Dark Pale

di Amigdala88
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A R.A. Eller, senza la quale questa storia non esisterebbe

[dark;pale]
 

I don't want to be buried in a pet sematary
I don't want to live my life again
(Pet sematary, Ramones)

È il rumore secco del camion a svegliarlo.

Come ogni mattina, puntuale più di un infarto. E sì che l’insulsa agente immobiliare si era raccomandata sulla zona tranquilla, affatto rumorosa, per quanto collocata in una delle parti più degradate della città. Invece, a cadenza bene o male di ogni cinquanta minuti al giorno, sulla strada principale transitano camion diretti chissà dove, che fanno tremare il terreno e le costruzioni che ci sorgono sopra.

Roulotte, monofamiliari, camper, baracche, pali della luce. Tutto trema.

Blake non si aspettava niente di diverso per la giornata di oggi: ha dismesso da un po’ l’infantile convinzione che il giorno del suo compleanno debba essere speciale, la maggior parte delle volte è facilmente soprassedibile, cancellabile dai calendari; rare sono le occasioni in cui può definirlo normale.

Come ogni mattina, si allunga a recuperare il pacchetto di sigarette dal comodino, impilato sopra un paio di romanzi in edizione tascabile e sempre a una distanza massima di braccio. Ne accende una e aspira a pieni polmoni, per poi sporgersi in direzione dello stereo e schiacciare play. Seek & Destroy dei Metallica ricomincia dal punto dove si è interrotta la sera prima, appena alla fine dell'assolo centrale, e subito il silenzio viene occupato dalla congiunzione esplosiva tra le chitarre di James Hetfield e Kirk Hammett, il basso di Cliff Burton e la batteria di Lars Ulrich. 

Tutto è meglio dell'ascoltare i propri pensieri.

Il terzo rituale consiste nell'alzarsi e rovistare all'interno dell'armadio finché le dita incontrano la sagoma di una vecchia scatola da scarpe. Con la Marlboro alle labbra, solleva il coperchio. Il contenuto è una rassegna di oggetti e ricordi, alcuni che necessitano di restare segreti, altri che sono finiti là dentro per un valore sentimentale: fotografie di sua madre e un anello che le apparteneva, alcuni numeri di Penthouse e di Blueboy (acquistati in California, non in questo Stato bigotto dimenticato da Dio), il biglietto di una partita dell'NBA che ha avuto il piacere di vedere dal vivo, una confezione di preservativi già cominciata, un flacone di lubrificante e uno di antidepressivi (ormai saranno scaduti), un rotolo di banconote, un paio di bandane colorate, il numero di un tipo che non ha mai richiamato. 

C'è anche una scatolina di latta argentata chiusa a chiave. La chiave si trova nel cruscotto dell’Impala, ma per controllare se sia ancora piena o meno non ha bisogno di andare a prenderla: l'afferra e la scuote come una maracas, rilassandosi al suono inconfondibile del metallo contro metallo.

I proiettili sono al loro posto. 

Li ha estratti dalla pistola la sera stessa che suo padre l'aveva chiusa in cassaforte (è convinto che Blake sia all'oscuro della combinazione – la data di nascita della mamma – e questo va a suo vantaggio). L'altra cosa che ha sgraffignato, e che ora giace sul fondo della scatola, camuffata tra le riviste pornografiche e gli altri memento dei suoi diciassette anni di vita, è il suo certificato di nascita. Rubarlo è stata una mossa azzardata, non progettata (voleva solo eliminare dall'equazione la prospettiva di lasciare un'arma carica nelle mani di un drogato), ma, quando se l'è trovato in bella vista, la tentazione è stata più forte del raziocinio.

Tenere con sé il certificato di nascita vuol dire tenersi vicina la possibilità di andare via. E adesso che ha compiuto diciotto anni, quel foglio sembra richiamarlo con più insistenza, come se lo sapesse che oggi è una ricorrenza particolare, la fine dei suoi doveri di figlio e il principio del suo futuro da adulto; per questo responsabile solo di se stesso. 

La maturità, tuttavia, non cancella gli obblighi da fratello maggiore: non si perdonerebbe mai se dovesse succedere qualcosa a Jamie in sua assenza. Quindi, richiude il coperchio, nasconde la scatola sotto il solito mucchio di vestiti e cerca di scacciare il pensiero con cose più allegre. Cose che ha desiderato da più di un mese a questa parte. 

Harry, per esempio. E il fatto che nel pomeriggio usciranno insieme.

L'aspettativa di trascorrere del tempo con lui, da soli, gli stringe le viscere in tanti nodi di eccitazione. Ha organizzato tutto.

Emette una specie di sbuffo di disapprovazione nel rendersi conto di quanto si sia rammollito – pianificare primi appuntamenti non è proprio da lui – che si esaspera quando, in piedi davanti alla finestra, lo sguardo gli cade sull’attrazione di fronte alla loro monofamiliare.

Lo si potrebbe chiamare quasi un segno.

A qualche metro da quella che, a sommi capi, è definibile come la veranda – una pedana arrangiata alla bell’e meglio, con una porta a zanzariera bucherellata – c’è un cartellone pubblicitario grande abbastanza da essere avvistato dallo spazio: una struttura a quattro pali sopraelevata che regge la fotografia di un uomo tirato a lucido, in posa come se fosse in corsa per il Senato. Banalmente, pubblicizza invece una ditta di costruzioni e la minaccia, quasi meschina, che presto o tardi il parco roulotte sparirà in favore di villette calcinate e rispettose, glassate come dolci alla panna.

“Il futuro a portata di casa” è il bello slogan che accompagna il nome della ditta: Sanders Wood House. Inutile dire che sia lo slogan sia l’uomo raffigurato sono mal visti, qua attorno. Tra i vicini corrono delle storpiature pittoresche: “Lo schifo a portata di casa”, “Altra merda per gente borghese a portata di portafoglio”... E queste sono le più lusinghiere. 

A Blake non dispiace, in verità. Nell’austerità Repubblicana del signor Sanders (ha la stessa faccia contaballe di Nixon quando assicurava che sarebbe andato a fondo della faccenda), nella linea del mento e nella parte superiore delle sopracciglia, ci riconosce una somiglianza col figlio.

I primi mesi lo odiava, però. Gli ricordava tutto quello che detestava e che, al contempo, bramava ottenere. A volte, quando la furia di suo padre scoppiava e si ritrovava a fare da scudo a Jamie contro le botte, e dopo aveva bisogno di stare da solo e il dolore lo teneva sveglio, usciva nel cuore della notte a pisciare su uno dei pali. Così, per il puro piacere di rovinare qualcosa di pubblico. A volte cercava di arrampicarvisi sopra, come un vigile del fuoco che scappa dal pericolo invece che corrervi appresso; altre li prendeva a calci, sfidando la struttura a piombare giù dal cielo come nel Giorno del Giudizio. Più spesso, fissava l'uomo gigante con sprezzo e gli confidava, la bocca un buco di sangue: signor S, voglio scoparmi tuo figlio fino a fargli dimenticare il suo nome. Questo futuro è a portata per te?

Poi rideva.

Da allora, le cose sono cambiate. Primo, perché il figlio del signor S sembra disposto ad assecondare le sue perversioni. Secondo, perché lui e John sono un sodalizio che funziona, hanno una loro routine collaudata, molto più sicura rispetto a quella che aveva imbastito a San Francisco in solitaria. Suo zio sa cosa succede, sa come prendere Howard, e questo gli permette di rilassarsi, ogni tanto, di non vivere costantemente nella paura di aver fatto tardi o di incappare in un contrattempo per il quale tornerà a casa e scoprirà che suo padre è riuscito nell'intento di mettere le mani addosso a Jamie e averlo fatto pentire di essere venuto al mondo, portandosi via la donna che l'ha dato alla luce.

Finisce la sigaretta con un grugnito, la spegne nel posacenere già ricolmo sul davanzale. Questa merda di paese sta levigando la sua personalità, si sta risucchiando la sua rabbia, come se fosse caduto sul fondo di un bicchiere e Il Grande Uomo lassù si divertisse con una cannuccia. Non è sicuro che gli piaccia. O che sia saggio.

«Jamie!» Batte il palmo sulla parete divisoria che separa la sua camera da quella del fratello. «Jam, alzati, stronzetto, è tardi!»

Bugia. A giudicare dalla tonalità fosca dell’orizzonte, è ancora presto, ma non c'è bisogno che Jamie lo sappia. Impiegano sempre un'eternità per essere pronti, pur conoscendo entrambi il veto che li vuole fuori dai piedi prima che il loro padre rincasi dal turno di notte. 

Si trascina in bagno, dove svuota la vescica e infila la testa sotto al rubinetto. L'acqua fuoriesce a singulti, come se nel passaggio dalla cisterna al tubo subisse una trasformazione e si solidificasse – vista la consistenza, non è da escludersi – ma per fortuna stamani ha un colorito più trasparente che brunastro. E buon compleanno a me! Quando è sufficientemente sveglio da rendersi conto che il suo stomaco sta brontolando, si reca in cucina in una scia gocciolante. 

La stanza è uno spazio multifunzione: cucina, sala da pranzo, soggiorno. Il divano è aperto a letto perché suo padre dorme qui, ha poco senso aprirlo e richiuderlo tutte le volte, e poi il meccanismo a molle è difettoso. Le lenzuola sono afflosciate sulla seduta e sul tavolino da caffè come un paracadute sgonfio. Avrebbero bisogno di un lavaggio a 90 gradi nella candeggina (magari proprio di venire carbonizzate), ma Blake non si azzarda a toccarle. Intanto, perché il suo nome non fa rima con Martha Stewart e poi perché non ci tiene a sapere cosa vi si celi al di sotto, anche se può immaginarlo: stoviglie sporche, lattine di birra, qualche pasticca di efedrina o grammo di cocaina suddiviso in strisce. Se in un piattino o direttamente sul ripiano è indifferente, sempre nel naso va a finire.

Ha insegnato a Jamie a stare alla larga dalla roba di papà – gliel’ha fatto giurare e spergiurare – e finora è sempre stato bravo a onorare la promessa, ma Blake sa benissimo che crescere in mezzo alla birra e alla droga non è salutare. Cos’altro dovrebbe fare? Raccontare una cazzata a suo fratello e sperare che sia la fata Madrina di qualche cartone animato a occuparsi della questione?

Fate attenzione, bambini, oggi vi spiegherò come abitare con un tossico.

Seh!

«Jamie!» urla di nuovo, nell'accorgersi che la porta di suo fratello è ancora chiusa. «Datti una mossa, non te lo dico più!»

Tipico di lui. Dormirebbe anche sotto i bombardamenti, anche se una corazzata facesse crollare la casa, pure con James Hetfield che bercia dalla stanza a fianco.

Infastidito dalla mancanza di reazioni, Blake va ad aprire la camera incriminata per scoprire che è vuota e in ordine, il letto rifatto, ogni oggetto al proprio posto. Una scheggia di panico lo colpisce. Dove diavolo si è cacciato? Le pareti sono spoglie nonostante siano passati mesi dal trasferimento; non ha l'aspetto di un luogo dove dorme un bambino. A essere sinceri fino in fondo, ha l'aspetto impersonale di una camera destinata ad accogliere improbabili ospiti, ma Jamie ha sempre fatto così, ha sempre avuto cura dei suoi averi: se ne stanno conservati come tesori dal valore incalcolabile, riposti in contenitori o valigie pronti al trasloco o a una fuga imprevista.

A differenza tua.

Sì, sono all’opposto in questo: lui è uno che marca il territorio, che definisce gli spazi, che ogni volta che è in una stanza deve fare rumore e farsi notare; più ama qualcosa, più cova il desiderio di possederla, consumarla, fino al suo immancabile deterioramento. Come quel tizio dalle mani magiche che tramutava tutto in oro, con la differenza di tramutare tutto in cenere.

Ma lo puoi controllare, si ripete, lo stai controllando, sono anni che ti controlli. Da quando hai avuto l'incidente...

Oh, ma porca troia!

Stamani gli è andato in avaria il cervello, le paratie stagne del suo inconscio hanno ceduto e stanno riversando fuori i suoi scheletri come misura di contenimento a un annegamento imminente – anche se non sa quale ne sia la ragione (la maturità ha questo effetto?) né dove sia la falla. In ogni caso… Che cazzo di bisogno c’è di pensare all’incidente, ora? Nessuno, nessuno, nessuno; quindi piantala!

E Jamie dov’è?

La risposta si trova sul tavolo, che ha più di un utilizzo: svuotatasche, tavolo da pranzo, scrivania all’occorrenza; nelle camere è già tanto se ci entrano i letti e gli armadi. Al di sopra della tovaglia cenciosa ci sono un sacchettino di raso blu scuro, una banconota da cento dollari e un cartoncino delle dimensioni di un biglietto da visita (Regali? Per lui?). Sul davanti del biglietto vi è riportato un indirizzo di Louisville, nella calligrafia sghemba di John; sul retro, queste parole:

 

Questo è il posto di cui ti parlavo. Per entrare chiedi di Rick e digli che ti manda Owen. Sii prudente, mi raccomando. Lo sai.

P.S. Jamie ha insistito affinché lo portassi io a scuola per lasciarti dormire un po’ di più. Il suo regalo ti piacerà.

 

Sta ancora leggendo le indicazioni di suo zio, come se dopo dovesse recitarle a memoria per un pubblico interessato alle premure di un uomo che fin dal loro arrivo ha esternato affetto senza chiedere nulla in cambio, quando il rumore di un'auto in avvicinamento lo costringe a darsi una mossa (lo strappa anche dalle sue considerazioni prossime alla commozione). Fa sparire il bottino nei calzoni del pigiama, riconoscendo il suono delle ruote del pick-up sul ghiaino. Un suono familiare.

Suo padre è a casa.

Merda!

Suo padre non è mai a casa così presto.

In uno scatto da velocista, calpesta la scia d’acqua e corre a spegnere lo stereo. Il silenzio si sedimenta, gli striscia sulla pelle come la coda di una lumaca, prima che si oda la zanzariera sbattere e la figura imponente di Howard si disegni sul riquadro della porta aperta. 

Non si direbbe che sia un avvinazzato, ha ancora un piglio dignitoso, le guance imberbi, lo sguardo sempre attento, sempre da poliziotto. La stanza si fa improvvisamente più contenuta e ombrosa, quasi la sua presenza alimentasse quel particolare sostentamento per le creature mostruose che si adoperano negli angoli, nelle cantine, in ogni pertugio dove non ci batte mai la luce, e il restante della mobilia si allontanasse timoroso per fargli aria.

O forse è solo la percezione personale di Blake, il ricordo di quello che provava anni addietro e gli è rimasto dentro.

«Dov'è tuo fratello?» domanda suo padre, senza convenevoli.

«John l'ha portato a scuola» risponde lui, sul limite tra la sua camera e il soggiorno/cucina, grato della fortuna sfacciata che hanno avuto. Se Jamie fosse stato qui…

Howard borbotta parole inudibili con voce cavernosa, raggiunge il divano, dove si toglie gli scarponi senza slacciarli e si siede, allungando le gambe sul tavolino coperto dal lenzuolo. Poi estrae un fazzoletto dalla tuta da lavoro per tergersi le labbra secche, un gesto che ormai è diventato un’abitudine.

L’alba al di là della finestra gli incendia i capelli di un alone bronzeo.

«Perché l'ha portato John? La macchina ha qualcosa che non va?»

«La macchina è a posto.»

«Quella merda di istituto ha organizzato una gita? Come se non mi spillassero abbastanza soldi…»

I soldi te li spilla altra merda, papà, non la scuola di Jamie.

«Non c’è nessuna gita.»

«Allora qual è la ragione per cui sei ancora qui?»

È il mio cazzo di compleanno, ti basta come ragione?

«Ho un'ora libera a scuola e volevo dormire un po' di più, ma questi cazzo di camion non me l'hanno permesso» dice Blake, nel tono più calmo possibile.

Suo padre gli fa venir voglia di dare fuoco al mondo con un cerino, pure a se stesso e dall'interno.

Howard lo trafigge con una delle sue solite occhiate: è l’unico strumento nel suo equipaggio da genitore che funziona ancora, il sapere sempre quando mente. Blake mantiene il contatto visivo come a sfidarlo a farglielo notare, e anche perché suo padre odia i deboli. Quando Jamie non è nei paraggi, tuttavia, è più mansueto e tollerante nei suoi confronti, lo accetta e riconosce come suo pari: nel loro rapporto malato e incasinato, è evidente che lo rispetti.

Blake è tutto tranne che un debole.

«Portami da bere» capitola Howard, il telecomando orientato verso il televisore. Ha già perso interesse.

Le risate registrate di una soap opera esplodono subitanee a infondere un finto tepore domestico, inseguono Blake nel tragitto fino al frigo. Dal ripiano più basso prende due bottiglie di birra, da quello centrale la confezione di pane a fette e il barattolo di marmellata. Gli è passata la fame, ma i soldi scarseggiano, non ha intenzione di sprecarli per un pit stop alla caffetteria scolastica solo perché la rabbia è immune al cibo solido e si nutre di rancori e risentimenti.

Ha già saltato troppi pasti per un ragazzo della sua età, soprattutto in California. Negli ultimi tempi, poco dopo che suo padre aveva perso il lavoro e due terzi delle loro finanze finivano sperperati in alcolici, il pranzo a scuola era l'unica occasione in cui Blake mangiava. Si abbuffava, in verità, lo faceva perché così la sera poteva rinunciare alla sua razione e darla a Jamie. Sempre meglio che fare la fila alla caritas o racimolare qualche buono pasto alla Saint Ludwig in mezzo ad altri raccattati e spiantati. Questo, almeno, finché avevano trovato un luogo che li accoglieva a qualunque ora, l'Eden Rib, dove Eve, la proprietaria, li aveva presi in simpatia e adottati come i sostituti di quei nipoti che aveva ma che il figlio non le faceva mai vedere. 

Blake sospettava dipendesse dall'attrezzo maschile che Eve aveva in mezzo alle gambe: creava non poca confusione la sua richiesta di farsi chiamare nonna, quando – ancora per poco, sosteneva – ufficialmente era il nonno.  

Per la progenie di Howard e Mary-Anne Newell, invece, il problema con la transizione da uomo a donna di Eve non sussisteva. Jamie la vezzeggiava di attenzioni, la considerava la sua nonnina speciale e faceva con lei tutte quelle cose che i bambini soli fanno con le persone anziane sole; e così, cialde appena sfornate, sciroppo d'acero e panna montata cadevano a pioggia nei loro piatti ogni volta che superavano la soglia, a prescindere dall'orario.

Non c'era poi molto altro sul menù, quantomeno nella sezione pietanze: l'Eden Rib era un ritrovo per gay, lesbiche, bisessuali e trans, uno dei primi locali apertamente queer ad accogliere tutti quei tipi di clientela, in barba alle faide che si creavano anche tra le loro fazioni.

È uno dei luoghi di cui Blake sente più la mancanza.

Suo padre resta in silenzio nell'accettare le birre, il volto sagomato dalle luci fluorescenti della TV. Non un "grazie" né un "tanti auguri" pescato erroneamente dalla memoria: sono anni che si dimentica del suo compleanno, ad oggi il regalo più bello che gli abbia mai fatto è stato quello di non crepare sul tappeto prima del tempo.

Spesso, però, quel desiderio è così paralizzante che Blake è costretto a conficcarsi un'unghia a sangue nella gengiva per non ammazzarlo con le sue stesse mani. Altre, è terrorizzato da cosa accadrebbe se succedesse sul serio, se un giorno rincasasse e scoprisse Howard riverso a terra, vittima di un'overdose. Ogni tanto, momenti fugaci per cui si detesta ma che comunque ci sono e non riesce a eliminare del tutto, è contento che sia ancora vivo. 

È suo padre, dopotutto.

E non è sempre stato così.

Quando la mamma era ancora viva ed erano solo loro tre, il giorno del suo compleanno erano inseparabili. Blake e Howard, Howard e Blake; non avresti potuto dividerli. Una volta, l'aveva portato in gita al distretto dove lavorava. I suoi colleghi se l'erano passato di braccia in braccia come il testimone di una staffetta, prodigandosi nel ruolo di ciceroni per quel tour personalizzato a suo beneficio: lo avevano condotto prima nella stanza degli interrogatori, poi alle celle (piene di ubriachi – turisti che avevano alzato il gomito e habitué di bar e locali – e di qualche picchiatello che si era denudato del costume tra i bagnanti in spiaggia e aveva messo in mostra le sue grazie) e dopo nella stanza per la rilevazione delle impronte. L'agente assegnato al compito era stato gentile: scompigliandogli i capelli, nella rappresentazione da manuale del poliziotto di quartiere, lo aveva invitato a premere le dita nell'inchiostro e in seguito sul cartoncino dedicato alla suddivisione delle stesse: pollice, indice, medio… Quando l'aveva consegnato alla mamma, poi, nel pomeriggio, Mary-Anne gli aveva detto che erano le più belle impronte e le più belle creste che avesse mai visto.

Dalla morte di lei, suo padre è stato rimpiazzato da un replicante, un sosia, un mutaforma infarcito di etanolo, paglia al posto del cuore. Non è più la persona di prima, è pieno di odio e irascibile ferocia; il lutto e la nascita di Jamie hanno riscritto il suo DNA tanto a fondo, da rendere Blake insicuro sul fatto che sia realmente esistito quell'Howard lì, che sia realmente accaduto che abbiano trascorso bei giorni, che gli abbia realmente voluto bene.

Fa colazione sforzandosi di mangiare, riempiendosi la bocca di cibo per sopprimere quel fiume di ricordi acidi che gli monta dentro. Ha voglia di urlare, di prendere a pugni il muro, di scaraventare la tazza sul pavimento e combinare un casino, anche col rischio che suo padre gli insegni l'educazione a suon di manrovesci e pedate. Non fa niente di tutto questo, continua a infilzare la torre di panini alla marmellata usando la forchetta come una spada. Addenta un pezzo, poi un altro, poi un altro ancora, susseguiti da sorsi di latte freddo che hanno il sapore e l'effetto di un anestetico. 

Ogni tanto lo capisce Howard: ubriacarsi e dimenticare ha il suo fascino.

Al termine, è nauseato. Dalla sua vita, dall'uomo ipnotizzato sul divano che si abbevera dalle bottiglie e dalle cazzate della televisione. Ripone tazza, piatto e forchetta nel lavello, dopodichè, in bagno, si fa una doccia egualmente veloce e fredda: prima uscirà di casa, prima si sentirà meglio. In camera, non ha il tempo di scegliere un vestiario adatto all'appuntamento con Harry e poi, se si mettesse troppo in ghingheri, suo padre potrebbe fargli domande o peggio ancora obbligarlo a rientrare prima del coprifuoco. 

Rimane sul classico con i jeans, una maglietta bianca, le Nike e lo Sherpa (un acquisto di John recente – suo zio non ha bisogno di aspettare qualche ricorrenza per fargli dei regali). Questo gli fa tornare alla mente quelli per il suo compleanno, che trasferisce dal pigiama ai pantaloni. Nel taschino del giubbotto infila anche due spinelli, giusto per movimentare la giornata, poi si attarda un istante di più a guardarsi allo specchio.

Gli piace quello che vede, è sempre stato vanesio ed è consapevole dell'effetto che provoca nelle altre persone: Dio l'ha fornito di un materiale genetico eccellente; suo padre di una tempra da cattivo ragazzo che, inspiegabilmente, colpisce nel segno.

E lui ci sguazza, l'ha fatta sua, l'ha resa una veste da indossare all'occorrenza. Se fingi tanto a lungo di essere sicuro di te, alla fine finirai per crederci.

Accenna un sorriso, ammicca, fa l'occhiolino, prima di passarsi un po' di gel sui capelli e spruzzarsi una dose generosa di colonia. L'orecchino tintinna gaudente a ogni movimento; se la gode un mondo, lì appeso.

«Non ti starai guardando allo specchio un po' troppo a lungo? Sarai mica diventato una checca?»

La voce di suo padre gli rovina la festa. Nello specchio, Blake vede che se ne sta appoggiato allo stipite della porta, una sigaretta dietro l'orecchio, gli occhi diluiti dalla birra.

«E anche se fosse?»

La risata che ne consegue è greve, già esasperata dall'abuso di alcol.

«A volte la mela cade lontano dall'albero ma non troppo dal frutteto: hai preso dal ramo guastato della famiglia.»

Meglio che essere come te.

Non realizza di averlo detto a voce alta finché è tardi: con uno scatto troppo fulmineo per essere bloccato, Blake viene spostato in malo modo dalla traiettoria dello specchio e sospinto in avanti a premere la faccia contro l’armadio, il braccio piegato all’indietro, il peso di suo padre a schiacciarlo. Reprime il grido di dolore che gli affiora alle labbra: l’angolo del gomito è al suo massimo di estensione, un altro po’ e l’osso finirà per spezzarsi. 

Howard è un alcolista atipico, ancora veloce e scattante come quando era in polizia.

«Sei proprio come Johnnie boy, un concentrato di ingratitudine e merda repressa» sussurra lui, il fiato rancido, il tono da sermone della domenica. «Ma qui non ti conviene fare tanto il depravato, altrimenti finisci in gattabuia o in qualche centro di conversione dove ti faranno scopare fiche fino a fartelo sanguinare. Pensi che sia quello di cui hai bisogno?»

«No.»

«Pensi che sia quello di cui io ho bisogno?»

«No.»

Per favore, papà, così mi rompi il braccio.

«Non credo di aver sentito, forse lavorare in quel cesso di fabbrica mi ha rovinato l'udito. Puoi ripetere?»

«No, signore» esplode Blake, e le sue parole sono quasi un ringhio.

«Bene.» La pressione del corpo di Howard si attenua e poi scompare del tutto. La morsa delle sue dita strette a pugno si apre, e Blake ricomincia a respirare. «Ti ci lascio marcire in uno di quei posti, se dovesse succedere, fidati di me.»

Oh, non dubita delle sue promesse.

Suo padre ne va senza aggiungere altro, lasciandolo a massaggiarsi il polso, umiliato e sconfitto. Howard sa come non imprimere segni che potrebbero sollevare un vespaio. Un conto sono i lividi da rissa, un altro quelli da maltrattamento. Blake reclina lo sguardo lacrimoso sulla miriade di volti alla parete, testimoni silenziosi degli abusi: gruppi metal e rock che ascolta abitualmente, la Basinger che lo occhieggia dalla sua eterna posa seducente e non fa nulla per aiutarlo. Per un attimo, il desiderio di diventare una delle tante facce di carta è così forte da farlo singhiozzare. 

Piuttosto, in un vortice furibondo, si asciuga le guance, recupera il pacchetto di sigarette e le chiavi della macchina ed esce di casa in silenzio, azzardandosi a incrementare il passo soltanto quando è sicuro al 100% che suo padre non possa vederlo. Corre fino all’auto, ci salta sopra, mette in moto. La vibrazione del motore e il ritornello di Breaking the law tranquillizzano i suoi nervi agitati. Il bisogno di partire sgommando e sfrecciare tra i camion a velocità folle è un’idea che lo stuzzica, ma sa che cedere a quella parte di sè significherebbe rinunciare ai compromessi e ai sacrifici che porta avanti fin dal giorno dell’incidente. E ne ha fatti troppi, per permettere che suo padre vinca.

So much for the golden future, I can’t even start
I’ve had every promise broken, there’s anger in my heart

You don’t know what it’s like, you don’t have a clue
If you did you’d find yourselves doing the same thing

 

Chiude gli occhi togliendosi di nuovo dalla testa il pensiero del certificato di nascita nell’armadio, si prende un attimo per normalizzare il respiro, per poi tornare a fissare la gigantografia del signor Sanders, che da lassù sembra un Dio compiacente, pusillanime, menefreghista su ciò che succede sulla terraferma. Per qualche oscura ragione, ha il potere di farlo sentire meglio, forse perché la somiglianza con Harry si fa sempre più marcata.

È su di lui che vira la sua mente, si riempie di cose sconce che lo galvanizzano e riducono la figura di suo padre a una capocchia di spillo (ancora acuminata, ancora conficcata nel punto in cui la spalla si congiunge al braccio, ma meno asfissiante). Allora, si concentra sul volto di Harry, sulla bocca di Harry, su come voglia deturparla di sperma e baciarla fino a renderla gonfia e arrossata; e dopo percepirla su di sé, su ogni centimetro di pelle. La fantasia, da impalpabile qual è, si fa subito solida e gli smuove il cavallo dei pantaloni, che ora gli vanno stretti.

Ci manca solo che si metta a fare il maniaco nel cortile di casa.

Solo che l’eccitazione è più virulenta del raziocinio, per cui sbottona i jeans, infila la mano nelle mutande per darsi sollievo, talmente avviluppato nel suo sogno erotico da infischiarsene del resto, da infischiarsene di suo padre, lo sguardo incollato al rispettabile mezzobusto del signor Sanders. Un lamento gli si origina nel palato, che tuttavia ha vita breve e viene inghiottito dal passaggio di un ennesimo camion, dallo strombazzare così acuto del clacson che lo fa sobbalzare per lo spavento e si porta via la sua erezione, insieme alla stabilità del terreno.

Maledetti camion del cazzo!

Ma è così divertente il tutto che scoppia a ridere. Come un pazzo. Come il depravato che è. Qualunque centro di conversione sarebbe inutile.

«Mi scoperò tuo figlio, signor S, fosse l’ultima cosa che faccio» promette, quindi, prima di ricomporsi, accendersi una sigaretta e togliere il freno a mano.

Breaking the law, breaking the law canta ancora la radio, quando supera l’accesso al parco roulotte.

 

SPAZIO AUTRICE: per il titolo non avevo alcuna idea, all'inizio l'avevo chiamata semplicemente Birthday boy, visto che è ambientata durante il compleanno di Blake, ma non mi faceva impazzire. Quindi mi sono messa a cercare il significato del nome Blake e ho scoperto che potrebbe essere una storpiatura della parola blac (un nomignolo per chiamare coloro che avevano i capelli o la pelle scuri) o della parola blaac (un nomignolo per chiamare coloro che avevano i capelli o la pelle pallidi), pertanto mi si è accesa la lampadina e ho deciso di rinominarla dark;pale, che tradotto alla lettera significa scuro pallido. Secondo me ci sta tantissimo per Blake, che è un po' bianco e un po' nero. Ma lascio la questione al vostro giudizio.
Ci sono alcuni riferimenti nella shot, non è necessario conoscere la storia madre per comprenderli al 100%, ma sicuramente aiuta. Ci sono anche riferimenti di cultura pop e generale, il discorso di Nixon su Watergate, per dirne uno, o l'altrettanto celebre Martha Stewart. La Basinger che Blake nomina alla fine è Kim Basinger, che nel lontano 1986 girò 9 settimane e mezzo in compagnia di Mickey Rourke ed entrò nella storia (erotica) con la sua sottoveste succinta. L'inserimento dei camion è il mio personalissimo omaggio a Pet Sematary (con tanto di canzone dei Ramones) di Stephen King. Lewis e la sua famiglia, infatti, abitano davanti a una strada trafficata di camion (hanno un ruolo fondamentale nella storia, oserei dire). Blueboy, invece, è la controparte maschile di Playboy.
Mentirei se dicessi che non mi sono divertita un sacco nello scrivere questa storia. Blake e Howard (è stato una scoperta) mi hanno entusiasmato un sacco, mi hanno preso con il loro rapporto malato e mi hanno conquistata, lasciandomi carta bianca sul mio sperimentare con loro. Inutile dire che Blake è indubbiamente uno dei personaggi più belli che abbia mai scritto (nella storia madre, lui e Harry si contendono il primato insieme a John). A proposito di John, qui è solo accennato, ma spero si capisca quanto stia influenzando Blake, quanto sia importante per lui e Jamie. Di sicuro è il padre che avrebbero dovuto avere... Se non fosse che John è gay. Ve lo aspettavate? Vi suggerisco di ricordarvi il posto che Blake legge nel cartoncino, perchè avrà un ruolo particolare nella storia madre. 
Il nome Mary-Anne, per la madre di Blake, mi è venuto mentre scrivevo la shot. Non avevo idea del suo nome finchè non ho iniziato a scrivere.
Altra cosa a cui non avevo pensato è l'Eden Rib, questo locale gay gestito da una donna trans. Spero che coglierete il richiamo al fatto che lei abbia deciso di farsi chiamare Eve e il nome del locale, che tradotto significa: la costola dell'Eden ;)
E niente, se aveste voglia di dirmi cosa ve ne pare di questa shot, ci terrei tantissimo, perchè ci ho messo veramente tutto il mio amore per IN MY HEAD, per la scrittura e per questi personaggi in generale.
Alice




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