione di scagliarla al muro-credo fosse la prima volta che avevo realizzato del suo influsso- ma poi mi bloccai. Sarebbe cambiato qualcosa? probabilmente si sarebbe ricostituita in poco tempo, come una sorta di Horcrux. Commisi l’errore, lo ammetto, di guardare verso di lei. Ciò mi bastò per rimetterla sullo scaffale.

Era arrivato dicembre, e passai la totalità  delle mie vacanze sul letto; mi ero trasformata da carne e corpo a pensieri e angosce. Urtai per sbaglio lo spigolo del mio comodino e feci cadere quel vecchio quaderno a cui avevo dato così tanto, in un lontano passato. C’erano descrizioni, disegni, volti e occhi. L’idea avvelenò lentamente il mio corpo: tutte quelle persone e quelle storie sarebbero state lì fuori, a bere il caffè o ad arrabbiarsi contro la neve. Io ero rinchiusa in una prigione, ma il mondo al di fuori continuava senza di me.

E sarebbe sempre continuato.

Anche se io non fossi più esistita, ciò avrebbe contato per l’universo tanto quanto un  granello di sale in una miniera dell’Himalaya. L’universo era forza, quella forza profonda che non è altro che un ciclo di vita di morte, di ricambio di generazioni, di predatori che cacciano per la fame e vittime che fuggono per la loro incolumità, come io cercavo di sopravvivere disperatamente in quel periodo. Ma quale incolumità stavo cercando? Tutto ciò che ci circonda è immensamente più maestoso di noi, infinito, potente e superiore. Le persone nel mio quaderno sarebbero morte, il quaderno stesso sarebbe stato dimenticato, la vita tramutata nelle sue incomprensibili forme, l’universo mutato eppure sarebbe inesorabilmente rimasto staticamente uguale a mille e mille e mille anni fa. Le mie scelte valevano veramente qualcosa in quella vita? L’incertezza per la bambola di vetro, il desiderio di disfarmene, l’incapacità di domare i miei stessi istinti: la disgregazione interna che mi avevano portato le scelte che avevo compiuto, tutto inutile.

Gli esseri umani sono capaci di dominare i propri istinti qualche centinaio di volte al giorno, e quel giorno sarebbe stato l’ultimo in cui l’avrei fatto: il mio desiderio più grande. ora, era riunirmi alla Grande Madre. Mi voltai verso la bambola: non era null’altro che una vecchia bambola crepata e mal ridotta, con il vestito impolverato e gli occhi vitrei. Ero lucida di nuovo, la mia ossessione si era finalmente dissolta.

 Con quei sentimenti io quella mattina mi distesi sul letto, portando con me la risoluta intenzione di non svegliarmi più. E così fu.

 




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