Save the best for last

di lithium
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MISERY LOVES COMPANY

 

** * **

New York City, aprile 2006

 

J.T. scavalcò un paio di Nike blu abbandonate tra l’ingresso ed il salotto per dirigersi verso la porta d’ingresso. Chi potesse essere a quell’ora indegna di un martedì notte era un mistero. Si passò la destra tra i capelli biondi cortissimi, come se le cuffie che portava ora al collo li avessero scompigliati.

Non attendeva visite e l’ultima volta che aveva controllato il suo conto corrente aveva pagato il mantenimento ad entrambe le sue ex-mogli. D’altro canto, conoscendo Rochelle…

Si chinò un poco ed osservò dallo spioncino. New York City non era esattamente il posto dove aprire la porta a caso nel cuore della notte, nemmeno se eri un uomo in forma sulla trentina. Quello che vide gli fece quasi ingoiare la lingua dalla sorpresa, mentre apriva la porta con una certa foga.

“Ehi, stranger!”

La cascata di capelli rossi sarebbe stata inconfondibile se anche la loro proprietaria non l’avesse, involontariamente, tormentato da quando era un ragazzo.

“Kay?” domandò, ancor più confuso dal fatto che lei fosse alla sua porta traballante su tacchi troppo alti e con l’aria alticcia. Fosse stato in grado d’essere più circospetto si sarebbe dato un pizzicotto per assicurarsi di non essersi addormentato di nuovo sul suo divano, giocando a WoW.

“Posso entrare?” Chiese lei, appoggiata malamente alla sua porta.

“Ehm, sì, certo.” Rispose J.T. indietreggiando per farla passare, mentre Kay barcollava all’interno, poi, chiuse la porta alle sue spalle, tenendola d’occhio con la coda dell’occhio. Non per la prima volta, J.T. dovette trattenersi dall’aiutarla, conoscendola si sarebbe infuriata.

Ancora mezzo paralizzato dalla sorpresa, il ragazzo la guardò circospetto, cercando di ricordare se l’avesse mai vista brilla in vita sua, mentre incapace di trattenersi oltre le allungava una mano per aiutarla a stare in piedi.

“Oh…” mormorò lei, sorridendo stupidamente a quel gesto e mandando in fumo ogni sua previsione. C’era qualcosa di estremamente strano quella sera nell’aria. “Volevo scusarmi per tutte le volte che ti ho dato del porco sciovinista.”

J.T. continuò a sorreggerla mentre camminavano verso il divano marrone, spostò con la mano libera il joystick in traiettoria e l’aiutò a sedersi. Cercò disperatamente una risposta.

“Ehm…” si morse leggermente il labbro, pensando. “Ti ringrazio, Kay. Come mai volevi dirmelo di persona alla 1.50 di …” Ah, pareva fosse già mercoledì.

Kay scacciò lontano le decolleté color ciclamino ed aprì il primo bottone del giacchino.

“Io …” Guardò la stanza per un attimo con sguardo intenso, come se la vedesse per la prima volta e fosse confusa un tantino di essere realmente lì. “Ah, sì … perché il mio capo … anzi no, ex capo, lui sì che è un porco sciovinista.”

L’unica cosa chiara era che J.T. non ci stava capendo un accidente.

“Mmm…” rispose, mentre continuava a fissarla, incerto sul daffarsi. Sedersi accanto a lei? Prepararle un caffè? Portarle la sua coperta e sperare che smaltisse la sbornia dormendo?

Kay interruppe i suoi pensieri. “Siediti, che mi gira la stanza se stai in piedi!”

“Eh?” domandò il fotografo.

“Siediti!” Ordinò Kay.

Persino ubriaca riusciva ad essere prepotente. J.T. si trattenne dallo scuotere la testa e fece quello che lei aveva chiesto.

Non era sempre così, anche quando pensava fosse il contrario?!

“Come sei arrivata qui?”

“Taxi.” mormorò la donna, alzandosi ed andando a spegnere la luce, nel momento stesso in cui lui si sedeva. Lo schermo accesso davanti a loro era più che sufficiente per vederci, ma nel ritornare verso il divano, Kay inciampò nelle Nike e, solo un buffo balletto, la tenne in piedi.

Ridacchiò, un risolino che J.T. le aveva sentito proferire raramente.

“Non volevo mi vedessi così, ma devo aver pensato che domani avrei perso il coraggio. Almeno credo. E mi sono trovata davanti al tuo palazzo.”

“Eh? Coraggio? Perché?” Certo era lei quella ubriaca, ma anche lui non brillava d’eloquenza e perspicacia quella sera.

“Sì, perché a nessuno piace ammettere di aver avuto torto, sai, né di essere stati cattivi e superficiali.”

Con qualche difficoltà Kay lo raggiunse sul divano e slacciò il secondo bottone del giacchino bianco di finta pelliccia che indossava. Si sedette di nuovo e cominciò il, nel suo stato non semplice, esercizio di coordinazione di toglierselo di dosso.

“Kay, tu non sei cattiva” La rassicurò l’amico.

La donna scosse la testa. “Invece, sì” Sospirò. “Pensaci! Quanto ti ho fatto soffrire da che ci conosciamo?”

In un certo qual modo era un colpo basso, ma non era una domanda a cui J.T. era disposto a rispondere sinceramente quella sera, non con lei in quello stato.

“Non l’hai fatto apposta, Kay.” Cercò un diversivo. “Dimmi, quanto hai bevuto esattamente?”

Lei tentò comicamente di alzare tre dita, le fissò perplessa e, poi, aggiunse. “Penso.”

“Tre cosa, tesoro?”

Kay si liberò finalmente dai confini del giubbino di pelliccia. “Non ho più caldo, ora.” Disse tra sé con un certo sollievo.

“Bene” osservò J.T. “Non che mi spiaccia vederti, Kay, ma perché sei qui?”

Kay lo guardò stringendo un po’ gli occhi, come se cercasse di focalizzare lo sguardo su di lui.

“Te l’ho già detto!” Protestò.

J.T. scosse di nuovo la testa, cercando di non pensare a Nick. “Vuoi un po’ di caffè, Kiki?”

“Dici?” domandò lei, stranamente docile.

“Dico.” Rispose l’uomo. Si alzò per andarle a prenderle una tazza e si diresse verso la cucina dell’altro lato della stanza, accendendo i led sotto l’armadietto, mentre cercava di ricostruire il filo di un discorso che non filava affatto. Fece l’unica cosa logica da fare.

“Vuoi provare a spiegarmi di nuovo, Kay?” Chiese, cercando di mettere nella domanda tutta la pazienza che desiderava mostrarle.

Kay fissò i suoi enormi occhi nei suoi. Sospirò.

“Sono stata cattiva con te e sono qui per scusarmi…” Ripeté.

“E lo apprezzo, tesoro, ma non ce n’era bisogno, sul serio.” Rispose, mentre le versava il caffè.

Le porse la tazza.

“Grazie.” Ne prese un lungo sorso mentre il logo del Punitore appariva in bianco col calore sulla superficie nera della mug.

Forse sono i tre bicchieri di prosecco che parlano, ma…”

“Prosecco?!” J.T. si dovette trattenere dal ridere. Avrebbe dovuto saperlo. Il suo scricciolo. Anche se quel possessivo era sempre stato doloroso.

“Mi hanno licenziato.”

La frase e il tono con cui era stata pronunciata, come se fosse la fine del mondo, distolse l’attenzione di J.T. dal momento di autocommiserazione.

“Licenziato?”

“Già!” Kay osservò per un po’ il pavimento come se fosse lì che avrebbe potuto trovare la chiave per risolvere i misteri del mondo.  “Ma io con Alan Davis non volevo andare a letto!”

J.T. si sedette di nuovo lentamente accanto a lei. Provò a mantenere il tono più neutro possibile. Kay era una donna adulta, non era mai stata sua, per quanto avesse desiderato il contrario da troppi anni per contarli.

“Cioè, fammi capire, mi stai dicendo che ti hanno licenziato perché andavi a letto col tuo capo?”

Kay bevve un altro sorso di caffè, lo guardò sdegnata e tossicchiò.

“No, mi ha licenziato perché gli ho detto di no.”

E se J.T. aveva pensato di essere di cattivo umore mezzo minuto prima immaginandola volontariamente con un altro, la sua indignazione raggiunse ora una vetta del tutto diversa.

“Cosa? Ma è … Oltraggioso. Illegale. Ingiusto!” Esclamò, balzando in piedi.

Kay sorrise amara. “Il mondo è ingiusto, Mitchell.” Gli porse la tazza ancora mezza piena.

“Ma devi fare qualcosa! Non puoi dargliela vinta così!”

“Mmm, ci penserò domani.” Disse, stiracchiandosi. “Ora devo fare pipi.”

J.T. si trattenne dal ridere forte a quella confessione, così in contrasto con quella di pochi secondi prima. Appoggiò la tazza di Kay sul bancone della cucina, mentre istruiva “In fondo al corridoio, a destra!”

Alzandosi a fatica, Kay rispose “Lo so.”

Scrutandola mentre si allontanava lungo il corridoio, lui la schernì “So-tutto-io!”

Kay cominciò ad incedere lentamente, poi si girò verso di lui, appoggiandosi al muro per stare più dritta. I suoi capelli una nuvola rossa un po’ scompigliata contro la penombra della parete bianca. Bella e lontana mille miglia, come sempre.

“Lo sai che ti voglio bene, vero?”

Con un pugno che gli stringeva il cuore nelle viscere, J.T. si sforzò di sorriderle.

“Lo so, tesoro.”

Lei gli sorrise sul serio. “E se non avessi avuto tanta paura di quello che avrebbe significato per te, ti avrei già detto di sì.”

Per un lunghissimo minuto J.T. stette fermo in mezzo al proprio salotto cercando di riavvolgere il nastro di quella conversazione nella testa.

“Sì?” chiese. A che cosa esattamente Kay avrebbe voluto dire sì, ora? Lui non le aveva chiesto nulla.

Ma lei riprese a camminare verso la porta del bagno, lasciandolo a scrutarsi nel riflesso della finestra alla luce fioca dei led e dello schermo.

Un uomo estremamente confuso ad un’ora in cui le persone per bene dormono con indosso un pantalone grigio della tuta che gli scendeva troppo sui fianchi, lo guardava di rimando. Cosa le aveva chiesto?

Stette in quella posizione per ancora qualche secondo, prima che una lampadina gli si accendesse nella testa.

Non dice sul serio! L’hai vista, è ubriaca e vulnerabile.

E se, invece, fosse stata seria? Se avesse infine acconsentito a quell’idea che gli frullava nella testa da mesi.

Il suo corpo si mise in moto prima che il suo cervello smettesse di pensare, raggiunse la fine del corridoio.

“Kay?” La chiamò attraverso la porta del bagno.

Sentì l’acqua del rubinetto scorrere e poi spegnersi, prima che lei comparisse di nuovo sulla soglia.

“Ehi…” Gli sorrise. “Mi hai trovata!” Ridacchiò.

J.T. l’osservò per un momento in silenzio, tutte le curve e gli spigoli del suo corpo che sapeva a memoria sembravano prendersi gioco di lui. Quante volte le aveva chiesto di posare per lui negli ultimi mesi? Quante volte aveva rifiutato prima di allora?

“Te l’hanno mai detto che non si prendono decisioni importanti quando si è bevuto?”

Kay annuì, sostenendo in silenzio il suo sguardo indagatore.

“Promesso?” Chiese infine il ragazzo.

Kay sorrise ed annuì. Era chiaro che non era ancora del tutto sobria, ma era un po’ meno brilla di quando era arrivata alla sua porta.

“Lo sai che ti voglio bene, vero?” Domandò J.T. a sua volta. “E non t’infurierai con me domani per aver promesso?”

Kay s’alzò appena sulla punta dei piedi e gli sussurrò nell’orecchio. “Promesso.”

J.T. strinse i pugni lungo i fianchi, le unghie corte che gli bucavano appena i palmi per la forza con cui li serrava per trattenersi dal toccarla. Non era la prima volta, non sarebbe stata l’ultima.

Kay s’allontanò un passo. “Posso dormire qui?”  Gli chiese, improvvisamente incerta, abbassando lo sguardo sui suoi piedi nudi.

Sarebbe stata una lunga notte insonne, prima di un giorno di lavoro infinito. Annuì. Non sarebbe stata la prima volta.

La donna si avvicinò e l’abbracciò, sollevando lo sguardo su di lui. “Grazie”.

Che lei l’allontanasse o trattasse con freddezza c’aveva fatto il callo negli anni, era quando era così, tutta affettuosa e docile che gli stritolava il cuore. Si staccò da quel piccolo corpo caldo che avrebbe voluto solo stringere, ma Kay lo tenne per mano.

“Mi preparo il divano?”

“No… Ti ho mai cacciato dal tuo letto?” Chiese lei quasi offesa all’idea.

La morsa intorno al suo cuore si fece un po’ più stretta. Some people are suckers for punishment.

“Lascia che vada a spegnere di là.” Le disse, ma Kay lo trattenne ancora un attimo.

“Ce l’hai ancora la mia coperta?” Chiese.

“Certo.”

Il pollice di Kay gli sfiorò teneramente le nocche della mano, prima di lasciarla andare e barcollare verso la sua stanza.

J.T. si trascinò verso il salotto. A volte essere amico della donna che ami fa veramente schifo.

 

 

 

 

 

 





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