Al bivio della nostra amicizia

di Olivia Spich
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Stiamo mangiando, è una bella giornata. Il rumore della campana ci desta un attimo di preoccupazione, mischiata all'eccitazione. Ci guardiamo. Sparecchio velocemente, Marco prende le chiavi, Mariagrazia si mette il giacchetto. Scendiamo in garage, Marco mette in moto l'ambulanza. Partiamo. La via la riconosco, ci venivo molto spesso anni fa. Il quartiere non mi è più così familiare, ma non me ne faccio una colpa. Marco si ferma, tira il freno a mano.

«Veloci, pulsiossimetro e monitor per la pressione».

Mariagrazia afferra il necessario, io infilo i guanti. Scendiamo, trafelati, e mi rendo conto di dove siamo. Vacillo un attimo, “non può essere”. Marco mi fa un cenno, scatto. Suoniamo al campanello. Ci fanno entrare, ci esortano con un «Dai, muovetevi!». Il primo impatto mi fa una certa impressione, ma decido che adesso le priorità sono altre. Ci fanno salire al primo piano, entriamo nel bagno. A terra vedo distesa una figura che riconosco subito, e il mio cuore perde un battito.

«Daniela!» la chiamo. Reagisce con un mugolio e un pianto mal celato. Mi inginocchio, le misuro la pressione. “I parametri sono buoni” gioisco dentro di me.

«Cosa è successo?» mi rivolgo a sua sorella minore Samantha, che intanto tiene un braccio sotto alla sua testa.

«Non lo so, si stava asciugando i capelli, ha iniziato a sentire dolore alla pancia e si è accasciata a terra».

«Senza nessun motivo?» dice Marco.

«Non so» risponde Samantha, vaga.

Daniela farfuglia qualcosa, come se avesse la bocca impastata. Samantha avvicina l'orecchio alla sua bocca di sua sorella per ascoltare meglio.

«Ah, giusto! Stamani le è iniziato il ciclo» dice, preoccupata.

«Di solito sente dolore?» le chiedo.

«Non così forte» risponde Samantha, senza però smentire.

Marco interviene e le chiede dov'è esattamente che le fa male. Daniela, senza aprire gli occhi, porta una delle sue mani all'inguine, facendo intuire che il dolore sia localizzato in quelle parti.

«Quindi se spingo qui non senti niente?» dice Marco, affondando una mano al centro della pancia di Daniela. Lei scuote la testa. Lui continua a tastare tutto il torace finché non è chiaro che non le fa male nient'altro. Poi mi guarda, io guardo lui. Sposta l'attenzione sui parametri. La sua valutazione è rapida e ponderata, inquadrare una situazione clinica per lui è naturale come respirare. Esce dal bagno. La madre di Daniela, affacciata alla porta, si sposta leggermente indietro senza cedere molti centimetri.

«Signora, i parametri di sua figlia sono buoni, apparentemente sembra che il problema sia proprio il ciclo, quello che possiamo fare noi è portarla al pronto soccorso»

La mamma di Daniela inarca un sopracciglio. “È stizzita” penso.

«E quindi mia figlia avrebbe solo un dolore mestruale?»

Marco la osserva, cerca di capire chi ha di fronte. Il modo in cui parlare fa la differenza, sempre.

«I parametri fanno supporre questo, tuttavia un controllo al pronto soccorso può chiarire ogni dubbio» rilancia lui. La mamma di Daniela sembra aver cambiato di poco la sua espressione. “È un po' più soddisfatta, anche se non mollerà” riconosco.

«Bene, allora non perdete tempo» dice suo padre dalle scale.

Sono sempre stati protettivi, molto più di altri genitori. E ne hanno avuto motivo, purtroppo. La loro famiglia ha avuto dei momenti belli e dei momenti brutti, io ero lì e conosco ogni dettaglio. Le loro perdite, il loro dolore. Mariagrazia scende a prendere ciò che ci serve. Io mi avvicino quanto posso al corpo di Daniela. Lei apre gli occhi, mi riconosce. Mi chiama per nome.

«Sì, sono io» le sorrido. «Forza, un po' di coraggio e adesso andiamo al pronto soccorso. Vedrai che starai bene» la tranquillizzo. Le metto una mano sulla fronte, la sua temperatura è giusta. La accarezzo come posso, anche se non mi sento del tutto a mio agio. Voglio solo farle sapere che andrà tutto bene.

Mi chiedo solo adesso se i suoi genitori mi hanno riconosciuto quando sono entrata in casa loro. Del resto sono passati molti anni. Io e Daniela siamo state compagne di classe dall'asilo fino alle superiori. Conoscevo ogni particolare del suo vissuto, della sua quotidianità. Eravamo migliori amiche, poi qualcosa si è spezzato. Alle medie, leggendo il suo diario di scuola, trovai delle scritte poco simpatiche che mi riguardavano. Non le chiesi mai spiegazioni, non ne avevo il coraggio. Ci allontanammo mano a mano. Più ero distante più riuscivo a capire che non eravamo fatte per essere amiche, avevamo modi e tempi diversi di crescere e di pensare alle cose. Non ero più disposta ad ascoltare le chiacchiere, le malignità che rivolgeva a coloro che a giorni alterni erano suoi amici. Ero stanca. Non era quella che avevo conosciuto io, così mollai. Non le parlai più come facevo prima, non mangiavamo insieme a ricreazione, non uscivamo insieme di scuola. Non andavo più a casa sua il pomeriggio.

«Inseriamo il telino sotto di lei, poi la giriamo dall'altro lato e la facciamo scivolare sopra. Pronte? 1, 2, 3» eseguiamo le manovre che Marco coordina. Adesso Daniela è sopra il telino, e si raggomitola dal dolore. Facciamo scivolare le maniglie attorno ai nostri polsi, Marco conta di nuovo. 1, 2, 3. Tiriamo su e il peso di Daniela si distribuisce lungo tutte le nostre braccia. La trasportiamo lungo le scale, sotto l'occhio vigile dei suoi genitori. La adagiamo sulla barella e la copriamo.

«Vengo con voi!» non chiede il permesso, la mamma di Daniela.

«Bene, non ci sono problemi» risponde prontamente Marco. Lo sguardo della signora sembra voler dire “Sarà meglio che non ce ne siano”. È sfrontata, la vita le ha dato molto ma le ha anche tolto. È un'insegnante, e questo ha fatto per tutta la vita. Insegna agli altri. Anche se proprio tutto non sa.

«Può accomodarsi qui» Marco le indica il sedile sull'ambulanza, lei si allaccia le cinture.

«Daniela come va? Un po' meglio?» chiede Mariagrazia. Daniela farfuglia qualcosa. Gli occhi chiusi, la bocca secca. Che io ricordi ha sempre avuto questi problemi con il ciclo. È sempre stata anche un po' delicata, ma questo lo tengo per me. Marco ci dà uno sguardo dallo specchietto retrovisore appena prima di partire. Daniela apre gli occhi, allunga la mano. D'istinto la afferro e la porto sul suo grembo.

«Daniela. Che scherzi sono questi? Ci hai fatto preoccupare» le dico, anche se non mi risponde. Sua madre osserva tutto, in silenzio. Poi decide che è il momento di dire qualcosa.

«Chi di voi è il medico?» mi guarda. Questa domanda mi stupisce. Rimango un attimo sbalordita. Lei continua. «So che tu non lo sei di certo. Per questo l'ho chiesto». Mi dice, con una punta di cattiveria. Lascio la mano di Daniela senza accorgermene, e fisso sua madre come una che non ha capito bene la domanda o che non sa rispondere. Effettivamente mi sento proprio così.

Nella mia testa, prepotentemente, si fa largo un ricordo. Vorrei scacciarlo, non è il momento, ma le immagini mi tormentano e non riesco a non pensarci.

Ero ad una veglia serale in ricordo di un defunto. Per caso mi sedetti accanto alla madre di Daniela. La salutai con un sorriso, fece altrettanto. Alla fine della veglia si rivolse a me chiedendomi del mio percorso di studi.

«E che università fai?»

«Giurisprudenza» risposi sorridendo. Il ghigno che le si disegnò in faccia è una delle cose che difficilmente dimenticherò.

«Mamma mia, non potrei mai studiare quelle cose» disse. Immaginavo si riferisse al fatto che è davvero difficile. Tutti me lo dicevano. Ma lo facevano con uno sguardo di terrore mischiato ad ammirazione. Il suo sguardo invece urlava disprezzo nei miei confronti.

«Mi fanno davvero schifo» continuò, quasi soddisfatta. Persi il sorriso di colpo. Rapidamente cambiai d'umore. Con poche parole sgangherate mi aveva demolito. Era stata ingiusta. Certe cose andrebbero solo pensate, non anche dirle.

«Non è per tutti, questa università» le risposi, secca.

«No, certo. A me non interesserebbe mai, comunque. Non capisco come fai!» e salutandomi se ne andò. Avrei voluto gridare di rabbia ma non dissi niente. Daniela non era mai stata una studentessa modello, non era riuscita a fare molto nella sua carriera scolastica, e sua madre aveva sempre aspirato a farla studiare con persone che avessero una media alta. L'unico problema di Daniela è che era riuscita a farsi odiare da tutti. Quella sera, sua madre, espresse solo la sua frustrazione. Negli anni lo avevo capito, ma sul momento rimasi con l'amaro in bocca per giorni. E adesso mi sembra di rivivere quei momenti. Sta cercando di nuovo di farmi sentire una nullità, una persona che non ha raggiunto traguardi, che ha fatto scelte sbagliate. Perché fa così?

Mariagrazia mi guarda e decide di intervenire.

«Nessuno di noi, signora. L'automedica viene attivata solo per gravi emergenze, noi siamo solo dei soccorritori» risponde Mariagrazia al posto mio, e le sono grata perché ancora sono attonita.

«Ah» dice lei, con fare scocciato.

Non riesco a credere che abbia voluto umiliarmi. Lo ha fatto in modo velato, ma è stato pungente come sempre. “Che tu non sei un medico lo so” scimmiotto dentro di me la sua voce. “Sei solo una soccorritrice, sei quasi inutile. E poi che schifo giurisprudenza. So che non sei abbastanza. So che anche se mia figlia non è una cima è migliore di te" continuo ad imitarla. La rabbia mi sale dentro. Guardo Daniela, che con mia sorpresa mi sta fissando. Cerco di sorriderle. In fondo non è colpa sua.

«Siamo quasi arrivati» dico. Sua madre fa un cenno e guarda fuori dal finestrino. Io ingoio il rospo e allontano il mio sguardo. Come vorrei non essere mai stata qui, oggi.

Entriamo nel parcheggio delle ambulanze. Marco tira il freno a mano. Mi alzo, scendo e apro il portellone posteriore. Tiro fuori la barella ed entro in pronto soccorso. Al triage un'infermiera ci chiede cos'è successo. Marco le spiega tutto, mentre io e Mariagrazia procediamo allo sbarellamento.

«Bene, siete liberi. Buon lavoro» ci dice l'infermiera. Mi volto verso Daniela e sua madre. Non riesco a salutarle. Loro guardano l'infermiera come fosse un libro pieno di risposte. Cerco il loro sguardo finché non esco dal pronto soccorso. Ma loro non ricambiano mai. Sembra che debba finire così, come è finita la nostra amicizia. Mi volto definitivamente anche io, e mi rassegno.
Mi avvicino all'ambulanza, tolgo i guanti e apro la portiera. Davanti a me vedo una figura venirmi incontro. È il fratello di Daniela che è giunto al pronto soccorso appena ha saputo. Mi guarda e ho già capito.

«Entra da qui» indico la porta che ho di fianco. «Ti chiameranno i medici appena sanno qualcosa» dico. Lui mi fa un cenno di riconoscenza, e senza dire niente si avvia dentro al pronto soccorso. Lo vedo sparire dietro alle porte automatiche e mentre salgo in ambulanza decido che doveva andare così.

«Dai, torniamo in sede. Oggi sento che usciremo ancora!» dice Mariagrazia. Marco la maledice su due piedi. Ridiamo. Mi sento più libera. Finalmente è finita.



 

Qualche tempo dopo

Passeggio tranquilla accanto al mio uomo, scherziamo. Samantha mi viene incontro. L'avevo vista, ma mi aspettavo che non mi salutasse. Non abbiamo rapporti da un decennio, e non so perché adesso mi si sia piantata davanti.

«Ciao!» mi saluta. Ricambio il saluto e aspetto che dica altro. «Daniela sta bene. Aveva dolore per colpa del ciclo, come avevate constatato voi. Voleva ringraziarti» mi dice, un po' imbarazzata. Non so perché abbia sentito il bisogno di dirmelo, ma mi viene a mente che qualche settimana fa Daniela mi aveva mandato la richiesta di amicizia su Facebook. Ci ho pensato per tanto tempo, e alla fine l'ho cestinata senza “accettarla”. Ho pensato fosse davvero una cosa stupida essere amiche virtuali senza esserlo nella realtà. Ma forse voleva solo ringraziarmi. Forse voleva solo farmi sapere che sta bene. Magari voleva dirmi che mi aveva dato la mano perché aveva paura. “Non le ho dato la possibilità” penso. E sento che il dispiacere si fa largo in me. Guardo Samantha. È piccola ma ha un cuore grande.

«L'importante è che adesso stia bene» le sorrido. «Salutala da parte mia, per favore» Le sue guance si colorano di rosso e non so perché, ma mi sento meglio.

«Certo, lo farò. Stammi bene»

«Anche tu»

Ora so cosa è giusto per me. Chi se ne frega di tutto il resto. Chi se ne frega delle parole cattive. Chi se ne frega del passato. Chi se ne frega di quello che non è andato, di quello che ci ha fatto stare male e di quello che ci ha fatto allontanare. Non torneremo amiche. Non torneremo a tenerci per mano mentre ci diciamo che ci vogliamo bene. Non saremo presenti nei momenti più importanti della nostra vita e non avremo le lacrime di felicità l'una per l'altra. E va bene così. Il tempo deve fare il suo corso. Siamo andate avanti. Rimarrà sempre un legame, un filo nascosto, un piccolo segno del fatto che per un tratto del nostro percorso abbiamo camminato insieme. Ma le strade si separano perché ci sia la possibilità di imboccarne altre. È giusto così. Il futuro non sappiamo cosa ci riserva, forse è già stato scritto oppure no. E chissà che le nostre strade non si ricongiungano, un giorno. Ma adesso siamo al bivio della nostra amicizia e, per la prima volta, la nostra decisione conterà qualcosa. Ti porterò nel cuore, ma continuerò a camminare. Vorrei prendere il telefono e augurarti buon viaggio, buona vita. Ma non lo farò.

Il vento spazza via tutti i miei pensieri, lasciandone solo uno in piedi. "Tramonterà anche questo giorno, e domani ne inizierà un altro". Il mio uomo mi chiede se è tutto ok.

«Adesso sì» .

 





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